mercoledì 11 dicembre 2013

Sui Forconi

Verissimo che la crisi economica ci rende tutti più barbari e che i cittadini non ne possono più di vedere la loro città in balia di intimidatori e ricattatori. Ma verissimo anche che la maggior parte degli intimidatori, dei violenti e dei ricattatori son stati mandati a bella posta ( e non è certo la prima volta) nelle piazze per rovinare la protesta non violenta di cittadini esasperati. 
Non tutti i manifestanti sono violenti e non tutti sono rozzi e ignoranti come la maggior parte di noi crede. 
La protesta dei Forconi non è la protesta degli ignoranti, intendiamoci, è la protesta di gente che si è rotta il cazzo. E siccome non è appoggiata da nessun personaggio autorevole, allora diventa la protesta degli ignoranti. Vorrei riproporre l’appello del Centro sociale di Torino Askatasuna. Loro dicono così: “non vi chiediamo di aderire in toto alle modalità o alle parole d'ordine della protesta, ma di starci dentro e provare ad invertirne la rotta. Lasciare questa piazza in mano a fascisti e mafiosi può rivelarsi la mossa più controproducente". E non mi sembra per nulla una considerazione sbagliata.

Pure i poliziotti, l’altro ieri, si sono tolti il casco. Certo, ora tutti su Facebook scrivono che non l’hanno fatto alla Diaz perché avevano le mani impegnate e roba polemica di questo genere, ma queste volta l’hanno fatto. Subito però sono intervenuti i media a spiegare il gesto. Dicono fosse dovuto al fatto che l’ordine era stato ristabilito. Certo. 
Ma secondo voi può lo Stato ammettere che anche alcuni membri delle forze dell’ordine siano solidali alla protesta? Può lo Stato ammettere il fallimento dello Stato? Ovvietà, come di ovvietà è fatta l’informazione del resto. Io del giornalismo me ne sono lavata le mani dopo la specialistica, perché quello che in Italia chiamano giornalismo, eccetto alcuni rari casi vedi Iacona e Gabanelli, per me è roba ridicola.
Ma questo è un altro discorso. Andiamo ai forconi.
Che cosa vogliono questi stronzi? Vogliono più lavoro, ovvio, meno tasse, ovvio, vogliono poter esportare i prodotti anziché importarli e basta, ovvio, vogliono che lo Stato sia con loro, ovvio. Vogliono anche, o almeno una buona parte lo vuole, che l’Italia esca dall’euro. Ecco. 
Perché l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro? Se lasciamo perdere tutte le polemiche contro i grillini di cui sinceramente non m’importa nulla, la loro intuizione non è proprio da ignoranti. 
Perché? Perché l’Italia cerca dal 2002 di rimettersi in pari con gli standard europei, e per farlo ha sacrificato risorse non solo economiche ma soprattutto umane. Da qualsiasi parte la guardi, la situazione attuale presenta uno Stato che non ha i soldi per garantire una ripresa economica (perché se li è mangiati tutti in puttane e mutande verdi) e che l’unico modo per rimettere in moto l’economia, è aumentare i consumi. Quindi l’idea di svalutare la moneta o uscire dall’euro o quello che vi pare, non è secondo me sbagliata. 
L’errore è stato fatto nel 2001, e noi ne piangiamo le conseguenze. 
L’ha spiegato perfettamente il professor di economia politica Alberto Bagnai,  nel suo intervento a Servizio pubblico (http://www.serviziopubblico.it/puntate/2013/11/14/news/euro_dentro_o_fuori.html?cat_id=10). E lo spiega citando Nicholas Caldor, economista che nel 1971 scrisse che una moneta unica europea avrebbe causato uno squilibrio commerciale e della bilancia dei pagamenti a causa di un regime di cambi fissi in assenza di regole sui salari, un fisco centralizzato e riequilibratori automatici. 
Trent’anni prima che l’euro nascesse era perfettamente chiaro perché non avrebbe funzionato. Se dei paesi diversi hanno una moneta unica, quando un paese viene colpito da una recessione si verifica la cosiddetta ‘mobilità dei fattori produttivi’ ovvero la mobilità dei fattori che servono a produrre i beni e cioè le persone, quindi in parole povere l’emigrazione. 
Di queste tematiche, nello specifico, pochissimi sono esperti, ma non ci vuole di certo un genio per capire che le economie di ogni paese sono basate su fattori diversi. La nostra è da sempre un’economia che si basa sull’esportazione. Non abbiamo, è vero, grandissime industrie. Ma abbiamo tante medie e piccole industrie che negli anni, e nella storia del paese, ci hanno garantito di essere annoverate tra i paesi più ricchi del mondo.
Se l’Italia ha venduto tutte le sue migliori aziende agli stranieri, se gli agricoltori siciliani sono costretti a buttar via quello che la nostra terra ci ha sempre offerto perché i prezzi degli altri paesi sono più competitivi, se i prodotti che troviamo nei supermercati oggi non sono quasi mai italiani anche se sopra vi si legge ‘made in Italy’, se gli autotrasportatori non riescono a campare per i prezzi della benzina, se le aziende non assumono, se la disoccupazione giovanile è al 41,2%, come vi permettete di dire che questa protesta è sbagliata o fascista o cosa? Ma quelli sono gli ultrà del Torino e della Juve, quelli sono i porci di Casa Pound! Questo è quello che dicono i tg! 
Mi sembra ovvio che il mal governo abbia generato una popolazione di gente impotente.
Questa protesta, prima di tutto, per tutti noi, è una forma di degrado mentale, un’ovvia evoluzione scaturita da anni di incertezze, impotenza e scelte politiche ridicole. Il nostro paese non è mai stato democratico, sfortunatamente.

