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venerdì 28 luglio 2017

Infanzia

Avevo uno zaino blu elettrico con la scritta Invicta e passeggiavo con mio nonno e mia cugina per le strade della Noce e i palazzi cadevano a pezzi, lʼaria era sempre ferma e le vie sempre affollate. Iniziavamo la giornata con la treccina che il nonno Mario ci comprava al panificio sotto casa ed era un vero regalo perché quello zucchero sul pane ci restituiva lʼeccitazione di cui avevamo bisogno la mattina presto. Ci accompagnava a scuola e veniva a prenderci anche allʼuscita.
Di tutti i bambini della scuola ne ricordo bene soltanto uno, la mia compagna di banco Carlotta, di cui perfino il nome per me era fonte di ispirazione. Aveva un caschetto lucido nero e due occhi da san bernardo, sapeva sempre tutto e sapeva cavarsela sempre. Pranzavamo tutti insieme, in classe, e la bidella portava una busta per ogni bambino, dentro cʼerano un panino, una mela e un formaggino.
Ricordo il rigore dellʼedificio e le pareti bianche, lʼesterno grigio e un atrio grande dove si teneva la recita di Natale e quella di fine anno con lo spettacolo di tarantella siciliana, Me lo ricordo bene perché fu la prima occasione in cui i miei mi permisero di mettere il rossetto. Ricordo un pavimento di resina lucida nera e un cortile con una sola aiuola piena di cespugli non curati, le foto di classe, il negozio di detersivi e casalinghi che vendeva anche cannoli, il giorno in cui mia madre dimenticò di venire allʼuscita da scuola e aspettai ore nellʼufficio della segretaria, i temi in classe e lʼalbero di Natale allʼentrata, la piazzetta della Noce e via Ruggerone da Palermo, una delle vie più caotiche e vive di Palermo, le vecchiette cariche di sacchi della spesa e i motorini truccati a fare lo slalom tra i passanti strafottenti.
In genere era il nonno Mario che veniva a prenderci allʼuscita da scuola. Io e Gabri ci incamminavamo verso casa lente, in attesa di poggiare i nostri zaini sui sedili della sua macchina. Puntualmente, quando gli chiedevamo dove avesse posteggiato, ci rispondeva ʻqui dietroʼ ma la macchina non la prendeva nemmeno, cʼerano solo venti minuti di strada da casa del nonno alla scuola. Ci prendeva in giro, a lui non piaceva la vita comoda e, arrivati davanti allʼascensore ci vietava di usarlo e ci ordinava di salire a piedi. Scherzava, rideva e ci teneva ben lontane dalla vita facile. Quando arrivavamo a casa la nonna era alle prese con i fornelli, ci accoglieva sempre con odori diversi e , rivolgendosi a Gabri la rassicurava sul fatto che di ogni portata ci fosse un doppione, preparato accuratamente senza glutine e senza contaminazione di alcun genere. Quando ci sedevamo a tavola, davanti a noi trovavamo piatti fondi che a stento contenevano quellʼinfinità di corallini con le lenticchie, le tagliatelle al sugo fresco o le casarecce alla grinta, la sua specialità.
Il nonno aveva le sue posate perché diceva che non tutte le posate erano buone, quindi le aveva segate leggermente sul manico per capire quali fossero le sue. Erano posate come le altre, ma lui diceva che il suo cucchiaio entrava in bocca con maggior facilità e che le posate con il manico di plastica, per esempio, lo mandavano in bestia. Quando veniva a casa mia e mia madre apparecchiava, faceva sempre una smorfia di disprezzo quando metteva a tavola le posate. E poi aveva la fissa dellʼuovo, di quella puzza di uovo che lui sentiva dappertutto, odorava sempre piatti e bicchieri e puntualmente se li faceva cambiare, ovunque fosse, perché se sentiva quella puzza non riusciva proprio a mangiare. Mia nonna lo viziava e, da quando era in pensione, aveva iniziato ad istruirlo bene sulla scelta degli alimenti da comprare. Cʼerano voluti anni di spesa insieme a Marineo per fargli capire come riconoscere la carne buona o le melanzane e le olive migliori. Poi aveva passato lʼesame e la nonna aveva cominciato a dargli diversi incarichi, quindi scendeva da casa più volte al giorno per comprare o il prosciutto senza conservanti o due etti di provola dolce tagliata a fettine sottili o due etti di parmigiano grattugiato. Al vino aggiungeva mio nonno aggiungeva lʼaranciata, poi si poteva cominciare il pranzo.
La nonna iniziava a mangiare cinque minuti dopo di noi, dopo aver osservato con attenzione la nostra espressione dopo il primo boccone: se non era accompagnato da

unʼesclamazione o unʼespressione di sorpresa per la bontà di quello che aveva cucinato, si chiudeva in unʼespressione arrabbiata, offesa. I suoi piatti doppi erano speciali e si offendeva quando ogni tanto pranzavo dallʼaltra mia nonna, mi chiedeva spiegazioni e mi illustrava puntualmente i piatti che avrebbe cucinato il giorno dopo, facendomi venire lʼacquolina in bocca e convincendomi ad andare a casa sua.
Era bella mia nonna, aveva gli occhi azzurri e delle rughe eleganti intorno agli occhi, profumava di Neutro Roberts ed era timida quando si trovava davanti a gente sconosciuta, sempre attenta a non sembrare inopportuna o poco garbata. Quando ero piccola e avevo la febbre veniva a trovarmi a casa e io ero felice, mi rassicurava il fatto di avere anche lei vicino, mi rassicuravano le confidenze che lei faceva a mia mamma, convinta che io non capissi di cosa stava parlando. Io ascoltavo, e quel chiacchiericcio era il mio sottofondo preferito, il modo migliore per trascorrere le giornate in cui non potevo andare a scuola, nel soggiorno di casa, con il sole placato dalla tenda pesante bianca e lʼaria ferma. Lei arrivava profumata e pettinata come se dovesse andare a teatro, con quelle sue gonne sotto il ginocchio e quei cardigan e i foulard a fiori bordeaux, mi chiedeva se stessi meglio e poi cominciava a parlare con mia madre. A volte mi infastidiva il fatto che non mi desse le giuste attenzioni, come se la mia febbre non fosse importante, come se la mia influenza non meritasse più di due minuti di conversazione. Io invece volevo essere al centro dellʼattenzione di entrambe, volevo essere lʼunico argomento di discussione, mi perdevo negli occhi della nonna e aspettavo un suo cenno, uno sguardo dolce, cercavo la sua complicità.
La nonna veniva sempre a casa quando stavo male, sempre. Portava una montagna di contenitori pieni di cibo, si sedeva sulla sedia di fronte a me, mia madre accanto, guardava solo mamma. Solo quando andava via mi guardava bene e mi diceva: ʻdomani passo a vedere come staiʼ. E io mi sentivo felice perché cʼerano due mamme a vegliare su di me. 

