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giovedì 5 dicembre 2013

Torino non è una città di passaggio

Volevo chiedervi di restare qui, almeno qui. Le vite che creo, le vite reali con lo sfondo del sole, quello vero, delle nuvole e i marciapiedi, le vite vere fatte di sguardi, strette di mano abbracci e bicchieri di vino, quelle vite mai virtuali che ho cercato di alimentare giorno per giorno in bici o in autobus, in metro o a piedi, quelle vite mi servono. 
Volevo chiedervi di restare, almeno qui. Di non partire perché no, vi siete sbagliati, Torino non è una città di passaggio. Invece ve ne andate anche da qui e ritornate a casa, o andate via dall’Italia e così cambia la geografia sentimentale che abbiamo costruito negli anni, fatica sprecata, gli abbracci che ci servono mediati da uno schermo, il mondo vero ma mediato sempre, e i miei amici diventano foto di profili Facebook e icone di roba varia e diventano irreali, sempre più irreali, lontani, difficili da raggiungere con lo sguardo ed è difficile trovare mani screpolate dal freddo o occhi lucidi per l’influenza. Torino non è una città di passaggio.

Foto di Valeria Taccone

Non emigrate più, scegliete un posto e fermatevi lì, lasciate che la gente si affezioni, trovatevi un bar preferito, un indiano sotto casa, un cinese per le stoviglie, andate a Porta Palazzo a fare la spesa, prendete nota degli spettacoli gratuiti che offre questa città, ma restate. Almeno qui. 

Invece partite tutti militari e le vite vere si sfaldano. Rivivono solo due tre volte all’anno, di ricordi vecchi duemila anni.

Foto di Valeria Taccone

http://www.thefacesoffacebook.com/

martedì 15 giugno 2010

Noi emigranti

Quella Palermo che ora ha un giardino che si specchia sul mare, e prima aveva solo giostre e puttane.
Sta morendo. E con Palermo muoiono i palermitani. Quelli che se ne vanno.

Il mio amico vive a Foligno. L’altro giorno gli ho chiesto se voleva tornare giù. «A parità di lavoro, adesso, cosa faresti? Torneresti?»
Lui ha trovato gente fantastica lassù, ha una ragazza che ama, dei coinquilini meravigliosi e degli amici veri.
Lui tornerebbe giù, senza pensarci due volte.

Lei vive in Finlandia adesso. Dovrà rimanerci per altri cinque mesi. Sta lavorando lì, la pagano bene. È socievole lei, simpatica, molto in gamba. Si adatta ovunque per quello che so. Ma è a Palermo che vuole vivere, dice che il suo posto è lì, in mezzo alla spazzatura, in «quel sud che puzza di fame». Io quegli occhi li ho sempre davanti, e mi sembra di vederli lucidi e fieri, che fissano un punto preciso; uno sguardo che non si può sostenere. Remedios, dolce Remedios.

Poi c’è Billy, che viaggia sempre. Adesso è in Spagna, e credo stia bene. Ma ogni volta che parte ha le crisi isteriche. Sale sulla macchina e parte. E mentre guida piange, tanto da non veder più nemmeno la strada. Poi le passa però. Anche per lei Palermo è troppo importante.

C’è chi ha perso le coordinate, ed è rimasto in una città fantasma della Sicilia. C’è chi teme che il proprio corso di laurea venga soppresso. C’è chi ha debiti da colmare e chi non riesce più a sostenere esami. Chi lavora in Sicilia per paura di perdere tutto. Chi se ne va, e sa che non ritornerà più.
C’è chi parte per seguire qualcuno, e poi se ne pente. Chi costruisce qualcosa in ogni angolo della terra, e se ne pente, perché in fondo partire è lasciarsi qualcosa alle spalle e alcune persone meritavano più tempo.
C’è chi viene dall’Africa su un gommone strapieno e non se ne pente, e vive con la foto della sua famiglia nera sempre più nera appesa in camera, appiccicata al muro per sempre. C’è chi viene dalla Tunisia e mette su una nuova famiglia, dimenticando quella che ha lasciato dall’altra parte del Mediterraneo. Ci sono donne che soffrono per i mariti che se ne sono andati, mariti che colmano il loro senso di colpa con le rimesse.
C’è chi prima di trovare il suo posto deve trovare se stesso, e non dentro una bottiglia. C’è chi non ha il coraggio, e vive di rimpianti da una vita.
C’è chi con gli occhi azzurri più belli della terra ingoia tutte le persone che incontra e divora ogni luogo. Chi impara dieci lingue ma dimentica per sempre l’idioma materno, il dialetto dell’infanzia. Chi è ancora in attesa di partire, imprigionato in qualche centro di detenzione in Libia. Chi rischia la vita per un pezzo di pane.
Sono sempre i poveri a dover partire. E oggi siamo quasi tutti poveri di risorse.
In fondo siamo un po’ tutti emigranti.

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