Quindi allontaniamo gli ultrà del Torino e della Juve e sentiamo cosa ha da dire la gente. La democrazia è anche questo.



giovedì 5 dicembre 2013

Torino non è una città di passaggio

Volevo chiedervi di restare qui, almeno qui. Le vite che creo, le vite reali con lo sfondo del sole, quello vero, delle nuvole e i marciapiedi, le vite vere fatte di sguardi, strette di mano abbracci e bicchieri di vino, quelle vite mai virtuali che ho cercato di alimentare giorno per giorno in bici o in autobus, in metro o a piedi, quelle vite mi servono. 
Volevo chiedervi di restare, almeno qui. Di non partire perché no, vi siete sbagliati, Torino non è una città di passaggio. Invece ve ne andate anche da qui e ritornate a casa, o andate via dall’Italia e così cambia la geografia sentimentale che abbiamo costruito negli anni, fatica sprecata, gli abbracci che ci servono mediati da uno schermo, il mondo vero ma mediato sempre, e i miei amici diventano foto di profili Facebook e icone di roba varia e diventano irreali, sempre più irreali, lontani, difficili da raggiungere con lo sguardo ed è difficile trovare mani screpolate dal freddo o occhi lucidi per l’influenza. Torino non è una città di passaggio.

Foto di Valeria Taccone

Non emigrate più, scegliete un posto e fermatevi lì, lasciate che la gente si affezioni, trovatevi un bar preferito, un indiano sotto casa, un cinese per le stoviglie, andate a Porta Palazzo a fare la spesa, prendete nota degli spettacoli gratuiti che offre questa città, ma restate. Almeno qui. 

Invece partite tutti militari e le vite vere si sfaldano. Rivivono solo due tre volte all’anno, di ricordi vecchi duemila anni.

Foto di Valeria Taccone

http://www.thefacesoffacebook.com/

venerdì 15 novembre 2013

IPOCONDRIA, ATTACCHI DI PANICO E ALTRI PIANI PER ELIMINARCI TUTTI

Al ritmo di Celentano e Lou Reed i nostri genitori ondeggiavano felici.
Quando ero piccola i cartoni animati erano camomilla serale; oggi nemmeno lo Xanax fa più effetto. Si chiamano tempi moderni. 
Proverò quei sonniferi che prende la vicina.
Mi lavo le mani continuamente, sto attenta a dove mi siedo, faccio attenzione a quello che mangio, non vado mai a pranzo o a cena fuori. 
Ogni volta che salgo in macchina ho la sensazione che andrò incontro ad una morte violenta tra le lamiere, che qualcuno mi verrà addosso, o magari scoppierà la ruota che so, oppure un ragazzino mi lancerà un sasso dal cavalcavia. Ipocondria a duecento chilometri orari.

Spengo la sigaretta, quante cicche nel posacenere, lo svuoto nel cestino, in cucina. Vado verso la mia stanza, adesso vado a letto, no, aspetta, e se il cestino prende fuoco? Meglio andare a controllare, per una sigaretta spenta male potrei far scoppiare un incendio, vado, sollevo il coperchio del cestino, niente; aspetto ancora, non si sa mai. Sto lì per cinque minuti a fissare il cestino, convinta che non posso andarmene perché lo so, lo so che se non guardo bene rischio di incendiare la casa.

Un tempo non avevo paura di bere dai bicchieri di vetro del bar, e nemmeno nelle tazzine del caffè; adesso bevo il caffè dai bicchierini di plastica.
L’aereo non lo prendo più, ho paura, e nemmeno il treno, almeno per lunghe tratte, almeno di notte,  perché salgono certi tipi che mi prende il panico; rubano un sacco di cose, lasciano valigie sospette ed ho paura della velocità.
Cos’altro? La metro mi preoccupa, ho paura di attentati terroristici, stupri o scippi, o cose simili. Ah, soffro pure di claustrofobia e non vado nel posti troppo affollati, troppo piccoli o senza finestre. E nemmeno in quelli troppo affollati perché la gente mi infastidisce, mi terrorizza. Sembrano mostri.

Quando i miei genitori escono da casa, ho sempre paura di non rivederli più, e lo stesso vale per mio fratello, quindi li chiamo continuamente e loro non lo sopportano.
Quando piove evito di uscire da casa e se poi c'è un temporale fortunatamente mi arriva in anticipo un messaggio del meteo sul cellulare che mi intima di non aprire porte e finestre: 'attenzione, da venerdì allerta in tutta Italia per il ciclone Venere, previsti forti temporali e trombe d'aria'.

Ho perfino svuotato la mia libreria per far spazio ai farmaci. Al posto del giovane Holden e di Gregor Samsa, adesso c'è una scorta rassicurante di Oscillococcinum, estratti di fegato d'anatra, Papaya, Echinacea, uva ursina e Valium, poi ancora Tachipirina, Froben, Amoxicillina e l'apparecchio per l'aerosol. 
La mia dottoressa dice che è normale, dice che siamo in pieno declino e che dobbiamo morire per far posto ad una generazione migliore della nostra. Dice che la paura di tutto, indotta da un'entità di cui non si conosce il nome, fa parte di un grande piano per eliminarci tutti perché soltanto così il mondo potrà migliorare.
Parole sante.

Zerocalcare, 'Ipocondria'