giovedì 3 settembre 2015

Prova lo xanax, dico io

Ho aspettato tre ore alla stazione prima di prendere il treno, pensavo ce ne fosse uno ogni ora e invece i treni per Cefalù d’estate vengono dimezzati. Non c’è nulla di male, a noi i turisti stanno sul cazzo. Sbuffano, si lamentano, guardano inorriditi il tabellone con gli orari e poi se ne vanno, e chissà dove vanno. Io so che il viaggio varrà l’attesa, perché il treno per Cefalù ad un certo punto diventa una barca. Il mare è lì, dietro il finestrino, basta tirarlo giù e fare un tuffo, lì dopo Trabia il treno diventa barca e quello è il premio per l’attesa, ma loro non possono saperlo. 

Sono stata a casa di un mio amico che vive in paese con i genitori, mi hanno ospitato per tre giorni nonostante in casa non ci fosse acqua. Hai capito come si ragiona qui? 
Grazia mi chiede un parere sul vestito del battesimo, sulla collana e gli orecchini, le scarpe e la borsa. Mi ha anche chiesto se il trucco color tortora secondo me potesse andar bene. Grazia sa come farti sentire importante. Mi ha preparato la colazione e mi ha impedito di fare il caffè, mi ha impedito di sparecchiare o lavare i piatti. Mi ha accompagnato alla stazione e mi ha raccontato che vorrebbe che suo figlio rimanesse in Italia, lo spera davvero e mi chiede di darle una mano a convincerlo. ‘Ci proverò’, le dico. 
Qui c’è il mare, il mare che osserva tutti i tuoi gesti, che ti tiene fermo. E Grazia ed Enzo non fanno altro che dirmi ‘hai visto che bel panorama che si vede da qui?’, e che bella temperatura, e il vento leggero e il profumo dei calzoni appena sfornati o delle melanzane fritte di prima mattina, il piacere di scambiare due parole, di parlare in modo spontaneo, in canottiera, con gli occhi ancora chiusi dal sonno.
Mia madre stamattina piangeva, e io non sapevo cosa dirle, non sapevo cosa fare, noi siamo qui nello stesso posto, nello stesso limbo tra il mare e il sole ed è lì che io vivo, vivo in Sicilia, abito solo in un posto diverso. Ma questo non so come spiegarglielo. Non so come spiegarle che per adesso deve accontentarsi di cullare i bambini di mia cugina e che la nostra società è un enorme rogo di passeggini, in pochi possono permettersi di avere figli adesso, e la natura, la natura dice che i figli si fanno dai 20 ai 30 anni e quindi ciao.

La voce della vicina la sentiamo bene da qui perché i muri sono sottili. Dice a sua figlia di stare tranquilla, che a Milano alla fine si sta bene, che qui non avrebbe saputo cosa fare, gli attacchi di panico prima o poi saranno solo un brutto ricordo, non c’è nulla di cui preoccuparsi, davvero. C’è sempre lo xanax, dico io.

Ti ricordi quando eravamo alla Sapienza e mi dicevi di non guardare mai la Minerva negli occhi? Dicevi che portava male e non mi sarei mai laureata, ti ricordi? Ci siamo passate sotto centinaia di volte eppure non abbiamo mai guardato il volto di quella statua. 
Siamo state a Palermo per tanti anni e non l’abbiamo mai guardata davvero, non ci siamo mai accorte, se non dopo anni, che la nostra città era ferma al Dopoguerra, che camminare tra le rovine della Vucciria non era una cosa poi tanto normale. I palazzi crollavano, piazza Garraffaello era una discoteca a cielo aperto e i residenti si lamentavano, la mozzarella a Ballarò era verde e il paninaro si soffiava il naso prima di tagliare a metà il panino, le blatte volanti ci si posavano addosso e il parcheggio non si trovava manco per il cazzo. Quant’era bella Palermo? Puzzava da fare schifo, al foro italico c’erano le puttane e le giostre, il mare era solo una lingua di spiaggia a Mondello, il mare non lo vedevamo mai, solo gli stronzi con i villini all’Addaura potevano farsi un bel bagno, indisturbati, soli. 
Perché ci manca così tanto? Non è cambiato nulla negli anni, quando si tornava a casa alle quattro di mattina sbronzi, a piedi nudi, come faceva Remi, e non ti poteva accadere nulla. 
Tra la nostra e tutte le altre città c’è uno scarto enorme, un abisso culturale immenso e quell’ambiente familiare, socialmente inaccettabile, non lo ritroviamo e non lo ritroveremo mai in nessun altro posto. 

Lo sai quanta vita ho grazie alla mia città? Lo sai quanta energia ho? Ma non riesco a convivere con quel senso civico che serve qui a Torino, avrei bisogno di un po’ di macerie, di un po’ di anarchia, di un po’ di sud.


martedì 21 luglio 2015

Raccontami dei tempi di piazza Magione

‘Scrivi di piazza Magione’ mi hai chiesto, ‘ricordami com’ero, ricordami come eravamo’. Dici che è stato uno dei periodi più felici della tua vita. Certo che te lo ricordo, e soprattutto cazzo, non siamo mica morte, c’è sempre tempo per ritornare così belle come eravamo e ti assicuro che vivere ancora lì, in quella piazza, e provare quelle sensazioni, si può.

