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venerdì 5 settembre 2014

Partenze

Sono sempre sola in aeroporto. Tutti gli altri sono in gruppi di due o tre o addirittura intere famiglie allargate. Li invidio, è più facile dividere l’angoscia della partenza con qualcuno. Vedo tutti come se li osservassi dall’esterno, come se fossi invisibile. Nessuno mi guarda, sono tutti presi dalla partenza, dal mare o dalle nuvole, tutti pieni di sole e salsedine. Io li guardo e mi viene da piangere.

Arrivata al corridoio delle partenze, torno indietro per fumare l’ultima sigaretta prima del volo. Le porte scorrevoli si aprono sul mare. 
Il mare lo rivedrò solo a dicembre e oggi è una tavola, peccato, proprio oggi che devo partire. Da quel primo piano dell’aeroporto Palermo sembra magnifica, con l’afa che ti anestetizza e l’aria condizionata appena varchi la porta scorrevole, il sole accecante, i toni paglia che colorano gli sguardi e le contraddizioni spazzate via dal vento forte. Man mano che scompare, vista dall’aereo al decollo, la vedi in tutto il suo splendore, pura e cristallina come poche. È allora che inizi a rimpiangerla davvero, e l’intero viaggio diventa una sconfitta. Il senso di sconfitta non scompare né all’atterraggio né sul pullman che mi porta a casa e continua fino al giorno dopo, quando riesco ad abituarmi al silenzio surreale di Torino.

Mio padre mi ha appena lasciata alle partenze e mi ha riempito la testa di raccomandazioni. E io ho ancora un groppo in gola perché mi chiedo quando i miei genitori sono diventati così fragili, quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho litigato con mia madre e lei mi ha parlato dei sui problemi, quanto tempo è passato dall’ultima volta che abbiamo visto un film insieme o le ho cucinato qualcosa. Mi chiedo da quanto tempo non facciamo un viaggio insieme. Mi sento come se non sapessi più nulla di loro, come se la mia famiglia avesse una nuova famiglia di cui io non faccio parte. I miei nonni se ne sono andati, inghiottiti da divani e letti sui quali mi sono seduta mille volte e non so più nulla di loro, cosa hanno fatto negli ultimi anni e sto perdendo il contatto con la realtà ed è difficile rifarsi una famiglia altrove, non sapere se e quando sbagli, senza nessuno che ti dà delle dritte e condivide le tue scelte.
Anche la diaspora dei miei amici è stata un duro colpo. Loro sono tutti incazzati, esattamente come me. È difficile seguire le loro giornate, i loro pensieri, i loro spostamenti. 
Palermo è stata per me uno stimolo alla sopravvivenza, un test, una prova che ero ancora viva. 
Ora sono in una stanza bianca, deserta e senza istruzioni. Sono senza istruzioni. Ma essere senza istruzioni è forse il grande passo verso l’indipendenza. Ma che me ne faccio dell’indipendenza se non ho più qualcuno con cui parlare? 
Sto qui, tra i miei libri e le mie bollette, e improvvisamente mi manca una passione, mi mancano gli stimoli, mi manca la vitalità.


Questo aveva pensato, che se da bambina odiava il fatto che i suoi genitori scegliessero per lei, quando si era allontanata da loro aveva provato piacere nel fare l’esatto opposto: adottare il loro punto di vista e scegliere ciò che prima non avrebbe mai voluto scegliere.

Pensò che in fondo era la stessa cosa che le era capitata quando Bud era andato via da casa. Lui comprava ad Arden le stesse cose che lei comprava per suo figlio e che suo figlio diceva di detestare: gli stessi cereali, le stesse bistecche e le stesse calze a righe. Perché forse era naturale agire così, sentirsi confusi prima di essere ciò che si è veramente”.

sabato 6 luglio 2013

Broadcasting


C’è qualcosa di malsano nella somma dei messaggi cui siamo sottoposti quotidianamente. C’è l’origine delle nostre paranoie, delle nostre paure, della nostre ansie. Proverei a sperimentarne gli effetti e le conseguenze fantascientifiche.
Per ogni bombardamento subìto c’è, però, un antidoto che ci restituisce l’illusione di vivere sereni.


Una voce metallica ci bloccava sui corridoi plastificati e lucidi.


Proveniva dall’altoparlante dell’aeroporto. Era una donna. Non annunciava né voli né problemi tecnici.
Parlava come se ci conoscesse da tempo. Sembrava avesse studiato i nostri passi dalla nascita.
Sapeva tutto, e quello che sapeva era vergognosamente vero. Ma la cosa più incredibile era che quella voce stava pian pian svelando tutti i nostri segreti, prima in italiano, poi in inglese.
Stava dicendo alla signora del gate b6 di non sculettare in quel modo. Consigliava di stare bene attenta perché i tradimenti in casa sua non sarebbero potuti durare a lungo. Un attimo dopo si rivolgeva al marito, invitandolo a  prestare attenzione alla moglie.  
Poi aveva parlato di politica. Davanti al desk 223 c’era un politico famoso. Ci aveva invitati ad osservarlo bene, aveva sentenziato che quello era un uomo corrotto e falso e che qualunque persona con un po’ di buon senso non l’avrebbe votato. 
Con nomi e cognomi era difficile non crederle. Se quel politico avesse fatto finta di niente, nessuno si sarebbe accorto di lui ma si dimenava, si guardava intorno e aveva dato nell’occhio.

