Avevo uno zaino blu elettrico con la scritta Invicta e passeggiavo con mio nonno e mia
cugina per le strade della Noce e i palazzi cadevano a pezzi, lʼaria era sempre ferma e le
vie sempre affollate. Iniziavamo la giornata con la treccina che il nonno Mario ci comprava
al panificio sotto casa ed era un vero regalo perché quello zucchero sul pane ci restituiva
lʼeccitazione di cui avevamo bisogno la mattina presto. Ci accompagnava a scuola e
veniva a prenderci anche allʼuscita.
Di tutti i bambini della scuola ne ricordo bene soltanto uno, la mia compagna di banco
Carlotta, di cui perfino il nome per me era fonte di ispirazione. Aveva un caschetto lucido
nero e due occhi da san bernardo, sapeva sempre tutto e sapeva cavarsela sempre.
Pranzavamo tutti insieme, in classe, e la bidella portava una busta per ogni bambino,
dentro cʼerano un panino, una mela e un formaggino.
Ricordo il rigore dellʼedificio e le pareti bianche, lʼesterno grigio e un atrio grande dove si
teneva la recita di Natale e quella di fine anno con lo spettacolo di tarantella siciliana, Me
lo ricordo bene perché fu la prima occasione in cui i miei mi permisero di mettere il
rossetto. Ricordo un pavimento di resina lucida nera e un cortile con una sola aiuola piena
di cespugli non curati, le foto di classe, il negozio di detersivi e casalinghi che vendeva
anche cannoli, il giorno in cui mia madre dimenticò di venire allʼuscita da scuola e aspettai
ore nellʼufficio della segretaria, i temi in classe e lʼalbero di Natale allʼentrata, la piazzetta
della Noce e via Ruggerone da Palermo, una delle vie più caotiche e vive di Palermo, le
vecchiette cariche di sacchi della spesa e i motorini truccati a fare lo slalom tra i passanti
strafottenti.
In genere era il nonno Mario che veniva a prenderci allʼuscita da scuola. Io e Gabri ci
incamminavamo verso casa lente, in attesa di poggiare i nostri zaini sui sedili della sua
macchina. Puntualmente, quando gli chiedevamo dove avesse posteggiato, ci rispondeva
ʻqui dietroʼ ma la macchina non la prendeva nemmeno, cʼerano solo venti minuti di strada
da casa del nonno alla scuola. Ci prendeva in giro, a lui non piaceva la vita comoda e,
arrivati davanti allʼascensore ci vietava di usarlo e ci ordinava di salire a piedi. Scherzava,
rideva e ci teneva ben lontane dalla vita facile. Quando arrivavamo a casa la nonna era
alle prese con i fornelli, ci accoglieva sempre con odori diversi e , rivolgendosi a Gabri la
rassicurava sul fatto che di ogni portata ci fosse un doppione, preparato accuratamente
senza glutine e senza contaminazione di alcun genere. Quando ci sedevamo a tavola,
davanti a noi trovavamo piatti fondi che a stento contenevano quellʼinfinità di corallini con
le lenticchie, le tagliatelle al sugo fresco o le casarecce alla grinta, la sua specialità.
Il nonno aveva le sue posate perché diceva che non tutte le posate erano buone, quindi le
aveva segate leggermente sul manico per capire quali fossero le sue. Erano posate come
le altre, ma lui diceva che il suo cucchiaio entrava in bocca con maggior facilità e che le
posate con il manico di plastica, per esempio, lo mandavano in bestia. Quando veniva a
casa mia e mia madre apparecchiava, faceva sempre una smorfia di disprezzo quando
metteva a tavola le posate. E poi aveva la fissa dellʼuovo, di quella puzza di uovo che lui
sentiva dappertutto, odorava sempre piatti e bicchieri e puntualmente se li faceva
cambiare, ovunque fosse, perché se sentiva quella puzza non riusciva proprio a mangiare.
Mia nonna lo viziava e, da quando era in pensione, aveva iniziato ad istruirlo bene sulla
scelta degli alimenti da comprare. Cʼerano voluti anni di spesa insieme a Marineo per fargli
capire come riconoscere la carne buona o le melanzane e le olive migliori. Poi aveva
passato lʼesame e la nonna aveva cominciato a dargli diversi incarichi, quindi scendeva da
casa più volte al giorno per comprare o il prosciutto senza conservanti o due etti di provola
dolce tagliata a fettine sottili o due etti di parmigiano grattugiato. Al vino aggiungeva mio
nonno aggiungeva lʼaranciata, poi si poteva cominciare il pranzo.
La nonna iniziava a mangiare cinque minuti dopo di noi, dopo aver osservato con
attenzione la nostra espressione dopo il primo boccone: se non era accompagnato da
unʼesclamazione o unʼespressione di sorpresa per la bontà di quello che aveva cucinato,
si chiudeva in unʼespressione arrabbiata, offesa. I suoi piatti doppi erano speciali e si
offendeva quando ogni tanto pranzavo dallʼaltra mia nonna, mi chiedeva spiegazioni e mi
illustrava puntualmente i piatti che avrebbe cucinato il giorno dopo, facendomi venire
lʼacquolina in bocca e convincendomi ad andare a casa sua.
Era bella mia nonna, aveva gli occhi azzurri e delle rughe eleganti intorno agli occhi,
profumava di Neutro Roberts ed era timida quando si trovava davanti a gente sconosciuta,
sempre attenta a non sembrare inopportuna o poco garbata. Quando ero piccola e avevo
la febbre veniva a trovarmi a casa e io ero felice, mi rassicurava il fatto di avere anche lei
vicino, mi rassicuravano le confidenze che lei faceva a mia mamma, convinta che io non
capissi di cosa stava parlando. Io ascoltavo, e quel chiacchiericcio era il mio sottofondo
preferito, il modo migliore per trascorrere le giornate in cui non potevo andare a scuola, nel
soggiorno di casa, con il sole placato dalla tenda pesante bianca e lʼaria ferma. Lei
arrivava profumata e pettinata come se dovesse andare a teatro, con quelle sue gonne
sotto il ginocchio e quei cardigan e i foulard a fiori bordeaux, mi chiedeva se stessi meglio
e poi cominciava a parlare con mia madre. A volte mi infastidiva il fatto che non mi desse
le giuste attenzioni, come se la mia febbre non fosse importante, come se la mia influenza
non meritasse più di due minuti di conversazione. Io invece volevo essere al centro
dellʼattenzione di entrambe, volevo essere lʼunico argomento di discussione, mi perdevo
negli occhi della nonna e aspettavo un suo cenno, uno sguardo dolce, cercavo la sua
complicità.
La nonna veniva sempre a casa quando stavo male, sempre. Portava una montagna di
contenitori pieni di cibo, si sedeva sulla sedia di fronte a me, mia madre accanto, guardava
solo mamma. Solo quando andava via mi guardava bene e mi diceva: ʻdomani passo a
vedere come staiʼ. E io mi sentivo felice perché cʼerano due mamme a vegliare su di me.