Venivo a prenderti con la mia Cinquecento blu, la magica Brigitte. E ti trovavo sempre avvolta in quelle pareti bianche, vuote e squallide, nemmeno un poster, solo collage demenziali e qualche ritaglio di giornale a formare immagini e frasi nonsense. Il senso estetico che caratterizza la nostra civiltà non ti appartiene, non ti è mai andato a genio, sei sempre stata un po’ sui generis e per me all’inizio eri incomprensibile. Appesa alle pareti bianche tenevi anche una gamba di plastica, una di quelle gambe che si usavano nelle mercerie per esporre le calze. All’occorrenza prendevi la sedia, la tiravi giù e la suonavi. Dicevi ‘aspe’, tu canti e io ti accompagno con la gamba’. Hai sempre avuto un senso del ritmo invidiabile e abbiamo anche scritto una canzone insieme, che chissà come faceva. 

Allora c’era questa casa di corso Tukory e tu portavi un basco che non raccoglieva nemmeno tutti i capelli, tanto erano ricci e per i cazzi loro. Portavi degli occhialetti da brava ragazza e vestiti demodè, avevi abiti di cent’anni fa raccattati da parenti vari e roba sempre larga, non ti  truccavi e d’estate le lentiggini ti illuminavano il viso. Le gambe secche e una forza inumana, la ferocia di chi vuole prendersi tutto e tutti, il sorriso sempre in mostra, davvero, per chiunque. 
Il portiere, Filippo, ci provava con te e Bimbo. Lo chiamavate per uccidere gli scarafaggi. Non ti faceva paura niente ma appena vedevi uno scarafaggio diventavi cretina e dovevi chiamare il portiere. Sei diventata amica del tuo dentista (da quando ti è caduto un dente mentre mangiavi la pastina) e vi sentivate tutti i giorni. Il dentista per me era vecchio e non capivo come potessi aver raggiunto quel grado di confidenza con lui, tanto da incontrarlo al bar per un caffè o una birra. 
Noi studiavamo, e studiavamo cose diverse. A me piaceva quello che studiavi tu e a te piaceva la letteratura. Io ho imparato due o tre parole in arabo e in inglese e tu hai scoperto chi erano Pasolini e la Fallaci, e poi abbiamo studiato storia dell’arte contemporanea, una materia in comune finalmente, ed è stato bellissimo. La passione per la letteratura e per l’arte ci ha travolte per un bel po’ e passavamo interi pomeriggi a dipingere le pareti della tua stanza. Abbiamo impiegato quasi tre giorni a pulire quando la proprietaria ha visto come le avevamo ridotte e si è incazzata a morte. 

Fumavi già tantissimo ed eri sempre fusa. Andavi a ‘fare la storia’ anche da sola e mi ricordo che i tuoi amici coraggiosi gelesi ti mandavano sola a comprare il fumo, in via Castro, con quella faccia d’angelo che ti ritrovavi, quelle gambette secche e quell’esperienza da tossica emancipata.
La sera andavamo sempre a piazza Magione e lì ogni sera conoscevamo un sacco di gente, da Sandokan a Nicola, agli americani che ci hanno fatto ubriacare di whisky e cola, facevamo amicizia con tutti, cantavamo Mina e ce ne fottevamo dei residenti, la gente si avvicinava e si sedeva a cantare con noi e non avevamo nemmeno una chitarra, cantavamo a squarciagola, senza un minimo di pudore, nel mezzo della piazza che noi, io e te, per prime avevamo scoperto e sfruttato per i nostri esperimenti vocali. 
Eravamo sempre io tu e Bimbo, a bere Forst da 66 a 1 euro e mezzo, sul prato, buttate per terra, con gli insetti che si infilavano sotto la gonna e i cani che a volte ci scambiavano per alberi e ci pisciavano di sopra.
In macchina portavamo sempre un megafono e una pistola finta, e una volta mentre Marilena vomitava dal finestrino, io ho accostato e uno sbirro in borghese si è avvicinato e ci ha chiesto se eravamo colleghe. Noi ci siamo guardate, stupite, e gli abbiamo chiesto come facesse a saperlo. Solo che lui intendeva colleghe, sbirre come lui, mica colleghe di università. Aveva visto la pistola finta poggiata sul sedile posteriore. Da quel momento abbiamo deciso di lasciarla a casa e abbiamo iniziato ad usare di più il megafono, e abbanniavamo per tutta la città, sempre dalla Cinquecento blu, tipo quelli che vendono il sale o lo sfincione. 
Una volta avevi cinquanta euro in tasca e non ci potevi credere, ti sembravano troppi soldi e hai deciso di offrire da bere a tutti per festeggiare. Hai offerto birre a tutti quelli della taverna di Ballarò, hai sventolato la tua banconota in cielo e hai urlato ‘ragazzi, stasera pago io per tutti’. 
A piazza Magione vedevamo sempre i fuochi del festino, e poi passavamo sempre dai Candelai. Una volta abbiamo litigato e io camminavo davanti a te, a distanza perché non volevo parlarti. Eravamo io e te e le macchine che passavano erano piene di tasci che urlavano e suonavano il clacson. Mi è arrivato un uovo addosso e mi è esploso sul vestito. Ero convinta che fossi stata tu e ho iniziato ad urlare dicendoti che lanciarmi un uovo addosso forse era un tantino esagerato. Ci hai messo una serata intera per spiegarmi che non eri stata tu, ma io non ti credevo.
La birra la correggevi col gin. Aprivi la bottiglia con i denti, ne bevevi due o tre sorsi e poi te la facevi correggere dal barista, intonavi splendidi insulti ruttando e poi dicevi ‘mi fa male la gastrite’, quell’organo che avevi solo tu. 


Gli eccessi Dani, di eccessi ti sei nutrita per anni, con tutti quei personaggi immaginari che ti affollano il cervello e quelle mille personalità che custodisci, come se essere una persona soltanto fosse troppo noioso, come se la tua meravigliosa complessità fosse dovuta a tutti quegli omini che ti fanno vedere le cose da mille prospettive diverse.

Il bagno all’Addaura, nude, tutte donne e senza teli, 
feste in cui si vomitava in due contemporaneamente nella stessa tazza del cesso, a reggersi la testa a vicenda e poi farsi lo shampoo a casa di non so chi, 
Ubuntu, 
il tifo mentre vomitavo, 
e Cin cin, alla nostra grazia, come no, la nostra grazia.
I tuoi lacci ai polsi, brutti e logorati dal tempo, 
le tue collanine anonime e la tua energia, la tua spontaneità. 
Tu che tratti tutti allo stesso modo, e se incontrassi il Papa probabilmente lo inviteresti a cena a casa tua, ‘Papa, ti andrebbe un piatto di pasta alla trapanese?’, gli diresti.