lunedì 11 novembre 2013

Il mio cognome è del nord

Al supermercato, davanti alla mia cassiera di fiducia, l’unico modo per non sentire un pugno allo stomaco quando mi spara a voce il totale, è quello di pensare che la cifra da pagare sarà molto più alta, almeno il doppio di ciò che spenderò realmente. Solo così riesco a non farmi venire un coccolone, solo prendendomi per il culo, lasciandomi credere che sì, anche oggi sono stata brava a risparmiare. La guardo la spesa e penso “saranno almeno 20 euro”. Invece la cassiera mi sorride e mi dice “fanno 10 euro e venticinque”. Che culo, penso. 
Arrivata a casa apro la busta per svuotarla: 3 birre, 2 kinder cereali (perché dice che fanno passare il mal di testa), una scatola di kinder cioccolato da 4, due finocchi e una confezione di patatine. Bella spesa del cazzo, penso.
Ma oggi dovevo consolarmi, era il mio primo ‘vero’ giorno di lavoro. Sono arrivata in ufficio alle 7.45, in perfetto orario. Ho legato la bici davanti all’ufficio e sono entrata dicendo: “buongiorno, oggi è il mio primo giorno di lavoro”. 
Presentazioni di rito, tutti vecchi, un po’ pelati, un po’ stanchi, con rughe disegnate qua e là, tutti sorridenti di un sorriso un po’ spento, come bambole di porcellana gentili e gradevoli ma anche un po’ inespressive. Ecco i miei colleghi di porcellana, con voi condividerò la neve, la pioggia, il freddo, i discorsi sul tempo, qui a Torino si gela, meglio da te a Palermo, chissà quanti gradi ci saranno, questa camicia l’ho pagata 70 euro e poi al mercato l’ho rivista uguale a 15, che hai oggi per pranzo, sai sono a dieta, la dieta sta funzionando, si vede che stai meglio, ma parti?, dove vai quest’anno?, hai sentito il telegiornale, questi immigrati se ne devono andare, i mezzi a Torino non funzionano, senti qua non dire scemenze perché io vengo dal sud, sai questo mese ho troppe spese, sono arrivate le bollette, è aumentato il gas, devo accompagnare mio figlio alla partita di calcetto eccetera eccetera eccetera. 
Con gli anni ci farò l’abitudine ma la mia espressione quando mi trovo nel bel bezzo di queste conversazioni tritatutto è quella di una persona estremamente diffidente. Mi trovo a dialogare con degli sconosciuti, che tra qualche tempo diventeranno figure abituali come i personaggi disegnati sui quadri di casa mia, di cose assolutamente futili. 
Da piccola mi ero riproposta di non sprecare la mia voce in discorsi troppo futili.  Di circostanza magari sì, o almeno ho imparato col tempo, ma futili e banali no. O almeno questo era quello che pensavo quando avevo costruito la mia idea di vita e il mio carattere ideale in un mondo che apparteneva solo a me, una sorta di codice etico da rispettare per volermi bene, per garantirmi un’autostima solida. Era quando avevo deciso che la mia vita sarebbe stata importante. 
In realtà, tutto quello che mi è capitato dalla fine dell’università ha soltanto smontato questo mio postulato.
La vita è fatta così, una grande palla di discorsi mediocri che ti permettono di essere ‘normale’, una grande sfilata in cui nessuno sembra o deve dar l’impressione di brillare per  astuzia. 
Tutto questo all’inizio mi offendeva, adesso non più. Possibile che io stia vivendo solo adesso il passaggio dall’adolescenza alla maturità? Sì, forse è possibile per via di una serie di questioni che bla bla bla si conoscono bene, crisi, precariato e quant’altro. 

Lavoro con i soldi, conto i soldi e li do alla gente. Conto i soldi e li incasso. Ho tutti i giorni dei soldi in mano insomma, ma non sono miei. Sono dell’azienda, o dei clienti. Ho anche uno stipendio però, e questo mi fa sentire fortunata, felice.
Mi occupo di amministrazione, di servizio al pubblico e cose così.

Per me i soldi hanno un colore preciso, sono color bordeaux lucido. Quando ero piccola, mi ricordo un’enorme parete attrezzata con una cassettiera dove i miei tenevano tutte le pratiche, i conti, le multe, i documenti di ogni tipo, divisi per carpette e riconoscibili dalle etichette bianche. 
È stata sempre mia mamma ad occuparsi di quella cassettiera, a pulirla, a selezionare i documenti, a rovistare tra la polvere delle cose passate, pagelle, lettere, multe, passaporti, libretti di assegni. Subito sotto c’era il cassetto deputato alle fotografie, il mio preferito.
Per me i soldi erano una cosa lontana, una cosa di cui ho sempre sperato di non dovermi occupare, una cosa che mia madre gestiva bene e che non mi competeva affatto. Tutte quelle pratiche, riordinate con la cura di un bibliotecario, mi hanno sempre fatto paura, mi hanno sempre fatto credere che sarei rimasta lontana da quella vita cartacea fatta solo di numeri. L’ho sempre saputo, come una certezza che ti permette di scegliere l’esatto opposto di ciò che non tolleri. 
Ingenuamente, ho sempre sperato di delegare qualcun altro per svolgere questi compiti, ho sempre pensato, fin da piccola, che qualcuno si sarebbe preso la briga di farlo per me. E invece, vuoi per un fatto genetico, vuoi per il destino, vuoi per contrappasso, adesso io svolgo questo lavoro non solo per me, ma per tutti i cittadini di Torino e in potenza, per tutti gli italiani. 
Le persone delegano me e si sentono immediatamente sollevate, assolte da ogni obbligo, sono io che rispondo delle loro tasse, sono io che ci faccio attenzione, sono io che prendo in gestione le loro vite per dieci minuti e gli permetto di fregarsene dei loro doveri. Esattamente quello che pensavo avrei fatto io per il resto della mia vita, una vita burocratica e amministrativa diretta da altri, da una fantomatica signora dei soldi, infallibile.

La vita quindi ha preso una piega strana e soltanto da qualche giorno ho cominciato a pensare al mio futuro. 
Ho cercato di rovistare tra i cavi di queste vicende, di trovare una risposta a ciò che mi stava succedendo.
Mentre bevevo un caffè al bar vicino l’ufficio, una risposta, seppur non del tutto esaustiva, è arrivata davvero. Ho preso in mano un giornale e ho letto di un tipo che aveva il mio stesso cognome. Allora mi sono ricordata che al corso di web design finanziato dalla Regione Piemonte il mio insegnante mi aveva chiesto: ‘ma sei partente di Ardito?’. 
Quella mattina, dopo il caffè, appena entrata in ufficio, dopo le presentazioni, due dei miei colleghi mi avevano chiesto, di nuovo: ‘ma sei parente di Ardito?’. No, direi di no. 

Appena tornata a casa ho cercato su Google ‘diffusione del cognome Ardito’ e ho scoperto che a Torino ci sono 60 famiglie Ardito, a Palermo solo 9. 
A quanto pare c’è anche un Ardito direttore di un ufficio come quello in cui lavoro io. 
Un motivo quindi doveva pur esserci. Non è un caso che io sia finita qui, tra piste ciclabili e strade ghiacciate, tra regole ferree e conti pubblici, tra le maglie di quella che Bianciardi chiamava ‘vita agra’. 


