venerdì 20 ottobre 2023

Zio Carmelo

 Soprattutto la voce mi rimbomba nella testa, con la sgraziata raucedine di chi ha fumato stecche intere di sigarette per una vita. La voce che esplode in un boato di ospitalità e affetto non appena mi vede. 

"Beella, Lauretta, come stiamo? Ti ho pensato! Vieni che ti faccio vedere una cosa speciale..." 

Era questa la sua accoglienza, tutte le volte. Quando tornavo al Bosco era lui che dovevo incontrare, lui e Donna Rosa. E non so come si fa a spiegare il Bosco se non ci si è mai stati. 

Il Bosco è zio Carmelo, con i suoi esperimenti culinari e la leggerezza della vita da 'comune', il suo orologio con il pallone dei Mondiali del '92, i suoi occhi piccoli e brillanti, attenti a tutto e senza giudizio, una marea di piante coltivate in un pezzo scosceso di terreno acquistato quando dalla Svizzera si trasferì in Italia, trasformato in un luogo incantato pieno di fiori, biblioteche, un teatro, una cantina, altalene, laghetti e tre casette per le sue tre figlie. Carmelo non mi è bastato mai, è per questo che voglio ricordarlo, per non perdere nemmeno un pezzo della magia che mi ha regalato. 

Oltre alle meravigliose giornate dedicate alla Pasquetta, mi sono trovata al Bosco in estati torride piene di lucciole e arte, quando camminavo in strade buie con i mie amici di una vita con la faccia ricoperta di macchie di tempere, senza trucco né maschere, solo avvolta dalla poesia delle parole, della pittura, della musica, della natura. 

Ho mangiato il risotto alla borragine e quello alla provola di zio Carmelo e la pasta fagioli e cozze di Donna Rosa. Ci aveva insegnato a vedercela da soli per lo più, era amorevole e ospitale ma anche fintamente burbero e spesso avvertiva il bisogno dei suoi spazi di libertà. Diceva sempre che il Bosco era un luogo da coltivare e noi di casa Mazzola dovevamo fare di tutto per non farlo morire. "Il Bosco va coltivato", ci diceva...

Carmelo è vita, è un sogno che si realizza il mattino dopo con la costruzione di un teatro a cielo aperto che Casa Mazzola ha contribuito a progettare e ultimare, è un mondo di sapere, di cultura in tutti i campi, è una sfida uno contro tutti a Trivial, è una grappa fatta in casa, un vino bianco e un vino rosso di guarnaccia, è una cornice di edera e un melone bianco dolcissimo, è una brocca di acqua riempita da una sorgente, un cesto di vimini pieno di pomodorini e verdure, è la spesa ragionata tutte le mattine dopo un'attenta conversazione con Rosa sul menu del giorno, è una canottiera azzurra, un paio di gambe bianche magre, "Il nome della rosa" di Umberto Eco, la persona che mi ha dato i consigli giusti quando volevo cambiare facoltà ed ero demotivata. 

Zio Carmelo è arte, è il ragazzo della via Gluck, è Bosc
h, 'Cent'anni di solitudine', un cruciverba sempre pieno, un paio di occhiali demodé e un'intelligenza ammaliante.

Zio Carmelo era per me perseveranza. Faceva la vita dell'eremita ma era la persona più incisiva che conoscessi. Ha creato un mondo perfetto dal nulla e gli ha regalato un'aura poetica, quasi divina, sgombra di pregiudizi. Non invecchierà mai, non morirà mai. 

Zio Carmelo mi ha insegnato a pesare tutto, a dare valore alle cose importanti, come mia madre, come mio padre. 

Zio Carmelo è un pezzo della mia famiglia che se ne va perché si è stancato di un modo in declino. 

Ci trattava come figli quel genio visionario, non era una persona qualunque, immaginava il suo mondo ideale e lo realizzava poco dopo. Sdrammatizzava sempre, era rude a volte ma aveva un cuore enorme. 