Il resto dei ricordi ritornerà, ritornerà negli anni. 
E grazie per avermi fatto ricordare almeno questo. 


Appuntamento alla Vucciria ad agosto, con cinquanta euro in mano, devono bere tutti, nessuno escluso!


lunedì 8 giugno 2015

Hai preso la pozione?

Hai preso la pozione?
Non mi serve oggi, in questo mucchietto di terra arida l’energia rimane alle persone, nella terra fertile invece l’energia deve necessariamente alimentare le piante, gli alberi, i frutti. 
In riva al Po un trombettista suona e una folla di ragazzi assiste allo spettacolo, tutti giovani, più giovani di te che hai fatto trent’anni. È sabato sera e fa caldo, finalmente siamo a maniche corte e i sandali ci permettono di toccare terra, finalmente è estate. Ma mi chiedi da cosa si capisce. Da cosa si capisce che è estate. Da un mucchio di ragazzi seduti sul lungo Po, muti, in silenzio, immobili, che guardano un trombettista suonare? E quale sarebbe l’estate? ‘Un assopimento generale piuttosto’, e mi guardi perplesso. Ti senti a disagio se alzi la voce, se pronunci il mio nome, ti senti a disagio se mi chiedi una sigaretta perché la tua voce rimbomba e fa eco. Quando inizia il concerto il silenzio viene rotto da un pugno di applausi timidi che risulta tanto ordinato quanto innaturale e meccanico. Non uno slancio di vitalità, niente e nessuno sopra le righe, tutti composti e innaturalmente giovani, facce pulite e gesti misurati. Qualche tempo fa avremmo pensato ‘che meraviglia, che ordine miracoloso, che civiltà’. Ma ora la civiltà ci è venuta a noia e non troviamo più una via di mezzo che soddisfi. 
Il grottesco fa parte della nostra natura e del grottesco ci siamo nutriti per anni, dei comportamenti incivili e della follia smisurata e anarchica. Quindi oggi non mi serve alcuna pozione, qui a bere in mezzo ai trans nelle vie della Vucciria, in mezzo ai pacchioni che friggono panelle e crocché, che non si curano di nulla, in mezzo ai ragazzi ubriachi che ballano sulle panche, a sconosciuti che ti porgono l’accendino quando metti in bocca la sigaretta appena rullata, senza che tu abbia chiesto nulla. L’aria è leggera, i cuori sono aperti e le urla sono il sottofondo perfetto perché grazie alle urla anche tu riesci a gridare la tua, e la naturalezza della vita vissuta bene, senza scopo né obiettivi ma a stretto contatto con la gente, con persone uguali a te, identiche a te, che cercano esattamente quello che cerchi tu. 
Rocky riempie di milza il panino e poi aggiunge ricotta e limone, sorride e mi viene sempre voglia di chiedergli qualcosa, mi fa andare a letto contenta perché racconta sempre storie interessanti e mi fa mangiare bene con due euro. L’energia delle persone si misura in storie, le storie che qui chiunque racconta a chiunque, senza essere interpellato. Oggi mi nutro di storie, di risate e di urla, di ammuttuni, di rombi di motori, di disarmonia.

Sono arrivata con la munnizza e me ne vado col mare. L’autostrada da Puntaraisi a Palermo mostra il lato peggiore della città, con sacchi di spazzatura ovunque, ma quando percorri la strada al contrario e sei diretto in aeroporto, quando devi partire, allora sì che vedi solo mare, solo mare e un’isoletta felice, arida, perché l’energia qui è delle persone.


domenica 4 gennaio 2015

Vucciria

Siamo tutti gomito a gomito e ci sorreggiamo a vicenda. Gli ultimi arrivati chiudono il muro. Nessuno vuole chiudere il muro, vogliamo stare tutti al centro. Qui ci si sostiene a vicenda. 
La piazza accanto è quasi vuota, in piazza staremmo tutti più larghi, ma abbiamo scelto di stiparci in questa discesa: tanti gessetti in una scatola, in piedi per non cadere, ognuno indispensabile all’altro. Odiamo i posti dispersivi, abbiamo ricreato casa nostra qui per strada e vogliamo che l’ultimo chiuda la porta. 
Alla taverna gli ospiti sono fissi, alla taverna ci andiamo tutte le sere, la taverna è la nostra microcittà, qui abbiamo tutto quello che ci serve. 

- Da quanto non ti sentivi così?
- Così come?
- Così a casa.
Hai sorriso e ti sei guardato intorno. Mi hai chiesto di brindare al ‘vecchio’, perché è il ‘vecchio’ che ti piace, è il ‘vecchio’ casa tua, queste facciate devastate, queste pietre senza senso e queste macerie, la nostra fatiscenza la disprezzi ma è casa tua. Ti piace non avere troppe pretese, sapere che le palazzine crollano insieme a te, che c’è un luogo che non cambia mai, ti fa comodo che l’indolenza di quel luogo diventi la tua di indolenza, che ne hai persi di anni ma in questo posto sembra sia tutto fermo a undici anni fa, quando avevi ‘voglia di’. Queste cento teste ti fanno da scudo, ti salvano la vita, ti proteggono dal tempo, in primo luogo.
- La Vucciria è troppo bella. 
Siamo nel mezzo del rivugghio, sicuri di non sprecare il tempo della nostra vita, siamo qui per non perderci nemmeno un attimo, per ricaricarci con l’energia depositata sotto queste basole, siamo in un vero luogo di condivisione. Adesso sai come vanno le vite di tutti, adesso non dimentichi nessuno, non trascuri nessuno. Hai un’infinità di tempo da dedicare agli altri, un’infinità di tempo per conoscere gli altri.

- La Vucciria è la Vucciria, hai detto. Mille corpi in una minuscola via, tutti stretti anche se a un metro c’è un mare di spazio.

venerdì 5 settembre 2014

Partenze

Sono sempre sola in aeroporto. Tutti gli altri sono in gruppi di due o tre o addirittura intere famiglie allargate. Li invidio, è più facile dividere l’angoscia della partenza con qualcuno. Vedo tutti come se li osservassi dall’esterno, come se fossi invisibile. Nessuno mi guarda, sono tutti presi dalla partenza, dal mare o dalle nuvole, tutti pieni di sole e salsedine. Io li guardo e mi viene da piangere.

