Visualizzazione post con etichetta Roma. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Roma. Mostra tutti i post

martedì 24 marzo 2015

Domenica

Sono rimasti solo gli arabi oggi, con i negozi aperti sul marciapiede e le loro cascate di cibo guasto a prezzi raddoppiati. C’è un forte odore di menta nell’aria.
Una domenica romana di desolazione, ovunque, desolazione e spiccioli ai barboni per strada, immondizia per terra e facce stanche. Per essere completamente a mio agio in questo sfondo immobile mi basterebbe andare in giro in vestaglia. Oggi tutti si ricordano di riposare e, presi da un torpore incondizionato, dimenticano di vivere. Oggi la contemplazione è tutto e rimuginare sulle proprie scelte è una priorità assoluta. Ho sempre odiato la domenica perché distoglie dalla becera routine che fa perdere di vista il vero senso delle cose. Ti destabilizza.
La domenica è libertà assoluta e della libertà assoluta io non so che farmene.

Io e Dani abbiamo pochi momenti per stare insieme, lei vive qui, nella capitale, e quando vengo a trovarla mi rendo conto di quanto mi manchi la perfetta disorganizzazione di questa città di squilibrati. Torino, dove sto io, è talmente impeccabile da essere noiosa, equilibrata all’eccesso. Viviamo in due mondi opposti, io e Dani, e mi piace venire qui e scoprire che ci sono ancora posti senza regole, me ne ero solo dimenticata, mi piace quando mi guardo intorno e vedo solo caos, perché è il caos che mi dà la spinta vitale. Ho sempre pensato che è qui, dove la grazia non esiste, dove la confusione e la disorganizzazione dettano legge, è qui che l’uomo diventa un eroe. Laddove invece la vita scorre come un replicarsi di cerimoniali, una copia del giorno prima, laddove non c’è spazio per l’imprevisto, l’uomo diventa un antieroe.

Andiamo a piazza Re di Roma e mentre camminiamo ci raccontiamo tutto e tra i piedi ci ritroviamo tanti di quei rifiuti che diamo calci ogni tanto ad una bottiglia di birra, ogni tanto ad un cartone del latte e la nostra passeggiata non è fluida, è difficile invece, pesante, è come nuotare in una vasca d’olio. Ci areniamo e poco dopo riprendiamo, con un po’ di fiatone, continuiamo a ciondolare, ad inceppare su quei vuoti di superficie, quelle strade sbriciolate, su quella fanghiglia che si appiccica ai piedi.
La libertà per noi si è ridotta alla pausa domenicale ma non sappiamo cosa farcene perché è passato troppo tempo da quando avevamo una passione e non ricordiamo più quello che ci piaceva veramente, abbiamo perso tempo, le nostre passioni si sono inaridite, assopite almeno fino alla prossima domenica. Abbiamo perso tempo, abbiamo solo perso tempo.
Avanziamo confuse, il passo lento e l’ansia, l’ansia del ‘chissà quando ci rivedremo’, ‘ti è piaciuta questa vacanza? Io sono stata bene, è stato bello, ti vorrei sempre qui’, la paura di quel raffreddore che non passa più, le puntine e i linfonodi ingrossati e i capelli che cadono e il lavoro che è incerto e tutto fermo immobile, tutto bianco di una luce immobile, insopportabile e nemmeno un raggio di sole che spacca le nuvole.
Ho smesso da anni di guardare le previsioni del tempo. Mi piace che almeno in questo la mia giornata sia imprevedibile, prendo il tempo come viene e mi bagno se c’è da bagnarmi. Ma quando capitano giornate così, il cielo bianco e le nuvole che coprono l’intero raggio visivo, allora mi prende male, e vorrei solo saltare quella giornata per passare alla successiva. Ma oggi è un giorno speciale, perché posso stare con Dani, e tra poche ore ho il treno per tornare a casa.
Ci fermiamo al bar, l’unico aperto del quartiere. Ci sediamo fuori, coperte da cumuli di nebbia e immondizia, mute, assenti, senza ragazzini che urlano e niente zaini, niente autobus. Nessun rumore se non quello delle tazzine.
La colazione qui fa schifo, le brioches pietrificate giacciono su vassoi opachi argentati e le gocce di caffè sul bancone hanno macchiato il marmo da anni. Un tempo non era così, un tempo questo era il miglior bar della città. Prendiamo ugualmente una brioche e lo strato di glassa è duro e la pasta difficile da masticare. Abbiamo un altro mattone adesso nello stomaco. Il cameriere è assonnato e non ha voglia. Colpisce col vassoio il bicchiere d’acqua che ha appena poggiato sul tavolo, poi si scusa. Anche lui fa parte di questa civiltà invalida della domenica. Non importa, dice Dani accennando un sorriso. Non le importa davvero, non le sarebbe importato nemmeno se le avesse versato addosso del caffè bollente. Non importa, da qualche anno dice solo così. Nemmeno a me importa. Dani la classica persona che ti sembra sia nata con quarant’anni di ritardo, nel Sessantotto avrebbe avuto vent’anni e sarebbe andata in giro a parlare di femminismo e libertà. La guardo, col suo guardaroba vecchio da una vita e sembra sempre chiedermi ‘mi spieghi che ci faccio io qui’?

