giovedì 1 settembre 2011

I miei due grammi di ragione sono esauriti (cit.)

Non sai quanto ti adoro quando mi dici che vivere è la cosa più facile del mondo. Mi si tinge lo stomaco di arancione quando sei così ottimista, mi sento subito avvolta nel più stupido paio di braccia, mi sembra veramente tutto così facile, e la paura di svegliarmi viene risucchiata dagli alberi di fronte alla finestra. Il mondo facile e la vita facile, e una bocca che ti sveglia la mattina e un pene in erezione quando stai per aprire la porta di casa per andare a lavoro e il cibo che chiede di essere scongelato, e la spazzatura di essere divorata da formiche imbecilli e mute.
Mi è bastato un giorno di lavoro per riprendere contatto con la realtà, quella realtà che non vorrei mai diventasse tale, fatta di contatti , di e-mail, di voci finte, di mauromaurizio e nomi stupidi come questi, di bambini deficienti e calendari con culi e tette, una vita fatta di soldi ma spesa con umiltà e umanità, un mondo che seppur un tantino squallido ti fa stare bene a livello umano mentre prima vivevi di rispetto comprato a forza e un paio di bottiglie di vino a sera ripetendo versi di Rimbaud. Quando il lavoro faceva schifo e la vita era meravigliosa e si poteva viaggiare solo con una lezione del professore più presuntuoso dell’ateneo e ridere delle sue cazzate che in fondo erano il tuo pane quotidiano, essere solidali a tutti i lavoratori che faticavano per portare la spesa a casa, non comprenderli e non invidiarli, dire di loro ‘io non sarò mai così’.
Ci sono tantissime cose positive in questa città di merda, tantissime, puoi passeggiare senza essere fissato, puoi ignorare il mondo che ti passa davanti, fare amicizia con mezza Roma nel giro di 12 ore, puoi vedere la gente cadere e rialzarsi da sola, puoi scrivere di lei senza essere visto, godere dei privilegi legati alla finta civiltà, visitare parchi e ville, lavorare, prendere il 3 vuoto la mattina, mangiare dal Greco al Pigneto, dormire con manfredi, godere dei consigli di Daniela e delle tue colleghe, farti la doccia calda, comprarti delle casse e ascoltare la musica da sola nella tua stanza, comprare i colori acrilici per imbrattare tutto il bianco che vuoi, goderti questo cazzo di computer senza nemmeno internet, goderti la vista di una chiesa meravigliosa da sola alla finestra e non sai com’è fatta dentro, vivere di farro bollito e mare dimenticato, amare tante persone lontane, sentire il significato della parola ‘malinconia’, leggere il giornale, semplicemente amare l’indipendenza e odiarla nello stesso tempo perché è fatta di parti buie e persone che chissà come stanno.
Non lo so se vivere qui mi piace, so solo che questa città fa emergere la parte più amabile e anche la più detestabile di me. Gli eccessi che ti uccidono e ti danno la vita, quel bianco che ti si svela per essere odiato e per essere riempito, quella serenità che trovi o in un fondo di bottiglia o in un marciapiede dove facce come la tua sorridono e ti stimolano a forza, quella voglia di parlare che rende inutili i discorsi ma che riempie silenzi lunghissimi.
Grazie e vaffanculo, Roma mia.

Sincerely,

lunedì 22 agosto 2011

Roma dai capelli bianchi



La mattina mi sveglio, in questo nuovo posto, circondata da alberi e clacson, e sono inondata da una luce irreale, quasi finta. Il letto balla e fa strani rumori il pavimento color mattone e le pareti troppo bianche il disordine mentale e fisico odore di detersivo alla lavanda il bagno dello stesso colore delle coperte delle navi. Ci entro, mi ci tuffo ed esco venti minuti dopo con il viso restaurato, vado in cucina, mangio uno yogurt e bevo il caffè seguito a tappo dalla prima sigaretta della giornata.
Lancio un’occhiata alla strada, alla chiesa, alle vite che sgambettano di sotto, e mi sento grande; grande come gli operai, come le colf, come i nonni che non riescono a dormire per più di quattro ore a notte. Mi blocco a guardare le cose più futili, studio la cucina e le posate, il bigliettino caduto per sbaglio in corridoio, le foglie del mio basilico, il ghiaccio che si è formato in freezer. La mattina impiego circa un’oretta per prepararmi perché mi fisso sulle cose inutili.

