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sabato 19 ottobre 2024

Facciamo festa! Ovvero come resistere alla società della prestazione...

 


Quanto facciamo fatica ad essere noi stessi?

Quanto ci disturba oggi stare soli con noi stessi?

Perché sono depresso?

Perché sono iperattivo?

Perché sono in burnout?

Dopo anni di terapia, colui che ha saputo rispondere a tutte questa domande non è stato il mio psicologo ma Byun-Chul Han nel suo saggio ‘La società della stanchezza’.

Siamo ‘soggetti di prestazione’. La prestazione è ciò che ci costringe a lavorare, essere sfruttati e ad autosfruttarci. Quello che chiamiamo  burnout è il risultato di questo sfruttamento e autosfruttamento.

Byun-Chul Han dice che il vero nemico dell’individuo tardo moderno è se stesso. Ciò genera depressione e frustrazione che si esprime in fallimento. Il fallimento deriva proprio da quel tentativo di essere se stessi, dell’affrontare la vita in totale autonomia, accettando un’atomizzazione sociale che ci porta ad essere sempre più soli, in competizione con noi stessi, costretti alla libertà assoluta quando della libertà non sappiamo che farcene o quanto meno come maneggiarla.

La felicità non è più distribuita, come in passato, dalla perfezione morale che ci conduceva alla gratificazione. La nostra imperfezione non ha nulla a che fare con il rispetto delle regole, con il dolore, con un conflitto con l’Altro ma nasce dall’essere soli e liberi di essere noi stessi. Sembrerebbe una cosa buona ma questa libertà  rappresenta in realtà il suopermanente dramma. Kierkegaard diceva che il dramma e la miseria dell’uomo consistono proprio in questo brancolare nel buio, nella permanente indecisione scaturita dalla mancanza di una guida che ci permetta di orientarci.

La gratificazione, che prevede l’esistenza dell’Altro per esistere, ci porta a sviluppare un disturbo narcisistico della personalità che ci spinge ad avere sempre maggior necessità di conferme da parte degli Altri. Sembra molto più comodo dunque rinunciare a se stessi ed autoannullarsi nella depressione piuttosto che annegare nella molteplicità del nostro Io senza una reale direzione o approvazione.

In questo contesto, il mondo digitale in cui viviamo  ci costringe a vivere senza riferimenti reali che oppongano una giusta resistenza. L’Altro sparisce e l’individuo è costretto ad incontrare solo se stesso e provare ad assumere sempre nuove e diverse identità, in linea con quel concetto di flessibilità che gli permette di essere sempre qualcun altro, incrementando la produzione ma non raggiungendo alcun obiettivo realmente desiderato.

Ciò si traduce nell’incapacità di portare a termine qualsiasi progetto in quanto mai confermato, approvato o osteggiato dall’Altro. Penso al protagonista del film Fight Club di David Fincher in cui Jack/Tyler vive lo strazio della dissociazione dell’identità e può risolvere il suo conflitto interiore solo uccidendo una delle sue identità che in questo caso, appunto, coincide con l’eliminare se stesso.

Qual è la causa di questo annichilimento? Secondo Byun-Chul Han  la causa è da rintracciare nella mancanza di un rapporto con l’Altro, nella solitudine scaturita dall’atomizzazione sociale, dalla società digitale multitasking, che genera una passività mortale consumando l’individuo tardo moderno.

Non esiste cura per tutto ciò, in quanto l’uomo tardo moderno, dice l’autore, non è un prodotto della società disciplinare repressiva, e il malessere che ha dentro di se non dipende da fattori esterni ma piuttosto da una mancanza di relazione con fattori esterni. L’eterodirezione della società di massa non esiste più, è annullata, annientata dal mondo del se che non ha più una base reale per essere ciò che è o ciò che non è.

Questo autoriferimento esagerato ci porta ad essere incapaci di fuoriuscire da noi stessi perché non possiamo affidarci agli Altri e siamo quindi costretti a svuotarci fino al logoramento, all’ ‘infarto dell’anima’.

Ne conseguono irritabilità e nervosismo, ma mai rabbia. La rabbia è un sentimento in via di estinzione, richiederebbe un’energia in grado di provocare un mutamento incisivo, di scuotere l’intera esistenza e attivare una rete di anticorpi e di difesa immunitaria naturale. L’irritazione costante, dice Byung-Chul Han, sta alla collera come la paura sta all’angoscia. La collera, come l’angoscia, non si riferisce ad un singolo stato di cose ma all’intera esistenza, negando l’intero. L’individuo si trasforma così in una ‘macchina da prestazione autistica’ affetta da depressione, disturbo dell’attenzione o iperattività. Così, suggerisce l’autore, ‘siamo tutti troppo vivi per morire e troppo morti per vivere’.

 

Cosa può salvarci da questo livellamento sul grado zero? Cosa può riportarci in vita , una vita reale che sia un concetto opposto a quello di morte e autismo identitario?

Le feste, dice Byung-Chul Han. I rituali e le feste.

Perché?

Perché alle feste si consuma ma non si produce. Perché le feste sono occasioni per confrontarsi con la realtà, con un’alterità in carne ed ossa, in cui il valore di mercato o quello virtuale digitale viene sostituito con la dignità di una relazione reale.