Io ho avuto Carmelo, l'ho amato e lo ricorderò per sempre.


Rino Gaetano - Ma il cielo è sempre più blu (Official Video) - YouTube







venerdì 28 luglio 2023

Repressione Piemonte

Siamo nel Canavese, in un pezzo di terra usato come dormitorio e dove la gente non si è mai svegliata. Dietro di noi un uomo in camicia stropicciata, sui 50 anni, capelli lunghi brizzolati con una forte cadenza calabrese si intromette nella conversazione mentre beve la sua quinta birra da 66 cl. In realtà dice di non essere sicuro che sia la quinta perché beve per dimenticare e non se lo ricorda. Ha detto che proprio per questo motivo paga sempre in anticipo. Lo vedo triste, mentre si affanna a chiamare tutta la sua rubrica per sapere se qualcuno vuol fargli compagnia al bar. Un suo amico gli dice di sì e io mi sento sollevata per lui. Ci racconta che aveva un’amica russa e che quando lui si è permesso di parlare male di Putin lei si è arrabbiata e gli ha risposto male, irritata per il suo commento politico assolutamente fuori luogo.

Il bar è a Cuorgnè, un posto che solo a nominarlo ti fa riflettere su quanto sia confinata l’esistenza di chi ci abita. I tavoli e le sedie sono di un colore sgargiante come a ricordare che tutto è reale, come ad affermare la propria esistenza, creare un piccolo rifugio magico gestito da alcolizzati non per scelta e gente che lavora ad ore, in cui gravitano bambini dell’asilo da una parte, paracadutisti e gente senza nome dall’altra, quasi tutti in silenzio fino a quando qualcuno, un po’ più temerario degli altri, non dà il ‘la’.

Questo posto mi piace perché ha voglia di esplodere. Si percepisce per la cura del prato con i giochi per bambini, per la voglia di comunicare che diventa impertinenza se assecondata, per l’audace posizione a metà tra le montagne e la strada, per il servizio cordiale ma informale.

Giorgio, il proprietario, non ha mai mostrato gli occhi. Sono coperti da occhiali da sole a specchio mentre parla senza sosta come se non avesse davanti due persone ma due mummie che possono solo guardare e non interagire. In un delicato equilibrio tra educazione e tatto, cerco di interromperlo con qualche domanda tanto per ricordare che sta parlando con due esseri umani. Giorgio per sopravvivere ha girato l’Europa, ha fatto il cameriere, gestito bar ed è stato insieme a donne bellissime. Giorgio ha bisogno di raccontarci tutto. Ha bisogno di parlare e non di ascoltare, confinato in un pezzo di terra in discesa frequentato troppo raramente da persone che accendono una conversazione. Giorgio è permaloso, ci racconta che le spese sono raddoppiate e che gestire un locale è diventato difficile. Il clienti, anche quelli più assidui, sono polemici per i prezzi che ritengono troppo alti per e gli mandano messaggi di sfiducia, come ad addebitare la colpa a lui che non c’entra nulla.

Il cielo è illuminato da un sole tiepido, quasi rilassante dopo tre giorni di afa torrida che mi ha tolto il sorriso ma faccio fatica a digerire Giorgio, con tutta la sua rabbia e la sua repressione. Mi piace, ha voglia di esplodere, come il suo locale, ma ha troppi sensi di colpa, troppi rimpianti. Sua madre è malata ed è per lei che è tornato. Ha difficoltà ad accettare la sua condizione di maturità, ha una fidanzata russa adesso che viene a trovarlo una volta al mese. Ha un paio di occhiali da sole a specchio, ha due ragazze che lo aiutano quando ha bisogno, ha la vista dei paracadutisti che atterrano nel terreno sotto al suo bar.

Giorgio non esiste finché non parla a ruota libera, resiste perché parla senza sosta e ci coinvolge nel suo finto divertimento alcolico, nelle sue avventure che ormai sono un ricordo lontano.