Poi inizia il giro sull’autobus. Una signora di cinquant’anni circa, affetta da nanismo, urla ‘quanto sono stata scema a pensare che potesse lasciare sua moglie per me, quanto sono stata stupida! Ma adesso, adesso voglio tutto nero su bianco’. Grida con una voce che non è la sua, fissando un punto indefinito davanti a sé. Gli altri passeggeri non la guardano nemmeno, continuano a fissare i finestrini e leggere libri, affetti dal mutismo delle sette.
L’autista, inespressivo, guida piano, appagato dal suo kit portafortuna sulla consolle: telefonini, i-pod e tabloid.
Un signore di settant’anni, seduto nei posti sull’ultima fila, se la prende con la lingua dei conquistadores e, fissando un ragazzo sudamericano inizia ad imprecare: ‘siete delle bestie. La vostra lingua, la lingua dei conquistadores, ci ha rovinati tutti!’.
Scendo sulla Nomentana e sono già esausta, pronta a fumare un’altra camel.




martedì 5 luglio 2011

METRO A - DIREZIONE BATTISTINI ORE 7

Vedi quelli che ti guardano discretamente, con fare distratto, e ti hanno già studiata in un nano secondo. Ci sono quelli invece che lo fanno con insistenza, e di quelli un po’ ti spaventi perché è come se ti scopassero con lo sguardo e sperano in un tuo cenno, seppur immotivato, e vogliono tutto subito.
Io la mattina prendo quella stramaledettissima metro per Termini e mi sento osservata. L’uomo, che ho imparato a studiare in questi mesi, è un animale, come lo sono molte donne che incontro e che conosco. La tragica verità, in questa storia fatta di puzza e di sudore alle sette di mattina, è un uomo che ti scruta e che già dalle prime ore del giorno, è arrapato come un porco. Ci sono varie tipologie: c’è il gay che non guarda mai nessuno, pensa solo a sistemarsi il ciuffo e spolverare con un colpo di unghie la camicia, il palestrato che fa la stessa cosa ma guardandosi anche un po’ intorno, l’uomo d’affari che legge il ‘Corriere’ e non dà confidenza al resto del mondo, c’è l’operaio che guarda i culi di tutte le donne che entrano in metro, il ragazzino con i capelli aereodinamici, depilato possibilmente, e lo sfigato che ti sorride debolmente aspettando che ricambi la cortesia. C’è l’uomo che non ha tempo da perdere e ti guarda con sufficienza, ti sorpassa, ti scavalca. Proprio il tipo che corre la mattina, salutando di fretta figli e moglie e che di sera fa sempre tardi a lavoro.
Devo dire la verità: non c’è nessun uomo interessante in metro la mattina, solo una volta ho visto un ragazzo che mangiava una banana e che non rispondeva a nessun richiamo proveniente dall’esterno, e si faceva urtare e urtare, e spingere; ondeggiava ma continuava a fissare il vuoto con lo sguardo perso e sorridente.
Sulla metro nessuno con il quale poter scambiare due parole. Il massimo che ho sentito la mattina è: ‘scende alla prossima?’, e tu ogni volta rispondi: ‘sì’.
Poi ci sono le donne, con visi molto più tristi di quelli degli uomini, più stanche, più spaventate, più preoccupate, con ottocentomila pensieri in più. Ci sono le donne vere, quelle che devono pensare al lavoro, alla casa, alla famiglia e in particolare a marito, figli, nipoti, compleanni di nipoti e cugini e compagnetti dei figli, all’amore che è finito da tempo, al marito che ha un’altra, alla spesa, a cosa cucinare la sera, a sembrare ancora un po’ attraenti, ai tacchi che seppur scomodi si devono indossare, alla suocera, al corso di catechismo o di nuoto della figlia, al ragazzino che vuole mettere incinta la figlia, a smettere di fumare, alla voglia di fare l’amore, a tutti i libri o i film che si è persa, agli sguardi che ha evitato durante il tragitto, alle ore spese in trucco e in estetista e chissà perché dato che non se la fila nessuno, alle morbose attenzioni del fruttivendolo o del panettiere, ai viaggi che vorrebbe fare con la sua famiglia, all’uomo che la scopa senza dirle ‘ti amo’, ai fiori che vorrebbe ricevere una volta l’anno, al suo compleanno che è lontanissimo, a quando aveva un’altra età, un’altra sicurezza di sé, altre opportunità, al suo capo che la vedrà sempre come un oggetto sessuale e raramente come un essere pensante, al suo stipendio sudato, alla sua ex voglia di vivere e di fare, alle gonne fricchettone del liceo quando anche lei voleva solo divertirsi, alle sue visite ginecologiche, ai matrimoni dei suoi amici, al suono delle risate di prima, alla sua voglia di stare da sola per un po’, ai panni da stirare, alla sua megalomania di una volta, ai panni da stendere, all’affitto troppo caro, al condominio, alla spazzatura e alle pulizie.