Cosa fare quando una città ti tiene sospesa in un limbo e i libri non funzionano più, le ricette non funzionano più e nemmeno la pioggia e il sole? Qual è la città?


Ritorniamo a casa, e chiudo la valigia. Preparo un panino da mangiare in treno e riempio una bottiglietta d’acqua. Saluto Dani davanti la porta, ci abbracciamo forte e facciamo fatica a trattenere le lacrime.
Me ne vado.
Sono sola, tutti per strada partecipano al gioco di farmi perdere il treno, si parano davanti come ostacoli e si muovono in modo scomposto, imprecando se li si sfiora appena. Finalmente svegli, alle quattro del pomeriggio, ritornano a vivere e bestemmiare e insultare, e da questo movimento prende vita qualcosa di meraviglioso, familiare, vitale e barbarico.
La strada è in discesa e scavalcare corpi è la mia specialità. Avanzo decisa, rincuorata dal brulichio di sgambetti e gomitate. Adesso ho un obiettivo, adesso riconosco la mia città, adesso, nel caos della prima domenica del mese, tutti fanno a gara per entrare in questo o quel negozio e io mi sento di nuovo viva, immersa nell’agitazione di buste della spesa e pacchiane acconciature del fine settimana. Le smorfie delle donne romane, i sorrisi al botulino e il trucco coatto mi riportano al punto di partenza. È qui che ho iniziato a scrivere, è qui che ho iniziato ad odiare gli uomini.
Eccola finalmente quell’aria pesante e malata, eccola la città che puzza di merda, che fa sudare, che fa incazzare. Eccola la vita che cercavo. A Roma perfino la domenica può essere molesta, a Roma si digerisce male e male si dorme.

Aspetto l’autobus ma non passa. Decido di prendere la metro da San Giovanni e mi avvio in mezzo alla folla. Arrivata alla Stazione Termini mi rendo conto di quanto mi fosse mancato questo girone infernale, questo tappeto di facce arrossate che guardano all’unisono un tabellone luminoso. Odori sconcertanti di tutti i tipi e gente di tutti i colori e caldo, caldo anche in inverno, e voglia di far esplodere tutto.

È qui che devo restare, è qui che devo vivere se voglio far emergere il meglio e il peggio di me, in questa città degli eccessi, di morte e di vita, di facce pallide e mostri e botulino, di gomitate e sgambetti, di vita mortale, di gioia e di eternità.

Il treno ha un ritardo di 40 minuti. La valigia è inzuppata d’acqua, avrò chiuso male la bottiglietta.
È domenica.


venerdì 23 gennaio 2015

A sai ‘na cosa Ma’?