Sono tornata in patria, ho pensato. È qui che vivono gli Ardito. Dirò ai miei di trasferirsi  qui perché evidentemente hanno più parenti qui che in tutta la Sicilia.
Forse è qui che gli Ardito finiscono per una legge divina, ignari fin dalla nascita che nella loro vita avranno come vanto la Mole piuttosto che il Palazzo dei Normanni. 
Eppure non riesco a perdonarmi di non essere rimasta lì, tra le palme e il traffico. Nonostante nella mia terra mi sia sempre sentita un’estranea, una pedina di passaggio, resta il rimpianto di non essere rimasta.
L’illuminazione derivante dal cognome - che ha assunto un significato tutto particolare da quando ho visto Lost - poteva essere una perfetta spiegazione di ciò che mi sta capitando, ritrovare i propri parenti, i propri simili, il proprio cognome in una città del nord, una città di fabbriche e rigore, una città quasi senza errori. Però ogni tanto questa certezza forzata, si smonta  in un istante. Forse il destino forse non c’entra nulla, è solo che i siciliani se ne vanno, se ne sono andati in passato e se ne andranno sempre dalla loro terra finché le cose non miglioreranno. Per questo motivo si trovano sempre pezzi di Sicilia qui al nord, per questo  motivo quando attraverso via Garibaldi non mi stupisco se sento parlare il mio dialetto, se vedo vecchietti che gesticolano come me, che parlano a voce alta come me.

Forse perché in Sicilia, l’unico modo per non rischiare di fallire sembra quello di scegliere di andarsene via.


mercoledì 9 ottobre 2013

Caff'ari, 10 ritratti del Borgo Vecchio



Il primo giorno di lavoro arrivai troppo presto. Mi ritrovai ad aspettare l’apertura dell’ufficio sotto al balcone di un’anziana signora. 
Questa signora amava i gatti.
Quella mattina, come tutte le mattine, la vecchietta si affacciò sul balcone, aprì una scatola di cibo per gatti e, senza guardare chi ci fosse sotto, face cadere il suo contenuto sul marciapiede. 
Mi prese in pieno.

Sono successe tante cose in quei tre mesi. Ho avuto il tempo e la prontezza di trascrivere qualche perla regalatami dai personaggi che gravitavano attorno al magico CAF del Borgo Vecchio.

1. 
“Signorina, ora gliela dico io la verità. La verità è che Berlusconi li ha rispettati i patti! Ci aveva promesso mari e monti. A mari ci sému tutti e a Monti nu rietti”.


2. 
“Mi serve il CUD relativo all’anno 2011”.
“Se vabbè, io nnu rumilaeunnici era ‘n carciri”.



3.
“Lei ha una casa di proprietà, bene. E sua moglie?”
“Mia moglie? Un avi ammìa?”


4. “Signori’, avissi a fari u comu si chiama... u caf”.



5. “Salve c’è Maria?”
“No, la mia collega è in riunione di gabinetto”
“Ma che significa?”
“É al cesso, signo’”.

6. “Quando s’è sposata sua figlia?”
“Cosa?”
“Quando s’è sposata sua figlia?”
“Non sento”
“QUANNU S’ACCOPPIÒ SO FIGGHIA???”


7. “Buongiorno, avissi a fari u sett’e mienzu!”


8. “Signora, come sta?”
“Non c’è male”
“E suo marito dov’è?”
“Me maritu?  Stamatina s’assittò nno gabinettu e s’addummisciu”.

mercoledì 11 settembre 2013

"La schiuma dei giorni" di Boris Vian

Per immaginare nuovi mondi ci vuole una gran dose di stravaganza, inventiva e audacia. Ci vuole ironia, senso critico e un pizzico di distacco dalla realtà.


La schiuma dei giorni, romanzo scritto nel 1946 da Boris Vian – uno dei fondatori della corrente letteraria della Patafisica (ideata dallo scrittore francese Alfred Jarry) – è un romanzo che ricorda i migliori quadri del pittore Chagall.
Vian fu trombettista, chansonnier, ingegnere, autore teatrale, poeta, traduttore, giornalista drammaturgo e attore, fece della sua breve vita un esperimento artistico, adottando nel corso della sua attività registri stilistici diversi, dissonanti ed estremamente innovativi (si pensi al romanzo del 1946 J’irai cracher sur vos tombes, ovvero Sputerò sulla vostre tombe), passando da ambientazioni che ricordano le favole di Perrault e dei fratelli Grimm ad altre che fanno riferimento al genere letterario degli hard boiled statunitensi che ebbero enorme successo verso la fine degli anni Venti e i cui temi principali erano quelli del crimine, della violenza e del sesso.
Nel romanzo La schiuma dei giorni, Vian racconta la storia del giovane parigino Colin, appassionato di jazz e di cucina, inventore di strani strumenti come il pianocktail, un pianoforte in cui ad ogni nota corrisponde un alcolico.
Colin, ad una festa, si innamora della bella Chloé, una donna che ha il «profumo della foresta con un ruscello e tanti coniglietti». I due si sposano ma presto Chloé si ammala di una strana malattia al polmone destro: un’orchidea le cresce dentro al petto e l’unica cura possibile consiste nel circondarsi di fiori.
Attorno ai due personaggi principali ruotano le vite di Chick e Alise, anche loro innamorati. Chick è un ingegnere con l’ossessione per lo scrittore Jean-Sol Partre, e Alise è la nipote di Nicolas, chef personale di Colin.
La trama è volutamente semplice e quasi banale. Ciò che rende questo libro straordinario è il lessico, i neologismi, i giochi di parole, gli elementi surreali e la scoperta di una “scienza delle soluzioni immaginarie” di cui Vian fu uno dei promotori.
L’idea di una letteratura che non si prende troppo sul serio è il principio sul quale fa leva la poetica di questo romanzo. «La storia è interamente vera perché me la sono inventata da capo a piedi» dice l’autore nella premessa.

