giovedì 9 maggio 2013

Il reporter diffuso


Da un post su Facebook mi ricordo che oggi Peppino è stato ammazzato. 
Il porto di Genova, il governo misto, la Sicilia di Crocetta, l’editoriale di Gramellini e il nuovo disco di David Bowie sono solo dei tweet e quindi vado a caccia delle notizie per rendermi il profilo interessante e colto. 
Non c’è nulla che non risulti ipocrita sui social network, nulla che non risulti banale. Questo mi spaventa, la mancanza di serietà, la banalità di un post con troppi ‘mi piace’, il plebiscito elettronico, lo svilimento della storia, della politica, della vita, in generale. E a volte la scambiamo per democrazia... Tutti dicano quel che pensano! 
Ma no, sole le voci autorevoli dovrebbero aver fiato e, anch’io, che adesso mi trovo a scrivere di questo, mi sento più che ipocrita e banale. 
Quello che si chiamava giornalismo è adesso un marciapiede in cui tutti possono pisciare, è una fossa comune, un muro deturpato, un incubo social che dovrebbe fare presto a sparire. 
Non so se la democrazia è online come ci ha fatto credere Grillo, credo solo che il web sia il modo migliore per coinvolgere noi che abbiamo imparato da piccoli ad accendere un computer e che sappiamo solo in parte come gira il mondo, quello virtuale si intende. Quello reale sembra tutta un’altra cosa, con le urla della piazza che grida ‘ho fame’ e le tasche piene di insulti, con la rabbia dei porci e nessun commento commentato, senza condivisione e senza spazio, urla vuote che non arrivano a un metro più in là. 
Le voci, sul web, sono distanti e compromesse, sono filtrate e ormai vecchie. Quel ‘vecchio’ che abbiamo attorno nella vita reale, non emerge, non passa. 
Ho ereditato dagli anziani che conosco la tendenza ad essere anziana, a rimpiangere il vecchio e odiare il nuovo.

mercoledì 1 maggio 2013

La morte è uno spettacolo che soddisfa

Quando frequentavo il liceo, la mia professoressa di latino era talmente ossessionata dal problema della morte nella cultura classica che non faceva altro che declamare: «Mors quid est? Aut finis aut transitus», ovvero la morte o è la fine o un passaggio da un mondo ad un altro.
Riallacciandosi alla concezione filosofica di Platone, Seneca, nelle sue famose Epistulae Morales Ad Lucilium non escludeva la possibilità di una nuova vita dell’anima, l’inizio di un nuovo ciclo vitale dopo la morte. Il filosofo stoico non fa altro che sintetizzare, in un’unica frase, anni di dibattiti alimentati da due visioni contrapposte: da un lato quella materialistica di Democrito e di Epicuro per cui la morte era la fine di tutto, e dall’altro quella spiritualistica di Pitagora, Platone e dello stoicismo per cui la morte era un passaggio o un ritorno ad altra vita. Quel passaggio implicava la liberazione dell’anima dal carcere del corpo e quindi la fine di tutte le sofferenze.
Anche per il cristianesimo la morte è un passaggio, un momento di transito necessario per una vita migliore. La morte, così intesa, fa quasi pensare a un traguardo raggiunto dopo un percorso duro e pieno di ostacoli, il punto di approdo conquistato dopo un lungo “viaggio di formazione”. La secolarizzazione ha fatto in modo che il venir meno dei valori religiosi, generasse un cambiamento nella concezione della morte all’interno della società. Se penso alla concezione che abbiamo oggi della morte, quindi alla morte nell’epoca dei mass media, mi viene in mente la sua spettacolarizza- zione. Lo sdoganamento di questo tipo di spettacolo basato sulla sofferenza – si pensi alla tragedia di Vermicino e alla diretta Rai di diciotto ore a reti unificate per raccontare la lenta agonia del bambino, precipitato due giorni prima in un pozzo – dà vita ad un pubblico che, guardando, si anestetizza e smette di provare pietà.