Eravamo tutti imbarazzati dentro l’aeroporto, col vento che sfogliava gli alberi e le piste di decollo immerse in un vortice d’aria che scombinava tutto, che sollevava polvere e pentimenti.

Poi, dall’altoparlante, si era sentita la sigla del telegiornale. Erano tutte notizie di cronaca nera: un incidente sul raccordo, in cui aveva perso la vita un’intera famiglia, una signora uccisa a colpi di cavatappi dal marito, un gatto crocifisso davanti la sede della protezione animali, un ragazzo picchiato e derubato in centro città e una bomba esplosa qualche ora prima davanti ad una scuola, proprio nel momento della ricreazione. Una strage.

La voce metallica della ragazza era intervenuta di nuovo. Parlava piano, aveva un tono rassicurante ma diceva cose orribili. 

Oggi non ci sono uomini della sicurezza all’interno dell’aeroporto. Sono tutti in sciopero. Se dovesse succedervi qualcosa la responsabilità sarà soltanto vostra. 

La gente cominciava ad insospettirsi, le madri stringevano al petto i figli e il panico stava prendendo piede. Non sapevo cosa fare né cosa pensare.
I telefoni erano isolati, non c’era campo in nessuna zona dell’aeroporto.

Da questo momento tutte le porte dell'aerostazione sono chiuse, nessuno può più uscire e né entrare. Vi preghiamo di affrettarvi e controllare sugli appositi tabelloni il numero del gate. 

Il brusio dell’inizio aveva lasciato il posto ad urla scomposte. Avevo visto persone che scappavano, le valigie lasciate in giro qua e là. Alcuni battevano pugni e calci per aprire le porte a vetri che però sembravano sigillate. 
 
Avevo provato a forzare le porte scorrevoli ma niente. Fuori non c’era anima viva. Avevano sicuramente bloccato l’ingresso all’aeroporto, messo pattuglie di vigili alla fine dell’autostrada per bloccare le auto. Mi ero guardato intorno, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.  

Dovevo andare a Parigi a trovare mio figlio. Avrei voluto chiamarlo. Il cellulare non dava campo. Allora avevo acceso il pc e avevo inserito la password per collegarmi dall’aeroporto. 
Niente.  Nessuna rete. 

Poi, di nuovo la voce:
Tutte le bevande somministrate all’interno dell’aeroporto contengono una sostanza che vi aiuterà a mantenere la calma, a rilassarvi ed eliminare gli attacchi di panico. 

Da non crederci.
Avevo con me la valeriana. La portavo sempre quando dovevo volare. Non mi piaceva la sensazione di ansia che mi procuravano il decollo e l’atterraggio. Avevo svuotato metà boccetta di compresse e le avevo ingoiate senza acqua.

C’era un signore che inveiva contro un’impiegata, urlava, voleva spiegazioni. Era una delle poche impiegate rimaste in giro. Tutti i desk ormai erano chiusi e i gate automatizzati. 

Nessuno dava indicazioni. 
Dagli schermi della videosorveglianza si potevano osservare scene di panico. Gente che urlava e piangeva, gente che correva tra scale mobili e uffici di polizia. 
Nessuno poteva rassicurarci.

Una ragazza con gli occhi neri e i capelli lucidi di sporco, si era avvicinata ad un distributore automatico. Non sembrava spaventata. Era sola e aveva un bagaglio a mano con una targhetta ben in evidenza dove si poteva leggere il suo nome. Eveline, si chiamava. Si guardava intorno, sembrava cercasse qualcuno. Si era rivolta ad un signore barbuto seduto dietro di lei. Lui teneva le mani sul capo, sembrava disperato. Chissà cosa si erano detti. 
La ragazza aveva inserito delle monete e dal distributore automatico era venuta fuori una bottiglietta d’acqua.
Bevuto il primo sorso, un sorriso sereno si era imposto sul suo viso. Il signore barbuto le aveva chiesto qualcosa e un attimo dopo l’aveva seguita a ruota, aveva preso anche lui l’acqua e  si era diretto verso un gruppo di ragazzi, probabilmente una squadra di calcio in partenza. Aveva parlato con loro, che si erano diretti tutti al distributore.

Dopo una trentina di minuti, l’ordine sembrava essersi ricomposto. La folla impazzita aveva trovato la sua geometria nello spazio, tutti schierati in fila alle macchinette automatiche, a bere qualcosa. Qualcosa che faceva bene, che rilassava la mente. 

Sembrava avessi sognato tutto. Ma io ero uno dei pochi rimasti lucidi. Erano tutti drogati, ormai. E calmi, rilassati, sorridenti. 

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