Te ricordi che l’artro giorno te parlavo de quer motivetto, quello geniale che avevo inventato e che m’avrebbe fatto diventa’ miliardario? Te n’ avevo parlato, no? Ecco, me lo so’ dimenticato. Non l’ho registrato quanno so’ tornato a casa, non ho preso un cazzo di appunto nemmanco cor cellulare.
Ah Ma’, il problema è che so’ incazzato nero perché quer motivetto m’avrebbe fatto fa’ i sordi e io so’ un cojone.
Che te devo di’? Vago per la città. È estate ma fa freddo. Le valigie so’ rimaste a Roma. Gli scatoloni me li ha spediti ieri Giulia ma chissà quanno arriveranno. Ah Ma’, me sento perso! Me sento come se m’avessero torto tutto, a casa, a ragazza, l’ amici. Me sento perso, tutto qua. E ‘sti cazzi che te sei operato alle corde vocali e nun poi parla’ ma sarà a seconda vorta ‘n vita mia che mando una mail e nun me ce trovo, me sembra ‘na cosa troppo formale.
Me sento come se c’avessi ‘e mestruazioni oggi. C’ho freddo. È estate, piena estate, e io c’ho freddo. Sento freddo ma nun me posso copri’, nun c’ho vestiti e i quattro stracci miei so’ dentro gli scatoloni. Me so’ fatto un giro pei negozi e vendono solo cose estive, magliette da froci, scarpette da froci, giubbottini che mamma mia.
Ah Ma’, m’hai preso in un momento brutto, nun c’ho tanta voglia de dirti come me sento perché poi pure io passo pe’ frocio. Quando te senti così nun devi parla’ co’ nessuno perché sei pesante e nun devi appesanti’ pure l’artri. Ma vabbè, tu sei amico mio e che ce voi fa’, me devi sopporta’.
A sai una cosa Ma’? C’ho er panico. Er panico ebola. Nun me prende per culo Ma’, ma qua ce so’ tanti di quei negri che m’è venuto er panico. Ce so’ persone de tutto er globo, e sai che i telegiornali per ora parlano solo de questo? Io nun ce la posso fa’. Me sento come se fossi destinato, come se me la fossi meritata l’ebola! Ma chi me l’ha fatto fa’ de veni’ qua? Chi me l’ha fatto fa’ de cerca’ lavoro qua, ah Ma’? Me sento tarmente impanicato che nun magno più, nun bevo più, me sembra che sia tutto contaminato da ‘sti negri e ‘sti zingari che vengono da fuori. Ma te pare che dovevo veni’ qua io? Hai sentito der medico de Emergency che è stato infettato? Ma hai sentito? Sta qua allo Spallanzani, sta. E te pare che lo portano qua dove sto io? Ma te pare er momento de trasferirsi a Roma? A me nun me pare. Stavo così bene a Latina!
Ah Ma’, me sento come ‘nfossato, come se sulla strada mia ce fosse ‘na grossa buca, ‘na buca concava e io ce so’ finito dentro. E da ‘sta buca nun me ne posso anna’, ce sto dentro e nun me posso move. Ma da mo’ che sto in questa buca!
Ah Ma’, so’ fermo, fermo da ‘na vita, sempre nello stesso punto. Me sento come finto, come se dovessi usa’ a dipromazia pure pe anna’ ar cesso, ‘na vita de dipromazia, tutta compromessi, sorrisi, riverenze e invece quanno me succede cor capo mio quello che penso è: ma chittesencula stronzo.
Pure Giulia sta male e se tiene il lavoro perché artrimenti sta in mezzo a ‘na strada ma sai quanti pacchi de’ fazzoletti ho comprato negli ultimi mesi? Piagne sempre, se dispera e a me me dispiace perché prima nun era così.
Ah Ma’, te voglio di’ ‘na cosa, ma tu o sai come se fa’ a capi’ quanno sei morto? Io me sento morto, come se nun c’avessi nulla da di’, nulla da fa’ pe’ cambia’ e’ cose, come se fossi morto. Prima però sognavo, te ricordi? A voglia se sognavo! C’avevo certi sogni che manco Einstein! Ma che me pensavo de diventa’ davero Jimi Hendrix o Eric Clapton? So’ un cojone so’. Ma come se fa’ a capi’ se sei morto? Sei morto quanno nun sogni più o quanno non fai che sogna’? Nun capisco se ero scemo io prima che sognavo tutto er tempo e me pensavo chissà che, oppure so’ scemo ora che nun sogno più.

Ah Massi, qua c’è un freddo! E manco i riscaldamenti posso accende perché so’ centralizzati. Ma quando s’è visto mai ‘sto freddo qua? Ma che è perché so’ arrivato io?

Ma dimme ‘na cosa Ma’. Ma quando vuoi comincia’ a vivere veramente, se voi prende veramente in mano la tua vita come fai?
Come cominci?

‘ndo vai?