Arrivata al corridoio delle partenze, torno indietro per fumare l’ultima sigaretta prima del volo. Le porte scorrevoli si aprono sul mare. 
Il mare lo rivedrò solo a dicembre e oggi è una tavola, peccato, proprio oggi che devo partire. Da quel primo piano dell’aeroporto Palermo sembra magnifica, con l’afa che ti anestetizza e l’aria condizionata appena varchi la porta scorrevole, il sole accecante, i toni paglia che colorano gli sguardi e le contraddizioni spazzate via dal vento forte. Man mano che scompare, vista dall’aereo al decollo, la vedi in tutto il suo splendore, pura e cristallina come poche. È allora che inizi a rimpiangerla davvero, e l’intero viaggio diventa una sconfitta. Il senso di sconfitta non scompare né all’atterraggio né sul pullman che mi porta a casa e continua fino al giorno dopo, quando riesco ad abituarmi al silenzio surreale di Torino.

Mio padre mi ha appena lasciata alle partenze e mi ha riempito la testa di raccomandazioni. E io ho ancora un groppo in gola perché mi chiedo quando i miei genitori sono diventati così fragili, quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho litigato con mia madre e lei mi ha parlato dei sui problemi, quanto tempo è passato dall’ultima volta che abbiamo visto un film insieme o le ho cucinato qualcosa. Mi chiedo da quanto tempo non facciamo un viaggio insieme. Mi sento come se non sapessi più nulla di loro, come se la mia famiglia avesse una nuova famiglia di cui io non faccio parte. I miei nonni se ne sono andati, inghiottiti da divani e letti sui quali mi sono seduta mille volte e non so più nulla di loro, cosa hanno fatto negli ultimi anni e sto perdendo il contatto con la realtà ed è difficile rifarsi una famiglia altrove, non sapere se e quando sbagli, senza nessuno che ti dà delle dritte e condivide le tue scelte.
Anche la diaspora dei miei amici è stata un duro colpo. Loro sono tutti incazzati, esattamente come me. È difficile seguire le loro giornate, i loro pensieri, i loro spostamenti. 
Palermo è stata per me uno stimolo alla sopravvivenza, un test, una prova che ero ancora viva. 
Ora sono in una stanza bianca, deserta e senza istruzioni. Sono senza istruzioni. Ma essere senza istruzioni è forse il grande passo verso l’indipendenza. Ma che me ne faccio dell’indipendenza se non ho più qualcuno con cui parlare? 
Sto qui, tra i miei libri e le mie bollette, e improvvisamente mi manca una passione, mi mancano gli stimoli, mi manca la vitalità.


Questo aveva pensato, che se da bambina odiava il fatto che i suoi genitori scegliessero per lei, quando si era allontanata da loro aveva provato piacere nel fare l’esatto opposto: adottare il loro punto di vista e scegliere ciò che prima non avrebbe mai voluto scegliere.

Pensò che in fondo era la stessa cosa che le era capitata quando Bud era andato via da casa. Lui comprava ad Arden le stesse cose che lei comprava per suo figlio e che suo figlio diceva di detestare: gli stessi cereali, le stesse bistecche e le stesse calze a righe. Perché forse era naturale agire così, sentirsi confusi prima di essere ciò che si è veramente”.

lunedì 11 novembre 2013

Il mio cognome è del nord

Al supermercato, davanti alla mia cassiera di fiducia, l’unico modo per non sentire un pugno allo stomaco quando mi spara a voce il totale, è quello di pensare che la cifra da pagare sarà molto più alta, almeno il doppio di ciò che spenderò realmente. Solo così riesco a non farmi venire un coccolone, solo prendendomi per il culo, lasciandomi credere che sì, anche oggi sono stata brava a risparmiare. La guardo la spesa e penso “saranno almeno 20 euro”. Invece la cassiera mi sorride e mi dice “fanno 10 euro e venticinque”. Che culo, penso. 
Arrivata a casa apro la busta per svuotarla: 3 birre, 2 kinder cereali (perché dice che fanno passare il mal di testa), una scatola di kinder cioccolato da 4, due finocchi e una confezione di patatine. Bella spesa del cazzo, penso.
Ma oggi dovevo consolarmi, era il mio primo ‘vero’ giorno di lavoro. Sono arrivata in ufficio alle 7.45, in perfetto orario. Ho legato la bici davanti all’ufficio e sono entrata dicendo: “buongiorno, oggi è il mio primo giorno di lavoro”. 
Presentazioni di rito, tutti vecchi, un po’ pelati, un po’ stanchi, con rughe disegnate qua e là, tutti sorridenti di un sorriso un po’ spento, come bambole di porcellana gentili e gradevoli ma anche un po’ inespressive. Ecco i miei colleghi di porcellana, con voi condividerò la neve, la pioggia, il freddo, i discorsi sul tempo, qui a Torino si gela, meglio da te a Palermo, chissà quanti gradi ci saranno, questa camicia l’ho pagata 70 euro e poi al mercato l’ho rivista uguale a 15, che hai oggi per pranzo, sai sono a dieta, la dieta sta funzionando, si vede che stai meglio, ma parti?, dove vai quest’anno?, hai sentito il telegiornale, questi immigrati se ne devono andare, i mezzi a Torino non funzionano, senti qua non dire scemenze perché io vengo dal sud, sai questo mese ho troppe spese, sono arrivate le bollette, è aumentato il gas, devo accompagnare mio figlio alla partita di calcetto eccetera eccetera eccetera. 
Con gli anni ci farò l’abitudine ma la mia espressione quando mi trovo nel bel bezzo di queste conversazioni tritatutto è quella di una persona estremamente diffidente. Mi trovo a dialogare con degli sconosciuti, che tra qualche tempo diventeranno figure abituali come i personaggi disegnati sui quadri di casa mia, di cose assolutamente futili. 
Da piccola mi ero riproposta di non sprecare la mia voce in discorsi troppo futili.  Di circostanza magari sì, o almeno ho imparato col tempo, ma futili e banali no. O almeno questo era quello che pensavo quando avevo costruito la mia idea di vita e il mio carattere ideale in un mondo che apparteneva solo a me, una sorta di codice etico da rispettare per volermi bene, per garantirmi un’autostima solida. Era quando avevo deciso che la mia vita sarebbe stata importante. 
In realtà, tutto quello che mi è capitato dalla fine dell’università ha soltanto smontato questo mio postulato.
La vita è fatta così, una grande palla di discorsi mediocri che ti permettono di essere ‘normale’, una grande sfilata in cui nessuno sembra o deve dar l’impressione di brillare per  astuzia. 
Tutto questo all’inizio mi offendeva, adesso non più. Possibile che io stia vivendo solo adesso il passaggio dall’adolescenza alla maturità? Sì, forse è possibile per via di una serie di questioni che bla bla bla si conoscono bene, crisi, precariato e quant’altro. 