Ho letto le recensioni del locale, birra fresca, i paracadutisti che mangiano bene, ambiente e personale affabile. Il proprietario Marco è gentile e molto bravo in cucina, non si ferma a disturbare i clienti quando mangiano, i prezzi sono bassi e la posizione regala un bel paesaggio.

Ma lui non è Marco, lui è Giorgio, il nuovo gestore. Lui ancora non esiste.

Quindi voglio dire a Giorgio che è nel concetto di repressione che vivo la quotidianità o meglio sono le persone intorno a me che vivono la repressione in tutta la loro solitudine. Qui la gente vive in un isolamento che da involontario si fa volontario. Solo i più tormentati e caparbi resistono al richiamo della socialità e resistono come hanno fatto la prima volta, quando hanno visto cosa c’è oltre le montagne e non si sono fermati nel parco con il prato all’inglese e fanno in modo che quella curiosità di vivere che sembra una sensazione di troppo schizzi fuori dagli occhiali a specchio per colpire tutti gli interlocutori del mondo.



martedì 6 giugno 2023

Gioia e burnout

Gioia mia, oggi ti parlerò della gioia e della difficoltà di assaporarla a pieno.

La gioia è quello stato di ebbrezza che ci rende felici, che ci regala piacere, è un figlio che impara a camminare, una serata con gli amici a ridere, un rapporto sessuale, un’attività sportiva, un riconoscimento per il proprio lavoro, la realizzazione di un progetto a noi caro, una vincita, un amore, un viaggio.

La parola gioia ha a che fare con i bisogni individuali e con quelli sociali. Che cosa significa questo? Significa che la realizzazione dei bisogni individuali deve fare i conti con quella dei bisogni sociali ed è per questo che spesso la gioia è accompagnata dalla vergogna, per motivi che spaziano dalla religione, alla moda, al contesto culturale. La vergogna viene fuori quando siamo egoisti e causa uno spegnimento del piacere o un suo affievolimento.

Ecco perché dici di non essere mai pienamente felice, c’è una spiegazione. Non sei mica tu il problema. La gioia oggi non può essere esclusiva, totale, perché prevede sempre una regolazione emotiva determinata dagli ‘altri’. Solo l’equilibrio tra gioia e vergogna ci permette di essere socialmente adeguati.

Gli episodi di burnout sono una conseguenza dello scarto tra la realizzazione individuale, la soddisfazione cioè delle proprie aspettative, e una reale assenza delle condizioni per soddisfarle.

Ho capito solo adesso cosa ci è successo, quando ho letto dello scarto tra la vita professionale immaginata e quella reale, il disagio psicofisico connesso principalmente al lavoro, l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e il nostro atteggiamento cinico, l’insoddisfazione personale e il senso costante di depressione. Ci svegliamo controvoglia e andiamo a lavorare per evitare di sentirci inadeguati. Il senso di impotenza che a volte ci pervade è talmente frustrante da far sì che somatizziamo tutto e, con un reflusso gastroesofageo, una tonsillite o la febbre a 40, il nostro corpo si assenta per un periodo come a proteggere la mente dal declino della frustrazione. Così a volte il corpo sopporta il peso di tutto questo per salvare la mente e la mente a volte sopporta il peso per salvare il corpo.

La gioia, in questo contesto di disagio di cui ci troviamo a far parte, è quasi mal vista. Pensa agli haters che godono nel distruggere il benessere, che nutrono invidia se la gioia di un utente Facebook è espressa consapevolmente o inconsapevolmente, se prevale la gioia individuale ovvero quella che rappresenta la vera realizzazione della propria volontà. I momenti di gioia e piacere hanno da sempre un rovescio della medaglia: il nutrimento è associato alla lussuria, il riposo alla pigrizia, l’accoppiamento alla lussuria.

Hai capito adesso perché ci sentiamo come dei fuochi d’artificio inesplosi? Abbiamo un potenziale enorme ma la città è isolante con i suoi rapporti sociali sempre più inesistenti a meno che tu non sia uno studente, sia chiaro. Solo in quel caso provi gioia perché ti rendi conto di avere ancora un cervello e delle potenzialità, è un momento di gioia regolamentato che stimola l’autostima e il piacere di conoscere, di sapere e scoprire nuove realtà.