domenica 17 marzo 2013

Punto di partenza



Era arrivata alla fermata cinque minuti prima, aveva acceso una sigaretta inondando di fumo sciarpa e visiera del cappello, aveva guardato l’orologio al polso, gettato un’occhiata alla chiesa per vedere se gli indignados erano ancora lì nel piazzale, a morire di freddo e di sonno, a bivaccare nelle loro poltrone senza fodere e dormire con i materassini direttamente sulla pietra. No, erano andati via, non c’era più nessuno. Dopo un mese e mezzo erano andati via e questo le faceva tristezza. Lei comoda al quarto piano, sotto al piumone, con il suo uomo accanto, si sentiva rinfrancata dalla presenza, lì giù al piano terra, di quei fancazzisti e comunisti che dividevano cibo e coperte. Si guardò intorno e si accorse che era sola, nessuno aspettava alla fermata, solo fiumi di macchine le facevano vento e le schizzavano fanghiglia sugli stivali. Faceva freddo, il cielo era di un colore bianco intenso e l’aria era pulita, finalmente lavata per bene dalla pioggia. Tutta la notte aveva piovuto e adesso, a quell’ora, solo gli uomini sembravano svegli, la natura era in pausa, con quei colori smorti, quei toni pallidi, gli alberi senza uccellini, i marciapiedi senza formiche né lombrichi, l’aria senza mosche e così via. L’assenza della natura. Ed era la prima volta che ne sentiva la mancanza. Rumori soltanto di rombi di motori e clacson, camion della spazzatura.
Eccolo, appena in tempo per l’ultimo tiro alla sua Camel. Ecco il 3, direzione Thorvaldsen, ancora coperto da una fitta nebbia mattutina.
Fece segno all’autista che si fermò, facendola salire dalla porta più vicina a lui. C’era un mare di gente. Girò il volto verso il finestrino per non guardare in faccia nessuno dei passeggeri, vide le case, le macchine, gli alberi, e le sembrò tutto grigio e monotono, le facce degli automobilisti facce da imbecilli, tutti presi dalla guida, ognuno con un tic nervoso o una mania, un gesto strano, chi sbatteva le palpebre, chi strizzava gli occhi, chi contorceva le labbra, chi bestemmiava, tutti già pazzi alle sette e dieci di mattina. A Porta Maggiore l’autobus si svuotò un po’ e sembrò finalmente di respirare. Cercò un posto a sedere, lo trovò.
Si immerse nella lettura, tutta presa da quei personaggi immaginari ai quali avrebbe dedicato interamente le sue giornate. Non mollava mai il suo libro esattamente da tre giorni, da quando l’aveva iniziato. Lo portava dappertutto, in bagno, sul bus, a lavoro, in giro per negozi, a letto. Leggeva perfino mentre
camminava, troppo curiosa e impaziente. Voleva sapere come se la vivevano loro quella vita, voleva trovare coraggio nei loro gesti, voleva trovare l’amico risolutivo che le sistemasse tutto, voleva trovare consigli, conforto, un appoggio, un amore qualsiasi da condividere con loro. Ed effettivamente c’erano dei personaggi che le assomigliavano, che avevano i suoi stessi identici problemi, quel senso di impotenza costante che le rendeva la vita più pesante, quel piccolo problema della depressione che non si poteva risolvere più nemmeno con la paroxetina, quella costante sensazione di star sprecando tempo, di perdere attimi preziosi, di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, di non avere stimoli, di essere da tre interi anni in cassa integrazione, senza la possibilità di far entrare nessuno e niente a casa propria, non un film illuminante, non un libro risolutivo, non una ricetta straordinaria, non una preghiera di quelle che salvano la vita. La sensazione che l’accompagnava era quella di inadeguatezza perenne, come quella che accompagnava anche i suoi amici in quegli ultimi tempi. Tutti con gli attacchi di panico, tutti con le tonsille gonfie e l’Oki sotto il cuscino, tutti con gli svenimenti e nemmeno la forza per rivendicare i propri diritti, tutti senza un contratto e con la paura di instaurare legami, tutti con la stessa rabbia vuota, frustrante, scardinante, tutti con quella velleità che ti fa ritornare al punto di partenza, con lo stesso identico desiderio di partire perché sotto i propri piedi non è rimasto quasi nulla, tutti con lo stesso terrore di ammalarsi per paura di dover giustificare un’assenza a lavoro, tutti con la stessa consapevolezza di avere meno desideri di prima, meno figli di prima, meno parole di prima, meno lingue e meno miti, meno libri da leggere, meno voci da ascoltare, tutti con la stessa identica sensazione di vuoto attorno.
Si era appassionata per questo ai romanzi di Ammaniti, così semplici da leggere, così scorrevoli e un po’ ipocriti, velati da una sottile amarezza, frutto della mente di uno che l’amarezza forse non la conosceva poi così bene, di uno che diceva di sentire le stesse cose che sentono gli altri ma che sembrava sguazzarci dentro nei giorni vuoti di questa generazione. Le sembrava che anche le ‘voci contrarie’, in quel paese, fossero solo finzione, come se conoscendo bene la merda che deprecavano, questi scrittori, l’avessero sfruttata come una risorsa. Ma quegli antidepressivi di cui parlava lo scrittore romano erano la verità e anche i rapporti interpersonali che descriveva erano la verità. Qui nessuno sopportava più nessuno.