Questo scenario metropolitano alle sette di mattina rende isterici, urta, fa male.

Vi auguro vite campagnole, fatte di pensieri legati al ‘che tempo fa’, preoccupazioni un po’ più serie, ragionamenti più semplici e sorrisi mattutini fatti non solo col trucco, sorrisi meno larghi e più sinceri, e una buona dose di povertà materiale.

lunedì 28 marzo 2011

Noi e la Libia

Quindi c’è una videoconferenza a quattro paesi, e l’Italia, si scrive sul ‘Corriere’, non è stata invitata. Ci sono Germania, Usa, Inghilterra e Francia. Ovvio. Giusto, giustissimo.
Leggo che a Lampedusa è la rivolta e questa volta ce lo siamo veramente meritati. Abbiamo dei problemi più grossi noi a cui pensare, e tutti incentrati su di lui, tutti problemi che riguardano lui.
Nel frattempo ho mandato curricula tutto il santo giorno, sperando che qualcuno risponda. Nel frattempo c’è chi dice che è meglio tornare a Palermo e chi da Palermo non se ne può proprio andare e chissà come fa. C’è chi non se ne vuole andare e chi invece è andato troppo lontano ma alla sua terra ci pensa sempre. C’è chi, un po’ per nostalgia e un po’ no, da Bruxelles è tornato a Mazara del Vallo e chi non ci crede più nemmeno per sogno nell’isola nera. 
La mia terra, caro Napolitano, è un’isola, e le isole sono abitate di isolani isolati per scelta. Da noi è rimasto solo chi voleva rimanere isolato e quelle facce che chiedono pietà, per noi non sono altro che disturbatori, fonti potenziali di pericolo, bianchi travestiti che ti tolgono lavoro. Non li vogliono questi immigrati, non li hanno mai voluti. Questo, caro Napolitano, è un fatto nuovo nella storia, perché ora non sono più cento o duecento, ora è il mare che si ribella e vomita nero. Fosse per me prenderei in casa tutti quelli che ci entrano, ma loro non sono ospitali con chi la casa se la vuole prendere con la forza. Non tutti sanno quello che hanno passato, da dove vengono, cosa succede nel loro paese. 
Caro Napolitano, la causa prima di questa situazione tu la conosci bene, e si chiama Berlusconi. A lui si devono gli accordi con la Libia per il gas e il petrolio. È sua la colpa, e di Frattini, e di Amato. 
Non giudicarci Napolitano, noi siamo gli abitanti della regione più regredita dell’Italia, e a Linosa hanno addirittura la luce e il gas ma lì il progresso è arrivato a stento. 
Noi, se non abbiamo uno zio o un parente che conta siamo costretti a sparire, a lasciare genitori, famiglia e tutto; noi se vogliamo lavorare dobbiamo pagare il pizzo; noi ne abbiamo tanti di problemi. 
Li abbiamo viziati questi libici, ecco qua, perché ci faceva comodo e ora ci sostituiranno. Ma noi abbiamo anche altri problemi. Non ci avevamo mai pensato, è vero. Ci pensiamo solo ora, grazie agli egiziani, ai tunisini, ai marocchini, ai libici e a tutti gli africani.