L’ambiente lavorativo invece ci spreme come tubetti di colore senza un criterio, solo per il piacere di farlo, sfruttando il nostro corpo senza stimolare il cervello, macchiando tele bianche senza alcun progetto reale e condiviso.

Gioia mia, mi dici spesso che vorresti ricominciare da zero, in un paese in cui non ti conosce nessuno e in cui la gente sorride di più, vive con più leggerezza. Il motivo è questo, l’irrealizzazione del sé e della propria natura, l’impossibilità della gioia individuale, che sia anche solo una partita di pallone, senza che questa venga tassonomizzata da un ranking sociale che prima era molto più ristretto. Tutto il mondo adesso ci guarda e noi sappiamo che ci sta guardando e ci sentiamo per questo immobilizzati, fermi, in attesa di capire quale mossa sia la migliore.

Il futuro è ancora lontano e non sappiamo cosa vogliamo fare da grandi. Il senso di speranza ci avvolge e ci suggerisce che possiamo immaginare una vita migliore in cui è possibile che la soddisfazione individuale coincida con quella sociale. È lì che cerchiamo la gioia, nel frattempo possiamo solo scegliere i compagni per condividerne una idealizzata.

Le basi - 3. Gioia (google.com)





venerdì 26 maggio 2023

Disgusto

 

Ho ascoltato un podcast che si chiama ‘Le basi’ in cui una ragazza che vive a Milano e una psicologa parlano delle emozioni primarie. Il disgusto è la prima emozione analizzata e mi fa strano pensare che secondo loro il disgusto si manifesta per la prima volta durante il periodo dello svezzamento, quando i bimbi pur di compiacere la mamma e non rischiare di ferirla mangiano malvolentieri la poltiglia che si mangia a 6 mesi, polli centrifugati bio e brodo di verdure coltivate dal produttore al km 0. Sono disgustata all’idea che la prima violenza che subiamo a quell’età, come un obbligo affettivo che ci viene naturale, sia presa in considerazione solo nel 2023 da una ragazza che si occupa di comunicazione e una psicologa che lavora in un’associazione. Il disgusto, dicono, ci ricorda tutto ciò che per noi è pericoloso e dannoso, come una minaccia da fermare ad ogni costo. Per esempio le relazioni tossiche o tutto quello che a volte ci costringiamo ad accettare per non ferire il nostro gruppo di pari. Ne viene fuori un quadro imbarazzante soprattutto perché vero e decisamente sconcertante, accettiamo tutto in modo passivo e inetto, dal nostro lavoro alla nostra storia d’amore, vissuta in modo non appagante perché non si tiene conto dei nostri gusti reali, dei nostri desideri, della nostra volontà. Il disgusto ci riporta quindi a delle riflessioni molto più importanti sulla nostra vita e sui nostri reali piaceri e quelli indotti dalla società. Ci piace un determinato cibo perché piace a Gabriele, ci piace un ragazzo perché è diventato un modello idolatrato e così via. Il disgusto si fa però strada nella nostra sfera intima, come un avvertimento della falsa scelta, un errore di cui ci si rende conto solo quando siamo soli con noi stessi o con il nostro partner, nella sfera familiare più stretta, come un campanello d’allarme che ci avvisa che ci stiamo allontanando dalla nostra vera natura.
In questo post parlo di lavoro, di amore, di scelte consapevoli e volontà, di desideri e amore per sè stessi. Ti racconto questo perché mi piacerebbe resistere al disgusto ma non ci riesco, è come un anticorpo, una protezione, una corazza indicibilmente essenziale per me e per tutti. Ma da oggi proverò ad ascoltarlo questo disgusto, perché me lo merito e ho ricominciato ad occuparmi di me. Tutti voi dovete farlo, per vivere, per morire, per esserci.

lunedì 8 maggio 2023

Resto a guardare

 

Una ragazza peruviana di nome Charita mi dice che il suo lavoro è complesso. Ho preso in mano la sua carta d’identità per guardare la sua scheda cliente. L’ho guardata con sguardo perplesso.