Leggere La schiuma dei giorni è un vero spasso. I personaggi, immersi in un’atmosfera magica e fiabesca e lontani da qualsiasi stereotipo, sono da considerarsi alla stregua degli ingredienti di una delle migliori ricette di cucina francese. Teneri e idealisti, vittime di un mondo cinico e senza senso, ondeggiano a ritmo di jazz e lottano per realizzare i loro sogni fatti di schiuma. Quello dei personaggi è un mondo alla rovescia, un mondo in cui i vetri che si rompono ricrescono da soli, in cui la cravatta fa i capricci per annodarsi, i topi sono parte integrante della famiglia ed è possibile dare pizzicotti ai raggi di sole se disturbano la vista. È un ambiente in cui gli oggetti sono animati quanto gli esseri umani, in cui si passeggia per strada immersi in una nuvola all’odore di zucchero di cannella, si balla lo sbircia-sbircia, in cui i paggi pulitori lucidano la pista di pattinaggio, i topi ricavano lecca lecca dalle saponette e la casa si restringe se l’umore peggiora.
Con l’avanzare della malattia di Chloé, il corridoio si rimpicciolisce e le stanze si fanno buie, lo chef Nicolas invecchia di sette anni in soli otto giorni e i topi sono costretti a raccogliere frammenti di luce dalla cucina per illuminare per un istante la stanza in cui riposa Chloé.
Quello in cui vivono i personaggi è un ambiente ora caldo ora freddo, con chiaroscuri e giochi di luce, in cui gli stati d’animo vestono arredi e linguaggio.
Colin è costretto a cercare un lavoro per comprare i fiori a Chloé. Solo i fiori possono mettere paura all’orchidea che abita il petto dell’amata e per questo motivo il giovane parigino, abituato a vivere nel lusso, si ritrova costretto a covare canne di fucile (che crescono nei campi solo grazie al calore del corpo umano) o a fare il messaggero delle cattive notizie in anticipo, per offrire una cura alla sua sposa.
Le brutte notizie fanno invecchiare nel mondo costruito da Vian, ed è così che a metà del romanzo la cruda legge della realtà annienta i sogni d’amore e la leggerezza dei protagonisti. Ma nonostante la tragicità avvolga l’epilogo, Vian ci suggerisce che la vita vale la pena di viverla a pieno, anche solo per due ragioni, le ragioni della sua vita: «l’amore, in tutte le sue forme [...] e la musica di New Orleans o di Duke Ellington. Il resto sarebbe meglio se sparisse perché il resto è brutto».
Lo scrittore francese soffriva di una malattia al cuore, una malattia lacerante che anziché condurlo verso l’autodistruzione lo spronò a vivere i suoi giorni con ingordigia e passione.

L’intero romanzo è da considerarsi come un inno alla vita in tutti i suoi aspetti. «Io vorrei essere innamorato», dice Colin guardandosi allo specchio. Si immerge tra le strade parigine, seguendo ogni donna che attira la sua attenzione, fluttuando in un vuoto in cui non c’è nulla da fare se non andare in giro ad osservare il mondo.
Nel romanzo c’è poco spazio per la psicologia dei personaggi, predominano l’estetica e il particolare, la sorpresa e l’impulsività. Vivere è l’unico mestiere che riesce bene al protagonista, è l’unico modo possibile per salvarsi dalla morale comune, quella che vede il lavoro come uno strumento che nobilita l’uomo. La fortuna e la salvezza di Colin sta nel fatto stesso di essere un nullafacente, un personaggio più immaginario che reale, una proiezione fantastica di ciò che tutti vorremmo essere, di un bambino con una coscienza piuttosto che un adulto razionale, che rimanda ad un desiderio e una pulsione che hanno sede nell’infanzia, nell’innocenza, laddove i giochi di parole e i mondi inventati sono all’ordine del giorno.
Non è un caso che La schiuma dei giorni di Boris Vian sia stato uno dei libri più letti dai contestatori del Sessantotto. L’idea di un mondo fantastico in cui si respira un’atmosfera benigna e ovattata, in cui il lavoro degrada l’uomo e l’unica cosa che conta è l’amore in tutte le sue forme, aveva affascinato non poco la generazione dei contestatori sessantottini che avevano fatto della liberazione dal lavoro uno dei motivi più sentiti di ribellione.
Il romanzo si nutre di una visione contro corrente, in cui l’insubordinazione nei confronti dell’autorità e la satira su alcuni aspetti della vita dell’uomo sono temi ricorrenti che creano la cornice della storia. La critica nei confronti della Chiesa e della religione si fa veemente e violenta, i preti sono interessati esclusivamente al denaro e chi non ne ha è costretto a vedere i propri cari dentro vecchie scatole nere lanciate dalla finestra perché «i morti si facevano scendere a braccia solo a partire da cinquecento dobloncioni».
Vian non risparmia nemmeno la critica alla cultura del suo tempo e, attraverso la figura di Jean-Sol Partre (vera ossessione dell’amico Chick) mette in evidenza l’assurdità dei diktat culturali. Si legge la parodia dell’«esistenzialismo a tutti i costi» e la convinzione che la letteratura non sia campo esclusivo delle scuole letterarie e delle accademie.
Quello di Vian è un anticonformismo che abbraccia tutti i campi della vita moderna, i suoi dogmi e le sue strutture, dissacrando gli aspetti del vivere comune (si pensi alla critica all’esercito) con un tono beffardo più che polemico.
Definito da Queneau il più straziante dei romanzi d’amore, La schiuma dei giorni è uno dei libri che anticipa la stagione dell’Oulipo (acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero officina di letteratura potenziale) e dà inizio ad un percorso in cui la letteratura vive una delle sue stagioni più metaletterarie. 
La possibilità di stravolgere mondi, abbandonare luoghi comuni e rivolgersi direttamente al lettore, di riordinare le parole in base ai suoni o ai colori che evocano nella mente del lettore, è una delle maggiori conquiste del ventesimo secolo. Le avanguardie artistiche e letterarie hanno dato inizio a una stagione in cui è più importante la percezione della cultura piuttosto che la cultura stessa e hanno decretato il primato dello stile rispetto al contenuto. È proprio questa concezione della cultura che si trova alla base della vita moderna. La “letteratura dei mondi possibili” ha creato nell’immaginario comune il tramite perfetto tra la concezione di letteratura del passato e quella presente.