Lavoro con i soldi, conto i soldi e li do alla gente. Conto i soldi e li incasso. Ho tutti i giorni dei soldi in mano insomma, ma non sono miei. Sono dell’azienda, o dei clienti. Ho anche uno stipendio però, e questo mi fa sentire fortunata, felice.
Mi occupo di amministrazione, di servizio al pubblico e cose così.

Per me i soldi hanno un colore preciso, sono color bordeaux lucido. Quando ero piccola, mi ricordo un’enorme parete attrezzata con una cassettiera dove i miei tenevano tutte le pratiche, i conti, le multe, i documenti di ogni tipo, divisi per carpette e riconoscibili dalle etichette bianche. 
È stata sempre mia mamma ad occuparsi di quella cassettiera, a pulirla, a selezionare i documenti, a rovistare tra la polvere delle cose passate, pagelle, lettere, multe, passaporti, libretti di assegni. Subito sotto c’era il cassetto deputato alle fotografie, il mio preferito.
Per me i soldi erano una cosa lontana, una cosa di cui ho sempre sperato di non dovermi occupare, una cosa che mia madre gestiva bene e che non mi competeva affatto. Tutte quelle pratiche, riordinate con la cura di un bibliotecario, mi hanno sempre fatto paura, mi hanno sempre fatto credere che sarei rimasta lontana da quella vita cartacea fatta solo di numeri. L’ho sempre saputo, come una certezza che ti permette di scegliere l’esatto opposto di ciò che non tolleri. 
Ingenuamente, ho sempre sperato di delegare qualcun altro per svolgere questi compiti, ho sempre pensato, fin da piccola, che qualcuno si sarebbe preso la briga di farlo per me. E invece, vuoi per un fatto genetico, vuoi per il destino, vuoi per contrappasso, adesso io svolgo questo lavoro non solo per me, ma per tutti i cittadini di Torino e in potenza, per tutti gli italiani. 
Le persone delegano me e si sentono immediatamente sollevate, assolte da ogni obbligo, sono io che rispondo delle loro tasse, sono io che ci faccio attenzione, sono io che prendo in gestione le loro vite per dieci minuti e gli permetto di fregarsene dei loro doveri. Esattamente quello che pensavo avrei fatto io per il resto della mia vita, una vita burocratica e amministrativa diretta da altri, da una fantomatica signora dei soldi, infallibile.

La vita quindi ha preso una piega strana e soltanto da qualche giorno ho cominciato a pensare al mio futuro. 
Ho cercato di rovistare tra i cavi di queste vicende, di trovare una risposta a ciò che mi stava succedendo.
Mentre bevevo un caffè al bar vicino l’ufficio, una risposta, seppur non del tutto esaustiva, è arrivata davvero. Ho preso in mano un giornale e ho letto di un tipo che aveva il mio stesso cognome. Allora mi sono ricordata che al corso di web design finanziato dalla Regione Piemonte il mio insegnante mi aveva chiesto: ‘ma sei partente di Ardito?’. 
Quella mattina, dopo il caffè, appena entrata in ufficio, dopo le presentazioni, due dei miei colleghi mi avevano chiesto, di nuovo: ‘ma sei parente di Ardito?’. No, direi di no. 

Appena tornata a casa ho cercato su Google ‘diffusione del cognome Ardito’ e ho scoperto che a Torino ci sono 60 famiglie Ardito, a Palermo solo 9. 
A quanto pare c’è anche un Ardito direttore di un ufficio come quello in cui lavoro io. 
Un motivo quindi doveva pur esserci. Non è un caso che io sia finita qui, tra piste ciclabili e strade ghiacciate, tra regole ferree e conti pubblici, tra le maglie di quella che Bianciardi chiamava ‘vita agra’. 


Sono tornata in patria, ho pensato. È qui che vivono gli Ardito. Dirò ai miei di trasferirsi  qui perché evidentemente hanno più parenti qui che in tutta la Sicilia.
Forse è qui che gli Ardito finiscono per una legge divina, ignari fin dalla nascita che nella loro vita avranno come vanto la Mole piuttosto che il Palazzo dei Normanni. 
Eppure non riesco a perdonarmi di non essere rimasta lì, tra le palme e il traffico. Nonostante nella mia terra mi sia sempre sentita un’estranea, una pedina di passaggio, resta il rimpianto di non essere rimasta.
L’illuminazione derivante dal cognome - che ha assunto un significato tutto particolare da quando ho visto Lost - poteva essere una perfetta spiegazione di ciò che mi sta capitando, ritrovare i propri parenti, i propri simili, il proprio cognome in una città del nord, una città di fabbriche e rigore, una città quasi senza errori. Però ogni tanto questa certezza forzata, si smonta  in un istante. Forse il destino forse non c’entra nulla, è solo che i siciliani se ne vanno, se ne sono andati in passato e se ne andranno sempre dalla loro terra finché le cose non miglioreranno. Per questo motivo si trovano sempre pezzi di Sicilia qui al nord, per questo  motivo quando attraverso via Garibaldi non mi stupisco se sento parlare il mio dialetto, se vedo vecchietti che gesticolano come me, che parlano a voce alta come me.