Sono io, mi dice

Non sembra, sembri diversa.

Lo so, ho perso 13 chili.

È costretta ad avere a che fare con uno dei più importanti imprenditori di Torino, fino a qualche tempo fa candidato alle elezioni comunali, e con suo fratello, uomo tirchio e frustrato che la rimprovera perché troppo grassa. Lui non è certo un figurino peraltro ma si ostina a controllare gli scontrini e la dispensa dicendo che la spesa che fa per lei e i genitori di lui è troppo calorica. I genitori non hanno il diabete, non soffrono di nessuna patologia ma, nonostante questo, l’uomo tirchio sostiene debbano rimanere a stecchetto.

Marilou invece è fortunata, è una ragazza filippina di un’età indefinibile, con una risata isterica, finta e un fare eccessivamente gentile, sempre compiacente e con la risposta pronta. Marilou sta bene, ha la casa piena di regali, mi dice. Lavora tre o quattro ore al giorno a casa della sua “padrona” e porta il cane fuori almeno due volte al giorno. Cucina per cena e sostiene di fare un lavoro creativo perché ogni sera sceglie un menu diverso per i “padroni”. Guadagna 1000 euro in busta paga più 600 euro in nero perché altrimenti i "padroni" devono pagare troppi contributi Inps. Sullo screensaver del telefono ha la foto di un barboncino bianco che mi confessa essere la sua vita. Il marito non è a Torino ma la sorella sta per raggiungerla. Verrà anche lei a lavorare per la "padrona" perché la "padrona" ha tante case, una in Corso Massimo d’Azeglio, una in Liguria e due in montagna. Ha bisogno, la "padrona".

Editha ha quattro figli, due naturali grandi e due acquisiti, piccolini. I due naturali sono nelle Filippine, i piccoli sono a Torino e sono cresciuti con lei. I genitori sono due famosi medici di Torino e il loro onorario è di 300 euro a visita. Profumano di Vetril e ammorbidente e parlano un italiano insolito con la ‘s’ di pezza. Sono felici, biondi e con gli occhi azzurri, vorrebbero partire con Editha e vedere quel paese tanto idealizzato in cui vivono i fratellastri mai visti. I veri genitori sono contrari, farli partire per le Filippine significherebbe rinunciare definitivamente alla loro paternità e maternità e questo è tassativamente escluso. Editha ha il cellulare pieno di foto e video ricordo dei loro primi passi, le prime parole e le prime feste. Editha è ridiventata mamma dopo 15 anni, ha vissuto due vite in una perché è pagata per fare la madre di due figli non suoi, pulire casa, preparare la cena. Stasera preparerà cotolette alla milanese, patatine fritte e verdure miste. Sorride sempre, come fosse un tic perfezionato negli anni.


Da quando sono al mondo non ho mai visto un gap culturale così ampio, non ho mai visto una voragine tale da dividere ricchi e poveri in modo tanto feroce. Ed ascoltare entrambe le voci è terribilmente inquietante perché i ricchi mi parlano della difficoltà di effettuare la ristrutturazione della quinta casa per gli ospiti in quanto è difficilissimo trovare il materiale per i lavori per via della guerra e i muratori temporeggiano troppo. Invece c'è una marea di gente che raccoglie la roba dall'immondizia e si accontenta di vivere lontano dai figli pur di portare il pane a casa. I "poveri" non hanno soldi sul conto e chiedono finanziamenti senza possedere una busta paga dignitosa, con dieci ore settimanali dichiarate e tutto il resto in nero. 