Vian può permettersi di inventare un mondo anziché descriverlo, e questo è uno dei più bei regali che può fare ai suoi lettori.

Articolo pubblicato sul n. 10 della rivista Il Palindromo

sabato 6 luglio 2013

Broadcasting


C’è qualcosa di malsano nella somma dei messaggi cui siamo sottoposti quotidianamente. C’è l’origine delle nostre paranoie, delle nostre paure, della nostre ansie. Proverei a sperimentarne gli effetti e le conseguenze fantascientifiche.
Per ogni bombardamento subìto c’è, però, un antidoto che ci restituisce l’illusione di vivere sereni.


Una voce metallica ci bloccava sui corridoi plastificati e lucidi.


Proveniva dall’altoparlante dell’aeroporto. Era una donna. Non annunciava né voli né problemi tecnici.
Parlava come se ci conoscesse da tempo. Sembrava avesse studiato i nostri passi dalla nascita.
Sapeva tutto, e quello che sapeva era vergognosamente vero. Ma la cosa più incredibile era che quella voce stava pian pian svelando tutti i nostri segreti, prima in italiano, poi in inglese.
Stava dicendo alla signora del gate b6 di non sculettare in quel modo. Consigliava di stare bene attenta perché i tradimenti in casa sua non sarebbero potuti durare a lungo. Un attimo dopo si rivolgeva al marito, invitandolo a  prestare attenzione alla moglie.  
Poi aveva parlato di politica. Davanti al desk 223 c’era un politico famoso. Ci aveva invitati ad osservarlo bene, aveva sentenziato che quello era un uomo corrotto e falso e che qualunque persona con un po’ di buon senso non l’avrebbe votato. 
Con nomi e cognomi era difficile non crederle. Se quel politico avesse fatto finta di niente, nessuno si sarebbe accorto di lui ma si dimenava, si guardava intorno e aveva dato nell’occhio.

Eravamo tutti imbarazzati dentro l’aeroporto, col vento che sfogliava gli alberi e le piste di decollo immerse in un vortice d’aria che scombinava tutto, che sollevava polvere e pentimenti.

Poi, dall’altoparlante, si era sentita la sigla del telegiornale. Erano tutte notizie di cronaca nera: un incidente sul raccordo, in cui aveva perso la vita un’intera famiglia, una signora uccisa a colpi di cavatappi dal marito, un gatto crocifisso davanti la sede della protezione animali, un ragazzo picchiato e derubato in centro città e una bomba esplosa qualche ora prima davanti ad una scuola, proprio nel momento della ricreazione. Una strage.

La voce metallica della ragazza era intervenuta di nuovo. Parlava piano, aveva un tono rassicurante ma diceva cose orribili. 

Oggi non ci sono uomini della sicurezza all’interno dell’aeroporto. Sono tutti in sciopero. Se dovesse succedervi qualcosa la responsabilità sarà soltanto vostra. 

La gente cominciava ad insospettirsi, le madri stringevano al petto i figli e il panico stava prendendo piede. Non sapevo cosa fare né cosa pensare.
I telefoni erano isolati, non c’era campo in nessuna zona dell’aeroporto.

Da questo momento tutte le porte dell'aerostazione sono chiuse, nessuno può più uscire e né entrare. Vi preghiamo di affrettarvi e controllare sugli appositi tabelloni il numero del gate. 

Il brusio dell’inizio aveva lasciato il posto ad urla scomposte. Avevo visto persone che scappavano, le valigie lasciate in giro qua e là. Alcuni battevano pugni e calci per aprire le porte a vetri che però sembravano sigillate. 
 
Avevo provato a forzare le porte scorrevoli ma niente. Fuori non c’era anima viva. Avevano sicuramente bloccato l’ingresso all’aeroporto, messo pattuglie di vigili alla fine dell’autostrada per bloccare le auto. Mi ero guardato intorno, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.  

Dovevo andare a Parigi a trovare mio figlio. Avrei voluto chiamarlo. Il cellulare non dava campo. Allora avevo acceso il pc e avevo inserito la password per collegarmi dall’aeroporto. 
Niente.  Nessuna rete. 

Poi, di nuovo la voce:
Tutte le bevande somministrate all’interno dell’aeroporto contengono una sostanza che vi aiuterà a mantenere la calma, a rilassarvi ed eliminare gli attacchi di panico. 

Da non crederci.
Avevo con me la valeriana. La portavo sempre quando dovevo volare. Non mi piaceva la sensazione di ansia che mi procuravano il decollo e l’atterraggio. Avevo svuotato metà boccetta di compresse e le avevo ingoiate senza acqua.

C’era un signore che inveiva contro un’impiegata, urlava, voleva spiegazioni. Era una delle poche impiegate rimaste in giro. Tutti i desk ormai erano chiusi e i gate automatizzati. 

Nessuno dava indicazioni. 
Dagli schermi della videosorveglianza si potevano osservare scene di panico. Gente che urlava e piangeva, gente che correva tra scale mobili e uffici di polizia. 
Nessuno poteva rassicurarci.

Una ragazza con gli occhi neri e i capelli lucidi di sporco, si era avvicinata ad un distributore automatico. Non sembrava spaventata. Era sola e aveva un bagaglio a mano con una targhetta ben in evidenza dove si poteva leggere il suo nome. Eveline, si chiamava. Si guardava intorno, sembrava cercasse qualcuno. Si era rivolta ad un signore barbuto seduto dietro di lei. Lui teneva le mani sul capo, sembrava disperato. Chissà cosa si erano detti. 
La ragazza aveva inserito delle monete e dal distributore automatico era venuta fuori una bottiglietta d’acqua.
Bevuto il primo sorso, un sorriso sereno si era imposto sul suo viso. Il signore barbuto le aveva chiesto qualcosa e un attimo dopo l’aveva seguita a ruota, aveva preso anche lui l’acqua e  si era diretto verso un gruppo di ragazzi, probabilmente una squadra di calcio in partenza. Aveva parlato con loro, che si erano diretti tutti al distributore.