Forse perché in Sicilia, l’unico modo per non rischiare di fallire sembra quello di scegliere di andarsene via.


mercoledì 9 ottobre 2013

Caff'ari, 10 ritratti del Borgo Vecchio



Il primo giorno di lavoro arrivai troppo presto. Mi ritrovai ad aspettare l’apertura dell’ufficio sotto al balcone di un’anziana signora. 
Questa signora amava i gatti.
Quella mattina, come tutte le mattine, la vecchietta si affacciò sul balcone, aprì una scatola di cibo per gatti e, senza guardare chi ci fosse sotto, face cadere il suo contenuto sul marciapiede. 
Mi prese in pieno.

Sono successe tante cose in quei tre mesi. Ho avuto il tempo e la prontezza di trascrivere qualche perla regalatami dai personaggi che gravitavano attorno al magico CAF del Borgo Vecchio.

1. 
“Signorina, ora gliela dico io la verità. La verità è che Berlusconi li ha rispettati i patti! Ci aveva promesso mari e monti. A mari ci sému tutti e a Monti nu rietti”.


2. 
“Mi serve il CUD relativo all’anno 2011”.
“Se vabbè, io nnu rumilaeunnici era ‘n carciri”.



3.
“Lei ha una casa di proprietà, bene. E sua moglie?”
“Mia moglie? Un avi ammìa?”


4. “Signori’, avissi a fari u comu si chiama... u caf”.



5. “Salve c’è Maria?”
“No, la mia collega è in riunione di gabinetto”
“Ma che significa?”
“É al cesso, signo’”.

6. “Quando s’è sposata sua figlia?”
“Cosa?”
“Quando s’è sposata sua figlia?”
“Non sento”
“QUANNU S’ACCOPPIÒ SO FIGGHIA???”


7. “Buongiorno, avissi a fari u sett’e mienzu!”


8. “Signora, come sta?”
“Non c’è male”
“E suo marito dov’è?”
“Me maritu?  Stamatina s’assittò nno gabinettu e s’addummisciu”.

sabato 1 giugno 2013

Dove trovare i fondi per il Comune di Palermo

A Firenze mi hanno multata perché sono passata col rosso. Giuro che il semaforo non l’avevo visto. Era coperto da un albero. 
Non voglio giustificarmi, so che ho sbagliato.
In fondo però Renzi e la sua amministrazione fanno bene. Gli automobilisti, fiorentini e non, sono accorti e rispettano le regole. E magari rispettare le regole diventa sempre più difficile, come in un gioco a livelli, perché i semafori sono coperti dagli alberi. 
Questo banale episodio mi ha fatto pensare a Palermo. L’amministrazione comunale ha un grosso vantaggio rispetto a quelle del resto d’Italia. Qui la nostra inciviltà garantisce un introito sicuro. Il comune potrebbe arricchirsi, potrebbe amministrare la città anche solo grazie alle multe. 
Forse multare chi non rispetta il codice della strada servirebbe sia a rendere i palermitani più civili sia a trovare un po’ di denaro per amministrare la città.

giovedì 11 aprile 2013

Concreat in concerto


Ho un sacco di sogni nella vita ma sono bloccato qui.
La sensazione è quella di essere bloccati in un presente che ci spegne, una lunga giornata sempre uguale, demotivante, un loop nervoso, un grido sordo che i Concreat esprimono attraverso una musica che ci riguarda tutti. 
Il pezzo si chiama Tea in the desert ed è un colloquio a tu per tu con sè stessi, un bilancio, un resoconto del loro periodo di assenza dal panorama musicale palermitano ma anche del periodo di impotenza che viviamo quotidianamente noi palermitani.
Manfredi, Riccardo, Marco e Gaetano sono bravi, hanno delle ottime idee e fanno buona musica.
Meritano la vostra presenza il 19 aprile, Teatro Gregotti, a Palermo, dalle 19 in poi. L’evento è la seconda edizione di Palermo suona
Il paradosso c'è, ed è sempre lo stesso; Palermo è una città che ci blocca e che nello stesso tempo ci dà la vita, è una città che non ci permette di scegliere, una città che si ama e che si protegge, in cui crediamo di poter vivere per sempre. A Palermo abbiamo smesso di ascoltare parole, di correggere  errori.
Se dobbiamo restare, abbiamo bisogno di buona musica. 


Per ascoltare il pezzo clicca qui





martedì 19 marzo 2013

"Il secondo tempo", dove sono finiti i palermitani del '92?


Vent’anni dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio, Il secondo tempo ci invita a riflettere su come è cambiata, dopo quei tragici eventi, la nostra città. Il docufilm di Piero Li Donni, giovane regista palermitano, mi ha emozionato perché mi ha costretta a pormi delle domande che non mi ponevo da anni.
Dove sono finite tutte quelle persone che scesero in piazza a protestare quando Palermo toccò il fondo? Dove sono quelli che dopo la morte di Falcone e Borsellino si indignarono  e protestarono, urlarono, si sgolarono, chiedendo una città diversa? Dove sono i ragazzi che nel ’92 avevano 8 anni (proprio come Piero)? Dove quei volti arrabbiati che volevano difendere a tutti i costi la propria città? 

Li Donni è un ragazzo palermitano che ha studiato e vive a Roma. E credo sia un paradosso interessante vivere a Roma ma non riuscire a vivere senza Palermo. Piero al liceo parlava sempre di Falcone e Borsellino. Tutti noi eravamo intrisi di cultura dell’antimafia, avevamo degli eroi dai quali prendere esempio, eroi che ci avevano spianato la strada. Piero al liceo era bravo, faceva il rappresentante e noi lo ascoltavamo. Tutti noi sapevamo bene chi a Palermo aveva ragione e chi no, sapevamo, dopo Falcone e Borsellino, cos’era la mafia e come sconfiggerla. Ma poi lo abbiamo dimenticato.
Dove sono quei ragazzi che rimasero impietriti quando Palermo saltò in aria? Molti di loro se ne sono andati. Piero se n’è andato, e anch’io me ne sono andata.
Ma avevamo un promemoria al momento della partenza e sapevamo cosa avremmo dovuto ricordare una volta fuori.
“L’orrore di quel momento - continuò il Re- non lo dimenticherò mai, mai!” 
“Sì, invece - disse la Regina - se non prenderai nota”. 
Così inizia il documentario, con una citazione molto significativa di Lewis Carrol.