I suoi pensieri furono interrotti dalle urla di una signora anziana, avvolta in un mantello di lana lercio, lacerato sui bordi, grigio, in tinta con occhi e chioma. Urlava una serie di versi sconnessi, un insieme di ‘aooo’ e ‘dajeee’ e la sua vittima era una ragazza di colore con le treccine, molto più alta e molto più giovane di lei. Diceva di essere stata spinta in avanti, diceva che non ne poteva più di questi extracomunitari che affollano gli autobus. Poi disse che non ne poteva più e basta. Il tutto si concluse con un ‘mavedidiannatteneaffanculote’ e finalmente tornò la calma.
Lei, che era rimasta fredda, estranea agli eventi che avevano agitato i passeggeri e turbato l’apparente serenità che regnava nella vettura, si immerse nuovamente nelle vite di Quattro Formaggi e degli altri personaggi. Le restava poco tempo prima di scendere dal 3 e le dava noia interrompere la lettura sul più bello. Le veniva spesso da piangere quando leggeva quel libro, tutta presa dall’immaginazione delle giornate di Cristiano e Rino, abbracciati, avvinghiati mentre il mondo continuava a girare. Loro inermi, diffidenti e indifesi. Immaginava la loro cucina e la vedeva color senape, di un legno sbiadito mangiato dalle tarme, qualche stoviglia qua e là a colorare gli spazi, mattonelle spezzate, limate dal tempo e dalla rabbia di Rino, bottiglie vuote e lattine semivuote. E si immaginava lì dentro, tutta presa dalla sua voglia di fare ordine nelle case degli altri. Si immaginava nella scena, a mettere a posto i plaid lasciati sulla poltrona del soggiorno, a lavare le stoviglie, riempire i secchi della spazzatura e preparare qualcosa da mangiare. Stava pensando a quale ricetta potesse andar bene per quei due poveretti, lasciati soli senza una donna. Aveva pensato a qualcosa di caldo, qualcosa di buono e nutriente. Le venne in mente un piatto che cucinava sua nonna, quando stava ancora bene e usava la cucina come un teatro, tutti i nipoti seduti ad ammirare lo spettacolo e una nube di vapore che le veniva fuori dal grembiule. Aveva deciso: avrebbe preparato la zuppa di fagioli e castagne, una nota di dolcezza che batteva ancora nelle sue narici come fosse proprio lì sotto il suo naso. Avrebbe preso due scalogni, li avrebbe spellati, tritati e avrebbe aggiunto fagioli e castagne precedentemente lessati; il tutto condito da un filo d’olio e da una spolverata di pepe nero. Li avrebbe stupiti. Si ricordò di aver lasciato il suo ricettario sul tavolo, aperto alla voce ‘zuppe’ e si rammaricò per non averlo messo in borsa prima di scendere. Lei che portava sempre con sé una borsa piena di roba per affrontare viaggi lunghi mesi. Accavallò le gambe, tolse il cappello di lana, allentò la sciarpa e tirò indietro il ciuffo che le copriva gli occhi.
Guardò fuori, cercando un’immagine familiare, un punto di riferimento e si accorse di essere alla fermata Policlinico. L’autobus si svuotò di nuovo e anche lei, che era seduta, si trovò coinvolta in un groviglio di gomiti e mani che si agitavano e annaspavano per uscire fuori da quella gabbia. Scesero quasi tutti, sputati fuori come palline del flipper, esplosi sul marciapiede come proiettili di piombo pronti a colpire, tutti con le espressioni cupe e i visi contratti. Dentro l’autobus un’improvviso silenzio le permise di concentrarsi ancora meglio, le sgomberò la mente da fastidi olfattivi e visuali, le permise di pensare solo a lei, a Cristiano, a Rino e alla biondina.
Quattro Formaggi cantò una ninna nanna, il paesaggio si fece sfumato, gli occhi morbidi e le palpebre di colla, inchinò il capo, i capelli le fecero da cuscino e il vetro iniziò a profumare di ghiaccio. Varrano si fece presente, il suo gelo tangibile. Il Nord Italia non sembrava poi così male, tutti con i guanti e gli sguardi vitrei ma un vapore caldo soffiato dalle bocche, alito nebulizzato e alcolico così rincuorante e familiare.
La pentola bolliva e l’odore delle castagne deliziava le ultime mosche rimaste in cucina. Aveva spazzato per terra, pulito bagno e pavimenti con la candeggina, fatto ordine e sbattuto i tappeti, spolverato gli unici due mobili del soggiorno, lavato i piatti e apparecchiato la tavola.
Cristiano e Rino aspettavano il pranzo, il primo seduto sulla sedia, con la schiena chinata e le braccia che sorreggevano la testa, il secondo tutto sbracato sulla sua poltrona, pronto a cambiare canale con la mazza da baseball non appena il telecronista vomitava i primi fatti di cronaca della giornata. La casa si faceva piano piano più abitabile e la sua vita acquistava un senso. Era finalmente lontana da Roma, lontana dal caos e dal nonsense, in un posto sicuro dove a un certo numero di ingredienti, aggregati in un determinato modo, corrispondeva una ricetta sicura.