Dopo una trentina di minuti, l’ordine sembrava essersi ricomposto. La folla impazzita aveva trovato la sua geometria nello spazio, tutti schierati in fila alle macchinette automatiche, a bere qualcosa. Qualcosa che faceva bene, che rilassava la mente. 

Sembrava avessi sognato tutto. Ma io ero uno dei pochi rimasti lucidi. Erano tutti drogati, ormai. E calmi, rilassati, sorridenti. 

sabato 1 giugno 2013

Dove trovare i fondi per il Comune di Palermo

A Firenze mi hanno multata perché sono passata col rosso. Giuro che il semaforo non l’avevo visto. Era coperto da un albero. 
Non voglio giustificarmi, so che ho sbagliato.
In fondo però Renzi e la sua amministrazione fanno bene. Gli automobilisti, fiorentini e non, sono accorti e rispettano le regole. E magari rispettare le regole diventa sempre più difficile, come in un gioco a livelli, perché i semafori sono coperti dagli alberi. 
Questo banale episodio mi ha fatto pensare a Palermo. L’amministrazione comunale ha un grosso vantaggio rispetto a quelle del resto d’Italia. Qui la nostra inciviltà garantisce un introito sicuro. Il comune potrebbe arricchirsi, potrebbe amministrare la città anche solo grazie alle multe. 
Forse multare chi non rispetta il codice della strada servirebbe sia a rendere i palermitani più civili sia a trovare un po’ di denaro per amministrare la città.

giovedì 9 maggio 2013

Il reporter diffuso


Da un post su Facebook mi ricordo che oggi Peppino è stato ammazzato. 
Il porto di Genova, il governo misto, la Sicilia di Crocetta, l’editoriale di Gramellini e il nuovo disco di David Bowie sono solo dei tweet e quindi vado a caccia delle notizie per rendermi il profilo interessante e colto. 
Non c’è nulla che non risulti ipocrita sui social network, nulla che non risulti banale. Questo mi spaventa, la mancanza di serietà, la banalità di un post con troppi ‘mi piace’, il plebiscito elettronico, lo svilimento della storia, della politica, della vita, in generale. E a volte la scambiamo per democrazia... Tutti dicano quel che pensano! 
Ma no, sole le voci autorevoli dovrebbero aver fiato e, anch’io, che adesso mi trovo a scrivere di questo, mi sento più che ipocrita e banale. 
Quello che si chiamava giornalismo è adesso un marciapiede in cui tutti possono pisciare, è una fossa comune, un muro deturpato, un incubo social che dovrebbe fare presto a sparire. 
Non so se la democrazia è online come ci ha fatto credere Grillo, credo solo che il web sia il modo migliore per coinvolgere noi che abbiamo imparato da piccoli ad accendere un computer e che sappiamo solo in parte come gira il mondo, quello virtuale si intende. Quello reale sembra tutta un’altra cosa, con le urla della piazza che grida ‘ho fame’ e le tasche piene di insulti, con la rabbia dei porci e nessun commento commentato, senza condivisione e senza spazio, urla vuote che non arrivano a un metro più in là. 
Le voci, sul web, sono distanti e compromesse, sono filtrate e ormai vecchie. Quel ‘vecchio’ che abbiamo attorno nella vita reale, non emerge, non passa. 
Ho ereditato dagli anziani che conosco la tendenza ad essere anziana, a rimpiangere il vecchio e odiare il nuovo.

mercoledì 1 maggio 2013

La morte è uno spettacolo che soddisfa

Quando frequentavo il liceo, la mia professoressa di latino era talmente ossessionata dal problema della morte nella cultura classica che non faceva altro che declamare: «Mors quid est? Aut finis aut transitus», ovvero la morte o è la fine o un passaggio da un mondo ad un altro.
Riallacciandosi alla concezione filosofica di Platone, Seneca, nelle sue famose Epistulae Morales Ad Lucilium non escludeva la possibilità di una nuova vita dell’anima, l’inizio di un nuovo ciclo vitale dopo la morte. Il filosofo stoico non fa altro che sintetizzare, in un’unica frase, anni di dibattiti alimentati da due visioni contrapposte: da un lato quella materialistica di Democrito e di Epicuro per cui la morte era la fine di tutto, e dall’altro quella spiritualistica di Pitagora, Platone e dello stoicismo per cui la morte era un passaggio o un ritorno ad altra vita. Quel passaggio implicava la liberazione dell’anima dal carcere del corpo e quindi la fine di tutte le sofferenze.
Anche per il cristianesimo la morte è un passaggio, un momento di transito necessario per una vita migliore. La morte, così intesa, fa quasi pensare a un traguardo raggiunto dopo un percorso duro e pieno di ostacoli, il punto di approdo conquistato dopo un lungo “viaggio di formazione”. La secolarizzazione ha fatto in modo che il venir meno dei valori religiosi, generasse un cambiamento nella concezione della morte all’interno della società. Se penso alla concezione che abbiamo oggi della morte, quindi alla morte nell’epoca dei mass media, mi viene in mente la sua spettacolarizza- zione. Lo sdoganamento di questo tipo di spettacolo basato sulla sofferenza – si pensi alla tragedia di Vermicino e alla diretta Rai di diciotto ore a reti unificate per raccontare la lenta agonia del bambino, precipitato due giorni prima in un pozzo – dà vita ad un pubblico che, guardando, si anestetizza e smette di provare pietà.