Facciamo in modo che l’economia della condivisione produca legami fondati sulla resistenza e sull’essenza e che gli spazi vuoti dell’Io siano colmati da scambi reali in cui siano presenti anche conflitti, in cui siano resistenti anche sentimenti negativi come rabbia e angoscia.




Riferimenti: 

La società della stanchezza, Byung-Chul Han, Edizioni Nottetempo, 2021

Aut-aut, S. Kierkegaard, Mondadori, 1977

Fight Club, David Fincher (film tratto dall'omonima opera di Palahniuk)




venerdì 28 luglio 2023

Repressione Piemonte

Siamo nel Canavese, in un pezzo di terra usato come dormitorio e dove la gente non si è mai svegliata. Dietro di noi un uomo in camicia stropicciata, sui 50 anni, capelli lunghi brizzolati con una forte cadenza calabrese si intromette nella conversazione mentre beve la sua quinta birra da 66 cl. In realtà dice di non essere sicuro che sia la quinta perché beve per dimenticare e non se lo ricorda. Ha detto che proprio per questo motivo paga sempre in anticipo. Lo vedo triste, mentre si affanna a chiamare tutta la sua rubrica per sapere se qualcuno vuol fargli compagnia al bar. Un suo amico gli dice di sì e io mi sento sollevata per lui. Ci racconta che aveva un’amica russa e che quando lui si è permesso di parlare male di Putin lei si è arrabbiata e gli ha risposto male, irritata per il suo commento politico assolutamente fuori luogo.

Il bar è a Cuorgnè, un posto che solo a nominarlo ti fa riflettere su quanto sia confinata l’esistenza di chi ci abita. I tavoli e le sedie sono di un colore sgargiante come a ricordare che tutto è reale, come ad affermare la propria esistenza, creare un piccolo rifugio magico gestito da alcolizzati non per scelta e gente che lavora ad ore, in cui gravitano bambini dell’asilo da una parte, paracadutisti e gente senza nome dall’altra, quasi tutti in silenzio fino a quando qualcuno, un po’ più temerario degli altri, non dà il ‘la’.

Questo posto mi piace perché ha voglia di esplodere. Si percepisce per la cura del prato con i giochi per bambini, per la voglia di comunicare che diventa impertinenza se assecondata, per l’audace posizione a metà tra le montagne e la strada, per il servizio cordiale ma informale.

Giorgio, il proprietario, non ha mai mostrato gli occhi. Sono coperti da occhiali da sole a specchio mentre parla senza sosta come se non avesse davanti due persone ma due mummie che possono solo guardare e non interagire. In un delicato equilibrio tra educazione e tatto, cerco di interromperlo con qualche domanda tanto per ricordare che sta parlando con due esseri umani. Giorgio per sopravvivere ha girato l’Europa, ha fatto il cameriere, gestito bar ed è stato insieme a donne bellissime. Giorgio ha bisogno di raccontarci tutto. Ha bisogno di parlare e non di ascoltare, confinato in un pezzo di terra in discesa frequentato troppo raramente da persone che accendono una conversazione. Giorgio è permaloso, ci racconta che le spese sono raddoppiate e che gestire un locale è diventato difficile. Il clienti, anche quelli più assidui, sono polemici per i prezzi che ritengono troppo alti per e gli mandano messaggi di sfiducia, come ad addebitare la colpa a lui che non c’entra nulla.

Il cielo è illuminato da un sole tiepido, quasi rilassante dopo tre giorni di afa torrida che mi ha tolto il sorriso ma faccio fatica a digerire Giorgio, con tutta la sua rabbia e la sua repressione. Mi piace, ha voglia di esplodere, come il suo locale, ma ha troppi sensi di colpa, troppi rimpianti. Sua madre è malata ed è per lei che è tornato. Ha difficoltà ad accettare la sua condizione di maturità, ha una fidanzata russa adesso che viene a trovarlo una volta al mese. Ha un paio di occhiali da sole a specchio, ha due ragazze che lo aiutano quando ha bisogno, ha la vista dei paracadutisti che atterrano nel terreno sotto al suo bar.

Giorgio non esiste finché non parla a ruota libera, resiste perché parla senza sosta e ci coinvolge nel suo finto divertimento alcolico, nelle sue avventure che ormai sono un ricordo lontano.

Ho letto le recensioni del locale, birra fresca, i paracadutisti che mangiano bene, ambiente e personale affabile. Il proprietario Marco è gentile e molto bravo in cucina, non si ferma a disturbare i clienti quando mangiano, i prezzi sono bassi e la posizione regala un bel paesaggio.

Ma lui non è Marco, lui è Giorgio, il nuovo gestore. Lui ancora non esiste.

Quindi voglio dire a Giorgio che è nel concetto di repressione che vivo la quotidianità o meglio sono le persone intorno a me che vivono la repressione in tutta la loro solitudine. Qui la gente vive in un isolamento che da involontario si fa volontario. Solo i più tormentati e caparbi resistono al richiamo della socialità e resistono come hanno fatto la prima volta, quando hanno visto cosa c’è oltre le montagne e non si sono fermati nel parco con il prato all’inglese e fanno in modo che quella curiosità di vivere che sembra una sensazione di troppo schizzi fuori dagli occhiali a specchio per colpire tutti gli interlocutori del mondo.



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