sabato 26 marzo 2011

Ci vuole autonomia per perdersi

C’è un film di Michelangelo Antonioni che si chiama L’avventura. In questo film i due protagonisti sono un uomo e una donna che si amano e che vanno in vacanza con alcuni amici.
Ad un tratto, i protagonisti cambiano. Vanno in barca a vela con gli amici, e lo schermo mostra isole siciliane, tuffi, gabbiani e quant’altro. Ad un tratto la protagonista si perde sull’isola e il protagonista, insieme con gli amici, comincia a cercare la donna.
Tutti la cercano. La cerca il protagonista e la cerca la migliore amica della protagonista; entrambi si chiedono dove sia finita, urlano il suo nome, sembrano impazziti perché non la trovano più tra gli scogli, non si rendono conto di come sia potuto accadere; perdere una donna in mezzo agli scogli non è così semplice.
Non la trovano, urlano e non ricevono risposta. Inizia il giro dell’isola per cercarla, inizia il tour di Chi l’ha visto e non si trova proprio niente. Niente di niente.
Così, dal nulla lei sparisce. Ma la cosa assurda è che la migliore amica della donna scomparsa, nonché della nostra finta protagonista, si innamora del compagno di lei, ovvero del nostro protagonista. Così tra i due comincia una storia, una storia che nessuno di noi telespettatori condivide, una storia sbagliata. Lei è Monica Vitti, e non possiamo che amarla. Ma in questo film interpreta il ruolo di una gran puttana.
Questa storia non è finta, eppure fa schifo perché è comunque un tradimento, è un dimenticare il passato, un errore, una reazione sconsiderata. Questa sembra fin dall’inizio una storia noiosissima e sbagliata, fatta di dipendenze e assurdità, di scarsa autonomia e di satiriasi, per quegli uomini che sanno di averlo duro anche per le bambole, che non distinguono i corpi in una notte di estate rischiosa o ‘a rischio’, che non sanno fare differenza tra l’effimero e il durevole. Questa è la storia di tutti gli uomini, nel peggiore dei casi, che non si accorgono della luce che li illumina e del calore che li riscalda nelle serate più fredde, quando le case perdono le loro forme e diventano nuvole, quando le linee da dritte si fanno curve e le bocche si fanno così funzionali da diventare sporche, quando le orecchie diventano spugne e sentono tutto, anche i rumori delle mani prima di andare a dormire.
Questa è la storia noiosissima di fatti di carne e paranoie, quando il sole sorge e il nervosismo prende piede, e gli occhi ricordano il ghiaccio che spaccavi a mani nude in una sera di agosto.
E questa autonomia che sembra così sacra. Io ci sputo addosso. Non mi convince questa autonomia in questo mondo, non ci vedo niente. Ma dato che me l’hai chiesta me la prendo, e vivo tutto a metà, come se queste giornate fossero metà mie e metà tue e non tutte mie e tue, come se questi occhi guardassero metà tramonto e metà mare, come se vivessi da sola, come se fossi sola, e come se mi piacesse. Quella vaga punta di ingenuità che avevo visto in te era forse solo inesperienza, non voglia di fare le cose in due.
Se c’è una cosa che le nostre madri ci insegnano è di non dipendere da nessuno. Bene. Bene per loro, che non ci hanno mai provato a rendersi la vita migliore condividendola con la persona giusta. È una la vita, una e breve, e quanto valgo, invece di lasciarlo decidere ad una laurea o ad un lavoro, preferisco lasciarlo decidere a me o al mio ragazzo e alla persona che ritengo degna di stare accanto a me. Per sempre deciderò di stare qui perché da qui passano le persone che amo di più e da qui potranno passare le persone giuste per me.
Non è girare il mondo quello che desidero, ma restare, restare in questo paese di vecchi che non vogliono cambiare le cose; e non voglio restarci solo per cambiare le cose ma anche per amare le persone che fino ad ora hanno riempito queste giornate e ridere con loro e piangere con loro. Il planisfero mi serve solo a ricordare che queste persone possono arrivare da tutta la palla.

Archivio blog