Gridò ‘a tavola!’ e il corridoio si trasformò per pochi secondi in una pista di gara dei centro metri in cui padre e figlio si spingevano per arrivare primi; ridevano e sembravano cavalli impazziti, così sgraziati e degni di una stalla. Assegnò i posti e a Cristiano spettò quello davanti alla finestra, da dove poteva vedere i tronchi gelati, i rami innevati e la luce abbagliante dei fiocchi di neve. Rino sorrise a Cristiano, impugnò il cucchiaio e divorò la zuppa. Lei stava a guardare, godendosi la scena, con il sorriso stampato in viso e l’ansia di sapere se il piatto era riuscito. In meno di cinque minuti, seppure la zuppa fosse ancora bollente, i piatti erano vuoti. Rino emise un rutto fragoroso e la guardò con gratitudine. Poi si alzò da tavola e prese il vino dal frigo. Ne bevve un sorso e ruttò di nuovo, soddisfatto.
Cristiano, pienissimo e con la lingua bruciata, aveva la testa pesante e un sonno della madonna. Bevve un sorso d’acqua e, guardando suo padre soddisfatto, disse: ‘ti è piaciuto?’. Lui rispose con un ghigno, gli afferrò i capelli con quegli artigli che si ritrovava, e gli grattuggiò la testa con le nocche delle mani. Cristiano si liberò dalla sua presa e, ridendo e urlando, afferrò la maniglia della porta e in attimo fu fuori, nel campo ghiacciato. Rino lo raggiunse e prese a tirare palle di neve a mani nude.
Lei li guardava dal vetro della finestra senza dire una parola. Annusò intensamente l’aria. Prese il cucchiaio, chiuse gli occhi e assaggiò la zuppa, sorrise e andò subito in soggiorno a telefonare a sua madre. Doveva dirglielo, doveva spiegarle che era identica a quella di sua nonna. Dopo il pranzo, finirono tutti a letto e in un lampo si addormentarono.
Fu una brusca frenata a riportarla alla realtà, nel più banale dei mondi fatto di uomini e donne che ti guardano in cagnesco, le strade ancora piene, i clacson ancora accesi e qualche goccia di pioggia che lucidava l’asfalto. Si rese conto che le sue narici non funzionavano più tanto bene, ora c’era solo odore di piscio e grappa, unito allo smog e al tipico odore degli autobus. Era ancora all’incrocio con la Nomentana, c’era un traffico pazzesco e l’ansia stava raggiungendo livelli mai visti. Tutti nervosi, pure il cucciolo di cane, un bastardino che una punkabbestia portava in grembo, era impaziente e stava diventando aggressivo. Aveva pisciato per metà sul pantalone della padrona, che però non ci aveva fatto quasi caso, e per metà sul sedile, rendendo l’aria irrespirabile e sollevando un coro di critiche a mezza bocca della gente stanca di quei gesti incivili. Mormoravano che gli africani sono più civili di noi e che noi eravamo un popolo di merda, chi diceva che era colpa dei padri e chi della televisione. Una signora si intromise dicendo che quegli esemplari andavano spediti in galera o in una comunità se non altro. Un signore anziano intervenne e disse che ai suoi tempi non esisteva questa maleducazione e così via.
Lei, decisa a non spazientirsi, fece uno sforzo per estraniarsi nuovamente e riprendere la lettura. Mancavano le ultime pagine e non voleva perder tempo. Gli occhi impazziti vibravano di curiosità e la mano destra era pronta per sfogliare una nuova pagina. Voleva capire perché Quattro Formaggi aveva compiuto quel gesto, se il padre si sarebbe risvegliato e come si sentiva Cristiano. Voleva sapere.
Era finalmente arrivata a pagina 425. Le ultime righe recitavano:
‘Cristiano Zena aprì gli occhi. Tutti erano in piedi e applaudivano al passaggio della bara bianca. Si alzò e urlo: Non è stato mio padre! Ma nessuno lo sentì’.
Lei chiuse il libro e lo mise in borsa. Alzò gli occhi e si accorse subito di essersi persa qualcosa. Era al punto di partenza, proprio a pochi metri dalla fermata iniziale, quella dalla quale era partita. Come aveva fatto? Tornare indietro? Tornare da dove era partita, non accorgendosi nemmeno della sosta al capolinea? Si sentiva pazza, estraniata, confusa. Era mai possibile una cosa del genere?
Si alzò, si diresse verso l’autista e vide che era lo stesso uomo di prima, quello che l’aveva raccolta 50 minuti prima alla stessa fermata. Aveva solo qualcosa di diverso. Lo scrutò per un istante e si rese conto che il suo viso era solo più stanco, un po’ diverso rispetto all’inizio, quasi invecchiato. Le sembrava addirittura che i capelli prima fossero neri, e invece adesso erano brizzolati; lo sguardo vispo dell’inizio aveva perso colore ed era diventato grigio e inespressivo. La sua testa andava avanti e indietro al ritmo del motore e dei clacson e un’espressione stupida si insinuava negli occhi.
Le automobili impazzite avevano formato code lunghe chilometri di mura aureliane. Si chiese se non stesse iniziando a trasfigurare la realtà, se leggere tutti quei libri in una volta non le avesse fatto male.
Prenotò la fermata, decisa a tornarsene a casa. Mentre scendeva dall’autobus rivolse un saluto all’autista. Gli disse ‘buona giornata’, ma non ricevette risposta.