Il ceto medio si è improvvisamente impoverito e si indebita per sopravvivere. Il ceto medio è adesso composto da poveri. I ricchi invece sono diventati ancora più ricchi, i medici hanno scoperto che il servizio sanitario nazionale non funziona e hanno iniziato a farsi pagare le visite specialistiche private fior di quattrini. Ho scoperto che solo i filippini che lavorano per loro hanno diritto ad un trattamento di favore e possono pagare le visite meno degli altri pazienti.

Esiste un divario enorme tra ricchi e poveri oggi, almeno alle Poste e, nel mio piccolo osservatorio privilegiato, vorrei cambiare le cose e distribuire un po' meglio la ricchezza soprattutto nel momento in cui la gente con i soldi manifesta una superiorità immotivata e pretende un trattamento diverso, migliore.

Charita mi ha raccontato che la sua comunità fa spesso un gioco, ognuno dei membri a turno presta 10.000 euro agli altri membri che se li spartiscono e li restituiscono a rate, una sorta di prestito senza interessi che permette ad ognuno di loro di mandare i soldi al paese nativo, ai figli, ai genitori, alla famiglia rimasta in panchina.

Il mio privilegio è quello di poter osservare un pezzo di società dallo spioncino della porta, un pezzo di società aggressiva e maleducata, un pezzo di società che insulta e che entra in ufficio solo per sputare merda ma anche un pezzo di umanità che deve scendere a patti con milionari e miliardari, travestendosi da servo per poter vivere e godere di discreti vantaggi, una vita di finta integrazione in cui per vivere bisogna soffocare ogni tipo di individualità e tradizione culturale, che può guadagnare qualcosa in più a patto di non integrarsi mai e vivere in ghetti comunitari. 

Io questa comunità che riesce a scindersi la ammiro, nel senso più semplice del termine. Non sopporto le disuguaglianze, divido il mondo in gente onesta e disonesta, gente umile e gente snob e la gente "povera" che incontro oggi in ufficio è gente onesta e umile, che non ruba e non ruberebbe mai, è una comunità di persone che ha conservato un'umanità reale, fatta di assistenzialismo e unione - al contrario degli italiani che si fanno la guerra - e sta raccogliendo il tempo e i soldi per vivere fuori dall'Italia, fuori da questo mondo in cui i figli non sono i propri e i sentimenti nemmeno.

Sto a guardare, a volte mi sembra davvero un privilegio. 

Vi dico solo: "Chapeau", andatevene prima possibile adesso.





giovedì 2 marzo 2023

Ufficio Postale

 

 

Internano la gente qui, la confinano.

Asciugatevi pure i piedi prima di entrare, non fate troppo rumore e rispettate questa gente che qui ci lavora, non conosce silenzio e sorrisi. Asciugatevi le lacrime prima di entrare, che qui ne sgorgano già a fiumi, indossate occhiali da sole per nascondere le occhiaie, scambiatevi un segno di pace.

L’anaffettività è vitale nelle vostre relazioni ma stringiamoci la mano a costo di morire di Covid. 

Noi ascoltiamo le richieste di tutti senza badare alle perdite di tempo.

Abbiamo soldi qui, ma non sono nostri. A volte lavoriamo per niente se siamo distratti, ascoltiamo tutti e cerchiamo di centellinare energie e caffè per non immedesimarci troppo e preferiamo imbottirci di Valium per lasciar perdere le urla e le minacce, dei clienti e dei capi.

Eredità, perdita dell’udito, perdita del lavoro, pensione, liquidazione, tasse, prestiti, cessioni del quinto, reddito di cittadinanza, perdita dei figli, acquisto case, spaccio, cinquantamila euro di contanti in nero per tutti gli imprenditori con la licenza di farlo, capire, fare, pensare, ascoltare. 

Ascoltare, soprattutto.

C'è chi si lecca le dita prima di contare i soldi, chi puzza di pesce, chi viene in ciabatte, chi in giacca e cravatta, chi passa per caso e chi viene a bella posta per insultare.