In ambito letterario questo paradosso è stato approfondito da Aldo Palazzeschi in una novella, ironica quanto feroce, in cui un “uomo qualunque”, assolutamente ignorato dalla gente, soffre in quanto sente l’esigenza di essere “qualcuno” all’interno della società. Per ottenere notorietà, l’unico modo possibile è compiere un efferato omicidio. La poco conosciuta novella Issimo, di Aldo Palazzeschi, raccolta nel Palio dei buffi (1937), anticipa i tempi e descrive con amara ironia le ultime ore di vita di un uomo plagiato da una società malata in cui compiere un misfatto è condizione indispensabile per diventare popolare. Il protagonista sente una smania insinuarsi tra le viscere, un sentimento insopportabile e ripugnante, una forte invidia, un malessere legato alla sua impopolarità visiva.
La nuova cultura dell’immagine prevede che la morte diventi arte, merce vendibile e spendibile, che le violenze e le storture del mondo navighino, tramite flussi invisibili, sugli schermi di tutto il mondo, montate a dovere e con la giusta colonna sonora.
Nel «periodo del superlativo» – in cui «l’urlo più alto, il salto folle, il colpo forsennato, la più strabiliante trovata o promessa» hanno la meglio – fare del bene, è fuori moda, significa essere condannati all’impopolarità e all’anonimato. Palazzeschi infatti scrive: «cantar la propria donna in paradiso contornata dagli angioli tra stelle e rose, non era a quel fine dissimile dallo spedirvela a pezzettini, mirabilmente confezionata dentro bauli o valige, o in pacchi postali come si usa adesso».
L’unico problema del nostro protagonista è la mancanza di fantasia. Pur di farsi pubblicità, i suoi concittadini hanno sperimentato tutti i modi di uccidere. «Se ammazzar la propria moglie produceva un particolare clamore, perché il clamore divenisse generale bisognava ammazzarne almeno sette. Due righe di giornale erano dovute a chi rubava poco, per chi rubava molto, invece, intere colonne».
Per questo, per riscattarsi dalla sua mediocrità, decide di suicidarsi. Ma decide di farlo in un modo non convenzionale, ovvero non da eroe ma da uomo qualunque. Vincere questa sfida è il suo obiettivo. Se la norma prevede che per diventare famosi bisogna macchiarsi dei più efferati crimini, lui deciderà di sfidare il sistema facendo il contrario. Il suo sarà visto come un gesto sovversivo e, proprio per questo, gli regalerà la gloria. Forse un’ostinata solitudine avrebbe attirato su di sé la curiosità del prossimo. «Per vincere bisognava morire senza che nessuno se ne accorgesse».
Decide di portare il suo corpo in ospedale e farsi benedire da un frate. «Fattosi al suo giaciglio un cappuccino, gli domandò con un sorriso dolce: - Sicché? - Né buono né cattivo, non ho fatto male ad alcuno, sono solo e non lascio niente. - Bene, niente – rispose il frate, e benedì il niente». Il giorno dopo, il necrologio riporta sì il suo nome, ma con due lettere sbagliate. Anche il numero degli anni da 70, per la dimenticanza dello zero, diventa 7. Inoltre, il caso vuole che quel giorno, «[...] come accade sempre in questi casi straordinari, la fortuna si aggiunge al merito: si leggeva sul giornale dell’attentato a un Re, era scoppiata una rivoluzione, quattro erano in corso e una lì per lì per scoppiare, due terremoti e un nubifragio avevano prodot- to migliaia di vittime: una moglie per vendetta aveva accecato il marito con le cesoie, e una fanciulla per dare un valido esempio, sempre con le cesoie aveva malmanomesso il proprio fidanzato; divorati sei bambini un orco. Due matches di boxe agitatissimi, [...] e un telegramma dell’ultim’ora recava la notizia ch’era stato toccato il Polo. Non uno di quei tanti lettori, vedi prodigio, lesse nel necrologio del nuovo campione il nome sbagliato».

L’ironia di Palazzeschi è amara e più che attuale e fa riflettere sull’evoluzione del concetto di morte nella società contemporanea.
Anche se quello della spettacolarizzazione della morte potrebbe sembrare un fenomeno caratteristico della nostra cultura degli ultimi cinquant’anni, dovuto all’avvento della televisione e allo sviluppo delle nuove tecnologie, in realtà, ha radici ben più antiche.
Seneca, sempre nelle Lettere a Lucilio, esprimendo un giudizio riguardo la moralità della pena del sacco, ovvero una pena inflitta ai soggetti ritenuti colpevoli di parricidio, spiega che da quando la pena era entrata in vigore i casi di parricidio erano aumentati. Il fatto che la morte del parricida avvenisse in diretta – e seguendo un rito crudele per il quale veniva frustato, cucito in un sacco di cuoio insieme ad una vipera, un cane, un gallo e una scimmia e poi gettato nel Tevere – secondo l’autore, spinge l’uomo all’emulazione e per di più si collega a quell’ansia di vedere morire qualcuno come se si stesse assistendo ad uno spettacolo.
In una delle sue tragedie, Le Troiane, lo scenario spettacolare in cui l’autore colloca le morti di Polissena e Astianatte è quello di una folla di Greci e Troiani, che impreca, commenta e segue con apprensione lo spettacolo delle morti in diretta. Morti esemplari, ai limiti del tragico, denunciano la follia dell’uomo che si nutre di scene raccapriccianti. «L’uomo, creatura sacra all’uomo, viene ormai ucciso per divertimento e per gioco, e mentre prima era considerato un misfatto insegnare a un individuo a ferire e a essere ferito, ora lo si spinge fuori nudo e inerme, e la morte di un uomo è uno spettacolo che soddisfa».
I valori religiosi vengono sostituiti da valori profani, e la morte cessa di essere un momento sacro. È straordinario pensare che quest’ansia di assistere alla morte in diretta abbia radici così lontane.
Nel corso degli anni la morte, oltre ad aver perso la sua connotazione sacra, è diventata il pretesto per ottenere popolarità, un modo per fare audience. Questo è avvenuto non solo per i proprietari delle reti televisive, i conduttori dei programmi tv o per gli industriali ma, di riflesso, ha avuto conseguenze sociologiche agghiaccianti per i cittadini che hanno visto in questo sistema il modo migliore per raggiungere la notorietà attraverso un preciso atteggiamento mediatico. Si pensi allo splendido film di Sidney Lumet Quinto Potere (Network) in cui un conduttore televisivo, per risollevare l’indice di gradimento del proprio programma, annuncia il suicidio in diretta.
Le immagini dei morti diventano ovvie come quelle dei bollettini meteorologici quotidiani. Jader Jacobelli, nel 1996 scriveva: «C’è l’alta e la bassa pressione e ci sono anche i morti. Non abituiamoci alla vista dei morti per non sconfiggere definitivamente la vita».

Saggio pubblicato sul numero 9 della rivista Il Palindromo