martedì 2 ottobre 2012

Una comune mattinata da precari


Quella mattina avevo bisogno di soldi. Per andare a Torino avevo comprato un biglietto da Roma andata e ritorno Trenitalia ed era costato cento euro. 
Non lavoravo, facevo collane e orecchini e, soltanto in due occasioni avevo avuto il coraggio di allestire alla meno peggio una bancarella per strada. La prima volta era andata abbastanza bene perché ero in un luogo sperduto, la seconda ero in regola perché alla festa di Liberazione bastava versare una piccola quota ad un’associazione di artigiani. 

A Roma, c’è un posto dove è più facile vendere: davanti all’univerisità. C’è un viavai di ragazzi e ragazze che ciondolano per le strade. Mi ero portata tutto in uno zaino, avevo qualche paio di orecchini e un bel po’ di collane. Avevo approfittato della compagnia di una mia amica che doveva vendere un libro.
- Domani vado all’università.
  • Vengo con te!
  • Tu che devi fare?
  • Io devo vendere la mia bigiotteria, e tu?
  • Io devo vendere un libro ad una ragazza.
  • Brava, ti dai da fare. E quanto lo vendi?
  • Cinque euro, perché sono fotocopie.
  • Ah. Ma ti conviene spendere tre euro di biglietto Atac per guadagnare solo 5 euro. In pratica così ne guadagni solo due!
  • Vabbè, mi ci compro gli assorbenti.
Così era andata la conversazione.

Ci eravamo svegliate presto perché la ragazza del libro era in facoltà fino alle dieci. 
Se i giorni precedenti, a Roma, si erano sfiorati i 40 gradi e avevamo dovuto tenere le persiane chiuse per quanto era accecante il sole, quel giorno non solo le nuvole si affollavano nel cielo, ma si era messo a piovere di brutto. 
Arrivate sul posto, avevamo deciso di allestire il tutto vicino ad un bar, coperte da una siepe sia per non farci rimproverare sia per appoggiare l’ombrello da qualche parte, in modo tale da poter riparare la merce. Ne avevamo solo uno, quindi noi l’acqua ce la prendevamo, e come!
Avevo appena finito di posizionare la bigiotteria su una bacheca di sughero, incastrato i miei bigliettini da visita tra una collana e l’altra, trovato un modo per non bagnarmi e vinto la timidezza, quando si avvicinava un tipo con il pizzetto bianco, un uomo di mezza età.
- Qui non potete stare, è pericoloso!
  • Come pericoloso?
  • Si vede che siete nuove tu e la tua amica. Qui nun se po’ sta’.
  • E perché ‘nun se po’ sta’?
  • Perché quelli del bar non vogliono. Ma voi ce l’avete la partita IVA?
  • La partita che? Secondo te c’ho la partita IVA? Sto cercando di vendere quattro cazzate perché sono disoccupata da mesi. Per aprirmi la partita IVA mi servirebbe un mutuo!
  • Vabbè, vabbè, ho capito. Ma da qui ve ne dovete annà.
  • Mi scusi ma lei chi è?
  • Io sono un artigiano, mi metto sempre qui a vendere, faccio ‘sto lavoro da ‘na vita.

Ho pensato subito che mi voleva fottere. Ho pensato che ce l’avesse con me perché pioveva e io avevo sfidato la pioggia e lui no, ho pensato che mi voleva fottere il lavoro, che mi voleva cacciare per evitare la concorrenza. Poi però ho detto, ‘e anche se fosse’? Davvero devo rischiare che mi facciano la multa o che mi sequestrino la merce?