Reintegrazione, disagio sociale, odio del prossimo, odio del fratello e della sorella, far finta di non avere interesse per l’eredità, sperare che muoiano madre e padre, il fratello non si è mai visto in tutti questi anni, “mia madre ha lasciato tutto a me”, “non voglio far sapere i fatti miei”, “ma a lei cosa interessa scusi?”, “posso prendere questo foglietto scritto da lei?”, “ma lei come fa a sapere queste cose?”, “ma la privacy?”.

Vogliono aiuto ma non parlano, le labbra strette tenute a freno per non tradire la loro natura, la frustrazione per non poter dire e voler dire e l’automatismo negli occhi. Solo l’alcool riesce a sciogliere tutto questo e proporre un aperitivo ai clienti succede solo al decimo anno di conoscenza.

C’è un grosso controsenso nel nostro lavoro, proteggiamo i clienti ma ne facciamo merce di scambio, ogni giorno, per il nostro tornaconto.

Io li proteggo sempre, anche se non torneranno mai più. E non perché sia brava ma perché io 'esisto' nel mio lavoro, grazie a loro.

Questo è un luogo di tristezza, difficoltà, vergogna, indigenza, superiorità, solitudine, esperienza, rassegnazione e sconfitta. Ci vengono a sfogarsi, piangere, distrarsi e morire. 

Questo è un luogo privilegiato dove fai finta che le differenze non esistano. Qui tutti cercano di mimetizzarsi e noi non facciamo altro che coprirli dalla luce abbagliante e dell’ombra nera.



venerdì 17 febbraio 2023

Caro cliente, oggi le domande le faccio io

Caro cliente, ne approfitto per dirti che ieri sera vagavo per le vie del quadrilatero romano e mi stupivo del fatto che i locali sembrassero case di riposo, tutti seduti al loro posto con lo sguardo vacuo come vecchietti nella sala tv di un qualsiasi ospizio. Sono entrata in uno dei tanti locali, quello che mi sembrava meno triste di tutti e ho visto tanti ragazzi seduti a fare colloqui. Dico non veramente, non stavano davvero facendo colloqui ma così sembrava. Erano composti, inespressivi per nascondere l’ansia della socialità e del giudizio, per nascondere il senso di liberazione nell’aver fatto questo sforzo di uscire da casa per una serata organizzata 3 mesi fa con il cugino o l’amico del calcetto. Ma perché?

Le domande oggi vorrei fartele io, se permetti, caro cliente che vivi a Torino. Non dico che sei di Torino perché poi te ne esci con la storia che a Torino i torinesi si sono estinti e ci sono solo calabresi, napoletani, siciliani e pugliesi. Vivi a Torino, solo questo basta.

Negli angoli del tuo viso vedo la tristezza di chi ha la vita sempre uguale, un’espressione priva di quelle rughe che accompagnano gli anni, ibernato dal gelo e  dall’assenza di mare e sole che genera l’assenza di colori.

La pioggia ha levigato ogni increspatura del viso e le giornate tutte uguali ti hanno donato la sicurezza di non poter fallire, come vivessi in un paesino dove tutto si ripete e dal quale io fuggirei il prima possibile.

Adesso, se non ti dispiace ti dico perché ne ho abbastanza della perfezione che tanto ti piace, ne ho abbastanza del decoro e della noia degli eventi organizzati, della mancanza di improvvisazione che non crea occasioni, della vita non modellabile, secca come pongo asciugato all’aria. 

Ne ho abbastanza perché, caro cliente che vivi a Torino, non conosci la paura di sbagliare, ti senti protetto solo quando dialoghi con gli amici delle elementari e delle medie. 

Il tuo istinto ha lasciato il tuo corpo a 6 anni.

Ti piacerebbe una bella respirazione bocca a bocca? E remare per riprenderti tutto quello che ti sei perso? Ti piacerebbe non dover prendere appuntamento anche se ti manca il sale per cucinare? 

La mia domanda è questa cliente che vivi a Torino. Ti piacerebbe? 

Altrimenti devo per forza fissarti un appuntamento tra 3 mesi perché per questo appuntamento avevo calcolato un tempo di gestione di un’ora al massimo.