Mi ricordo il nonno Mario che mangiava le arance sul piano di marmo della cucina appena tornato a casa. Prima di entrare dalla porta, nonostante avesse le chiavi, suonava il campanello e io e la nonna tendevamo per un attimo l’orecchio per vedere se un attimo dopo si sarebbe aperta la porta.
Quando entravo a casa della nonna Giovanna un odore inebriante di salsa fresca mi riempiva di buonumore. Oltre al sugo di pomodoro, la sua specialità era la pasta alla grinta, con i peperoni sottolio che teneva nel camerino, al buio. Li cucinava una volta l’anno e li metteva nei vasetti con un po’ di olio e aceto, così come i barattoli di olive condite con origano, aglio e olio.
Mi mandava a comprare due etti di prosciutto cotto alla Crai e mi guardava dal balcone mentre attraversavo la strada. ‘Gioia mia, un ti siddiari, m’avissi a fari un piaciri’, mi diceva.
Prima di partire per la campagna di Bolognetta c’era una lunga preparazione e la nonna scendeva da casa per ultima, piena di sacchetti con contenitori e roba da mangiare. Il nonno stava in macchina ad aspettarla e pure noi, e non capivamo come mai ci mettesse così tanto a prepararsi. Poi scendeva, con il suo profumo Felce Azzurra e il suo odore di borotalco, i capelli pettinati e una collana di perle, la gonna sotto il ginocchio e la sua espressione seria, certa che da lei dipendesse la riuscita di tutta la giornata, certa di aver fatto lei tutto il lavoro e adesso al nonno non restava che guidare. Io, Gabri, Dani e Riccardo dietro e il nonno che guidava pianissimo, e se qualcuno suonava il clacson, con il sorriso strafottente sulle labbre diceva ‘Sì, suona suona’. A volte guidava in folle nelle strade in discesa, per non sprecare benzina. Dietro noi cantavamo a squarciagola le canzoni di Sanremo, “Trottolino amoroso”, “Brutta”, I Neri per Caso, Ivana Spagna. Alla nonna Giovanna piaceva sentirci cantare, e se il nonno parlava lo zittiva e diceva ‘viri ch’i picciriddi stannu cantannu’.
Alla nonna piaceva Iva Zanicchi e la “Ruota della Fortuna”, le piaceva Sgarbi perché diceva che era un uomo intelligentissimo e colto, guardava “Forum” su Rete Quattro. Al nonno Mario invece piacevano i film western, guardava praticamente solo quelli. Gli piaceva anche Luisa Corna, diceva che era una bella cavalla.
D’estate si stava in balcone sulle sdraio, al fresco. Si guardava quello spicchio disordinato di città dall’alto, da dove il caos era ancora maggiore e si percepiva il movimento incessante. C’era Gaetano il fruttivendolo che si prendeva metà marciapiede, con la sua marea di cassette di frutta, la maggior parte delle quali vuote, non ho mai capito il perché.
La nonna Giovanna dal carnezziere prendeva sempre le fette di trinca o il perno, che sapeva solo lei che taglio di carne fosse. A volte andava a comprare la carne a Marineo e ci faceva aspettare sempre in macchina. Dal panettiere, invece, portava le teglie di pasta cruda di sfincione per farsele cuocere quando c’era qualche serata di famiglia come a Natale. Mia nonna mi ha insegnato ad impastare, a fare lo sfincione, facendo attenzione alla lievitazione, alla quantità di olio, sale e zucchero da mettere nell’impasto. Quelle sue mani piccole con le dita gonfissime, per niente fluide nei movimenti, facevano capolavori in cucina. La nonna mi ha insegnato a cucinare anche la parmigiana e i calzoni fritti di carne di vitello, delle tasche di carne con dentro la provola e il prosciutto.
Ogni tanto, mentre eravamo a tavola, arrivava la telefonata di qualcuno e la nonna prendeva la sedia e la posizionava accanto al mobile marrone dove c’era il telefono. In genere parlava o con la zia Graziella o con la zia Mela. Accanto al telefono una rubrica di un bordeaux sbiadito raccoglieva numeri scritti in bella grafia dalla nonna, numeri di telefono del panificio, l’alimentari di Marino, figli, nipoti e parenti ma soprattutto quello delle bombole. Era una grafia da scuole elementari piena di ghirigori e tentennamenti, incerta eppure elegante.
L’acqua in frigo era sempre travasata nelle bottiglie di vetro dal nonno che tutti i giorni andava in via Perpignano a riempire i bidoni da cinque litri. Spesso portava un bidone anche a casa mia, la mattina prestissimo, quando noi eravamo ancora in pigiama.
Il nonno da Palermo andava a Corleone a piedi, a volte senza scarpe per non consumarne le suole. Se, arrivati nell’androne d’ingresso di casa sua, provavamo a salire in ascensore ci prendeva sotto braccio e indicando le scale ci diceva ‘Avà, acchiana’. Non tollerava la pigrizia e ci scherniva se provavamo a rifiutarci, facendoci il verso. La sua era un’educazione militare che ci spronava a fare sempre meglio così da evitare di subire le sue critiche. Quando veniva a prendermi a scuola, alla Noce, mi faceva camminare a piedi, sostenendo di aver posteggiato la macchina a pochi metri. Puntualmente arrivavamo a casa, dove aveva lasciato la macchina e io mi arrabbiavo perché mi aveva mentito ma in cuor mio sorridevo perché sapevo perché l’aveva fatto.
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