Sono
in quattro milioni e mezzo fuori dall’Italia, la seconda diaspora al mondo dopo
quella cinese, a quanto pare. Sono tutti più o meno felici, a dispetto di
quello che succedeva nel XIX secolo, più o meno soli e parlano perlopiù
inglese. Se ne sono andati alla fine dell’Ottocento e poi ancora nel Novecento
e poi ancora adesso, tutti fuorisede con il medico provvisorio e le pareti
tappezzate di foto e le tariffe economiche migliori per chiamare il proprio
paese, gli scatoloni spediti per posta, i discount, uno o due libri, un vagone
di medicine e l’apparecchio per l’aerosol, tutti numeri italiani sul cellulare
e una vita fatta di sveglia, lavoro, kebab e letto. Dobbiamo lavorare, dobbiamo
guadagnarcelo il futuro, così, facendo almeno qualche sacrificio. Cambiano le
geografie sentimentali e dopo un po’ abbiamo la certezza che alcune persone
meritavano più tempo, che è un peccato lasciar tutto così, lasciar perdere,
rapporti a distanza, skype e stronzate varie, amori che sono ombre, senza corpo.
E quando ci ritroviamo siamo già diventati altro, possibilmente siamo diventati
nebbia, rabbia, aridi e così abituati alla solitudine da non riuscire nemmeno a
sorridere.
Ce
ne andiamo in massa e invadiamo gli altri paesi ma non accettiamo che nessuno
venga a romperci il cazzo a casa nostra. Siamo razzisti, siamo un paese di
stronzi, non vogliamo nessuno e rispediamo in Libia gli immigrati eritrei ed
etiopi. Lo faceva il nostro vecchio Presidente del Consiglio nel 2010. Non
aveva capito nulla evidentemente perché adesso gli immigrati arrivano da tutte
le parti e questo vuol dire solo che è tempo di accoglierli e rispettare i
patti. L’Europa si sfalda e si scanna e mentre si scanna e non rispetta gli
accordi la gente muore e annega, Sicilia e Africa sono collegate da un ponte
fatto da una miriade di cadaveri africani che non ce l’hanno fatta ad arrivare
sani e salvi a casa nostra.
Dagmawi
dice che una delle poche cose che ricorda sono quei sette secondi, gli unici
che non dimenticherà mai, di quando è sbarcato in Italia e la sua intervista è
andata in tv. Il resto l’ha rimosso. E noi abbiamo guardato la fine del secolo
compressa in un piccolo schermo e non ci è sembrata un’opportunità, piuttosto
una condanna. Non ci è sembrata un’opportunità quella di impedire il collasso
dell’Europa grazie agli emigranti. Da noi figli non ce ne sono più, tutti
morti, vittime della crisi, della disoccupazione, del malgoverno e del nostro
egoismo. Solo loro possono garantire i livelli attuali di produzione e welfare
e, quando a metà del secolo ci sarà meno forza lavoro, saranno loro a sputarci
in faccia e a guardarci dall’alto in basso. Pensa ai siriani e alla Germania
che ne accoglierà 500.000 nei prossimi anni. I siriani sono quasi tutti
professionisti, medici o professori o imprenditori e mirano al ricongiungimento
del nucleo familiare, non accettano l’idea di vivere lontani dai loro padri e dalle
loro madri, presto diventeranno tedeschi, e allora sì che la Germania sarà un
paese di ferro.
Il
signor Giovanni il pesce non lo mangia più da qualche anno, dice che i nostri
mari ormai sono inquinati, sono imbrattati da quei corpi che annegano, i corpi
dei negretti che sporcano e inquinano. Il pesce non è più buono, dice. E mentre
lo dice centinaia di negretti affollano il mio ufficio e sono a un palmo di
naso da lui che li disprezza e dice che prima Torino non era così, era diversa,
è cambiata in peggio. Lo dice con la faccia disgustata e io lo guardo, lo
osservo attentamente e non dico nulla, sto zitta. La signora Anna invece dice
che per lei il cambiamento è fondamentale, restare fermi è pericoloso.
E
il cambiamento è una nuova Europa di immigrati, in cui le culture si mescolano
e la paura viene esorcizzata, in cui finalmente non ci saranno più alieni e
l’integrazione sarà la normalità.
Nell’Ovest si diffuse il panico di fronte al
moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà
temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame
videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente
videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle
città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a
vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori
erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro.
Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali,
sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non
hanno il senso della proprietà.
E su quest’ultima cosa avevano ragione,
perché come può un uomo senza proprietà conoscere l’ansia della proprietà? E i
difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli
entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella
con uno di quelli?
Gli indigeni si suggestionarono fino a
crearsi una corazza di crudeltà. Formarono drappelli, squadre, e li armarono:
li armarono di manici di piccone, di fucili, di gas. Il paese è nostro, non
possiamo lasciare che questi Okie facciano i loro comodi. [...]
Le grosse imprese non capivano che il
confine tra fame e rabbia è un confine sottile. E i soldi che potevano servire
per le paghe servivano per fucili e gas, per spie e liste nere, per addestrare
e reprimere. Sulle grandi arterie gli uomini sciamavano come formiche, in cerca
di lavoro, in cerca di cibo. E la rabbia cominciò a fermentare.
Furore, J. Steinbeck