  • E dove ci dovremmo mettere, allora?
  • Potete provare lì, sulla strada.

Sulla strada. Bah.
Comunque ci eravamo guardate negli occhi e avevamo deciso di spostare tutto, tutto precario, la roba avvolta in un telo, gli immigrati che facevano lo stesso lavoro erano lì a deriderci e io pensavo che non era il lavoro per me. Ci eravamo piegate in due dalle risate tanto era buffa la situazione, eravamo impacciate, per non bagnarci coprivamo la merce con i nostri corpi, non avremmo fatto un soldo nemmeno pregando la gente. Se avessimo chiesto l’elemosina sarebbe andata meglio. 
Avevamo allestito di nuovo il pannello di sughero, la gente passava e ci scansava come la peste. Avevo provato a porgere un bigliettino da visita ad una signora dicendole ‘Signora posso lasciarla il mio bigl...’ ma non mi aveva fatto finire la frase. Mi aveva liquidato con un  ‘no no no grazie’ ed era scappata. Aveva preso a piovere forte e ormai non vedevo più. Allora ho tolto gli occhiali. 
Potevo vendere solo quel giorno, il giorno successivo sarei partita per Torino e avevo bisogno di soldi.
Niente. Non si era avvicinato nessuno. Anzi, uno si era avvicinato, quello di prima. Quello col pizzetto bianco. Aveva detto:
- ragazze, qui tra poco, appena smette di piovere, arrivano gli sbirri in borghese e vi sequestrano la merce.
  • Addirittura, è una cospirazione allora?
  • No davvero ragazze, qui hanno tutti la licenza per vendere.
  • Ma se ci sono solo immigrati, e magari pure senza permesso di soggiorno!
  • No, non è così. Io questo lavoro lo faccio da sempre.
  • Vabbè, ora andiamo, noi volevamo stare solo due ore, vendere qualcosa. Io sono disoccupata, e che devo fare? Ho cercato di inventarmi ‘sto lavoro. Ho una laurea specialistica in Editoria e Giornalismo, e lo sai che ci faccio con quella? Lo puoi intuire da solo.
  • Avete ragione ma da qui ve ne dovete anna’.


La ragazza straniera era arrivata. Era slava o turca, non so. Parlava strano. Voleva il libro, quello che costava cinque euro, le fotocopie insomma. La mia amica le aveva spiegato il programma, le aveva detto quali erano gli argomenti più importanti. Avevano parlato per venti minuti circa. Io nel frattempo avevo smontato tutto. Tutto. Avevo deciso di mollare.


Il ritorno lo abbiamo fatto a piedi, non volevamo dare nemmeno un centesimo a quelli dell’Atac. 
Siamo arrivati a San Lorenzo. La mia amica aveva visto su Internet un annuncio, un’offerta di lavoro in una caffetteria. 
Entrate nella caffetteria di Piazza dei Siculi, la mia amica ha detto:
- Salve, ho visto che avete bisogno di una barista.
  • Sì (tono scazzato)
  • Volevo qualche informazione perché sono interessata a questo lavoro.
  • Ah, ma tu lo sai fare questo lavoro?
  • Sì, lo faccio da quattro anni.
  • Ah
  • Volevo sapere quali sono i turni e quant’è la paga mensile.
  • Tutti i giorni, compresi sabato e domenica
  • Ok, e la paga?
  • No, torna un altro giorno. Per ora c’è confusione.

Ho pensato: ‘ma mica gli sta chiedendo un favore! Perché questo stronzo se la tira così tanto?’

Non abbiamo mai saputo quanto le avrebbero dato se avesse accettato di lavorare per questi figli di puttana.

Ci eravamo fermate in edicola per comprare il ‘Porta Portese’. Nel frattempo si era avvicinato un tipo e aveva chiesto:
- Scusate ragazze, per caso avete una sigaretta per un mio amico che oggi è senza un piede?
  • Eh? 
  • per caso avete una sigaretta per un mio amico che oggi è senza un piede?

Avevamo sentito bene.

  • No
  • Sicuro?
  • SICURISSIMO!

Arrivate a casa, abbiamo preso a sfogliare il Porta Portese. Non c’era l’inserto ‘Lavoro’.

- Ma non c’è l’inserto del lavoro! Ma come mai?
  • Che ne so, forse non c’è lavoro!
  • Assurdo, solo immobili e motorini, immobili e motorini!!! E niente lavoro! Solo due pagine di offerte di lavoro, all’interno.

La prima scritta della pagina delle offerte di lavoro diceva:
IMMIGRATI. COME DIVENTARE IMPRENDITORI.
Abbiamo riso.

Archivio blog