In ambito letterario questo paradosso è stato approfondito da Aldo Palazzeschi in una novella, ironica quanto feroce, in cui un “uomo qualunque”, assolutamente ignorato dalla gente, soffre in quanto sente l’esigenza di essere “qualcuno” all’interno della società. Per ottenere notorietà, l’unico modo possibile è compiere un efferato omicidio. La poco conosciuta novella Issimo, di Aldo Palazzeschi, raccolta nel Palio dei buffi (1937), anticipa i tempi e descrive con amara ironia le ultime ore di vita di un uomo plagiato da una società malata in cui compiere un misfatto è condizione indispensabile per diventare popolare. Il protagonista sente una smania insinuarsi tra le viscere, un sentimento insopportabile e ripugnante, una forte invidia, un malessere legato alla sua impopolarità visiva.
La nuova cultura dell’immagine prevede che la morte diventi arte, merce vendibile e spendibile, che le violenze e le storture del mondo navighino, tramite flussi invisibili, sugli schermi di tutto il mondo, montate a dovere e con la giusta colonna sonora.
Nel «periodo del superlativo» – in cui «l’urlo più alto, il salto folle, il colpo forsennato, la più strabiliante trovata o promessa» hanno la meglio – fare del bene, è fuori moda, significa essere condannati all’impopolarità e all’anonimato. Palazzeschi infatti scrive: «cantar la propria donna in paradiso contornata dagli angioli tra stelle e rose, non era a quel fine dissimile dallo spedirvela a pezzettini, mirabilmente confezionata dentro bauli o valige, o in pacchi postali come si usa adesso».
L’unico problema del nostro protagonista è la mancanza di fantasia. Pur di farsi pubblicità, i suoi concittadini hanno sperimentato tutti i modi di uccidere. «Se ammazzar la propria moglie produceva un particolare clamore, perché il clamore divenisse generale bisognava ammazzarne almeno sette. Due righe di giornale erano dovute a chi rubava poco, per chi rubava molto, invece, intere colonne».
Per questo, per riscattarsi dalla sua mediocrità, decide di suicidarsi. Ma decide di farlo in un modo non convenzionale, ovvero non da eroe ma da uomo qualunque. Vincere questa sfida è il suo obiettivo. Se la norma prevede che per diventare famosi bisogna macchiarsi dei più efferati crimini, lui deciderà di sfidare il sistema facendo il contrario. Il suo sarà visto come un gesto sovversivo e, proprio per questo, gli regalerà la gloria. Forse un’ostinata solitudine avrebbe attirato su di sé la curiosità del prossimo. «Per vincere bisognava morire senza che nessuno se ne accorgesse».
Decide di portare il suo corpo in ospedale e farsi benedire da un frate. «Fattosi al suo giaciglio un cappuccino, gli domandò con un sorriso dolce: - Sicché? - Né buono né cattivo, non ho fatto male ad alcuno, sono solo e non lascio niente. - Bene, niente – rispose il frate, e benedì il niente». Il giorno dopo, il necrologio riporta sì il suo nome, ma con due lettere sbagliate. Anche il numero degli anni da 70, per la dimenticanza dello zero, diventa 7. Inoltre, il caso vuole che quel giorno, «[...] come accade sempre in questi casi straordinari, la fortuna si aggiunge al merito: si leggeva sul giornale dell’attentato a un Re, era scoppiata una rivoluzione, quattro erano in corso e una lì per lì per scoppiare, due terremoti e un nubifragio avevano prodot- to migliaia di vittime: una moglie per vendetta aveva accecato il marito con le cesoie, e una fanciulla per dare un valido esempio, sempre con le cesoie aveva malmanomesso il proprio fidanzato; divorati sei bambini un orco. Due matches di boxe agitatissimi, [...] e un telegramma dell’ultim’ora recava la notizia ch’era stato toccato il Polo. Non uno di quei tanti lettori, vedi prodigio, lesse nel necrologio del nuovo campione il nome sbagliato».

L’ironia di Palazzeschi è amara e più che attuale e fa riflettere sull’evoluzione del concetto di morte nella società contemporanea.
Anche se quello della spettacolarizzazione della morte potrebbe sembrare un fenomeno caratteristico della nostra cultura degli ultimi cinquant’anni, dovuto all’avvento della televisione e allo sviluppo delle nuove tecnologie, in realtà, ha radici ben più antiche.
Seneca, sempre nelle Lettere a Lucilio, esprimendo un giudizio riguardo la moralità della pena del sacco, ovvero una pena inflitta ai soggetti ritenuti colpevoli di parricidio, spiega che da quando la pena era entrata in vigore i casi di parricidio erano aumentati. Il fatto che la morte del parricida avvenisse in diretta – e seguendo un rito crudele per il quale veniva frustato, cucito in un sacco di cuoio insieme ad una vipera, un cane, un gallo e una scimmia e poi gettato nel Tevere – secondo l’autore, spinge l’uomo all’emulazione e per di più si collega a quell’ansia di vedere morire qualcuno come se si stesse assistendo ad uno spettacolo.
In una delle sue tragedie, Le Troiane, lo scenario spettacolare in cui l’autore colloca le morti di Polissena e Astianatte è quello di una folla di Greci e Troiani, che impreca, commenta e segue con apprensione lo spettacolo delle morti in diretta. Morti esemplari, ai limiti del tragico, denunciano la follia dell’uomo che si nutre di scene raccapriccianti. «L’uomo, creatura sacra all’uomo, viene ormai ucciso per divertimento e per gioco, e mentre prima era considerato un misfatto insegnare a un individuo a ferire e a essere ferito, ora lo si spinge fuori nudo e inerme, e la morte di un uomo è uno spettacolo che soddisfa».
I valori religiosi vengono sostituiti da valori profani, e la morte cessa di essere un momento sacro. È straordinario pensare che quest’ansia di assistere alla morte in diretta abbia radici così lontane.
Nel corso degli anni la morte, oltre ad aver perso la sua connotazione sacra, è diventata il pretesto per ottenere popolarità, un modo per fare audience. Questo è avvenuto non solo per i proprietari delle reti televisive, i conduttori dei programmi tv o per gli industriali ma, di riflesso, ha avuto conseguenze sociologiche agghiaccianti per i cittadini che hanno visto in questo sistema il modo migliore per raggiungere la notorietà attraverso un preciso atteggiamento mediatico. Si pensi allo splendido film di Sidney Lumet Quinto Potere (Network) in cui un conduttore televisivo, per risollevare l’indice di gradimento del proprio programma, annuncia il suicidio in diretta.
Le immagini dei morti diventano ovvie come quelle dei bollettini meteorologici quotidiani. Jader Jacobelli, nel 1996 scriveva: «C’è l’alta e la bassa pressione e ci sono anche i morti. Non abituiamoci alla vista dei morti per non sconfiggere definitivamente la vita».

Saggio pubblicato sul numero 9 della rivista Il Palindromo

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