Abbiamo preso nota, infatti. E quella città disgraziata che abbiamo lasciato, vorremmo cambiarla anche da lontano. Abbiamo deciso di spostarci per vedere le cose in modo più oggettivo, abbiamo dovuto capire cosa c’era di diverso nella nostra città rispetto alle altre, cosa volevamo migliorasse e come. Palermo l’abbiamo sempre messa al primo posto. Ce ne andiamo per tornare, noi.

La musica del film è parte di questa strategia del ricordo, dell’ammonimento. Una musica angosciante, forte e dolorosa, che ci costringe a rivivere il lutto. 
Come in un gioco di opposti, alla musica fanno da contraltare le immagini e i personaggi. I tre ragazzi palermitani che scandiscono i tre tempi del film - funzionali a circoscrivere la storia nel tempo e nello spazio contemporaneo - rappresentano infatti la perdita della memoria, sono ragazzi ignari della storia della nostra città, sono l’esempio di ciò che siamo diventati. All’interno della sala giochi i ragazzi sparano, l’occhio della telecamera entra dentro il mirino che inquadra l’autostrada distrutta del 23 maggio. Un’inquadratura  che urla: ‘ti ricordi’?

Il secondo tempo è denso di immagini metaforiche, colmo di volti che esprimono sentimenti contrastanti. Immagini e video d’archivio si alternano ad interviste e racconti del cantastorie palermitano Salvo Piparo, attore di una forza comunicativa impareggiabile. E proprio Salvo Piparo chiude il film con il racconto dell’attentato del 23 maggio. La tragedia è raccontata da una prospettiva diversa, quella di due uomini che viaggiano in automobile qualche centinaio di metri più avanti rispetto all’auto di Falcone. Il boato, la strada che esplode, le altre auto distrutte e, pochi minuti dopo, il silenzio. Poi ambulanza, polizia, serene spiegate e la sensazione di felicità per essere rimasti vivi. Come mai? Perché sono ancora vivi? Forse perché, racconta Salvo in un crescendo di parole, emozione e commozione, nella vita non avevano ‘parlato assai’. E si erano salvati. Invece quelli che erano morti avevano parlato troppo, e forse avevano pestato i piedi a qualche mafioso.
Come ci si può salvare? 
Per farlo bisogna sconfiggere il mafioso che c’è in ognuno di noi, dice un ragazzo palermitano intervistato in occasione del ventennale delle stragi. La mafia ha cambiato forma e aspetto in questi venti anni. Quella che non è mai cambiata è la cultura mafiosa che, volontariamente o involontariamente, ogni giorno, viviamo ed esprimiamo.

mercoledì 13 marzo 2013

Palermo, città di 'straregnati'



"Mia figlia è stata scaltra! Dopo il diploma ha fatto le valigie e se n'è andata. Fuori però! ”. 
Questa frase me la disse Giuseppe, un signore palermitano che era venuto al Centro di assistenza fiscale al Borgo vecchio. Stavo compilando il suo 730 e gli chiesi se aveva figli a carico. Domande di routine, in quel luogo, diventavano motivo di dissertazione approfondita su vari temi. Primo tra tutti il lavoro.



Quell’uomo, così ingenuo nel modo di esprimersi, mi aveva fatto riflettere. Parlava della figlia come una figura lontana nel tempo e nello spazio, come un frutto lasciato a maturare fuori dal frigo anche se in frigo non c’è nulla da mangiare. Una figlia che era diventata l’orgoglio della famiglia, che aveva deciso di emigrare da Palermo per aiutare economicamente i suoi genitori. Mi era venuto in mente un racconto di Sciascia che avevo letto qualche mese prima, un racconto intitolato ‘L’esame’ e inserito nella raccolta di racconti Il mare colore del vino, pubblicata per la prima volta nel 1973. La vita di Giuseppe aveva gli stessi ingredienti del racconto di Sciascia, la delusione, la rabbia, la rassegnazione, l’impotenza. 
Palermo che vomita ventenni e trentenni al nord o all’estero perché di loro non ha bisogno, la fatica dei genitori nell’accettare e supportare la scelta, la morte dei legami amorosi o la difficoltà nel tenerli in vita, l’inserimento nel tessuto sociale del nuovo territorio e la scoperta, volenti o nolenti, di nuove realtà. 

Se dovessi identificare Palermo con un luogo, sceglierei l’aeroporto. È in aeroporto che la simbolica generazione di una crisi senza tempo si concentra e si saluta, si bacia, si anima in abbracci in partenza e in arrivo, è in aeroporto che si sente prima di tutto la nostalgia della propria terra, della propria città. Ultima boccata d’aria, si respira il mare a pieni polmoni, ultimo cannolo, e poi si parte. 

Il racconto di Sciascia parla di emigrazione, nel senso più contemporaneo del termine. Uno svizzero si reca in Sicilia per reclutare manodopera femminile per una fabbrica di prodotti elettrici. Si chiama Blaser ed è un uomo indifferente a tutto. Sciascia lo definisce ‘il soffiatore’ perché sbuffa di continuo, annoiato dalle parole del suo sicilianissimo autista, considerato semplicemente un pezzo dell’auto, che dispensa consigli sul reclutamento delle ragazze e mette una buona parola sull’una o sull’altra, in base alle richieste ricevute dai membri dei paesini siciliani visitati. Un giorno Blaser ed il suo autista si recano in un paesino dell’entroterra di cui Sciascia non fa il nome. Il paesino di V. è un paese di mafia. All’autista si avvicina un giovane timido e impacciato, chiedendogli un favore. L’autista è visibilmente nervoso. La fidanzata del giovane deve sostenere l’esame per il reclutamento in fabbrica ma lui non vuole che parta. La ama, e vorrebbe sposarla, ma non ha un lavoro e quindi non può permettersi di chiederne la mano ai genitori. Prega l’autista di convincere Blaser a non sceglierla. Rosalia Calaciura deve restare in paese.
L’autista cerca di spiegare al giovane che non sarà lui a decidere ma, data l’insistenza del ragazzo, dice che farà il possibile perché non venga scelta da Blaser. 

“Sa cos’è la mafia?”chiede l’autista a Blaser.
“Me ne infischio” risponde il signor Blaser. 
“Rifletti prima di dire me ne infischio. Tra l’infischiarsene e il non infiaschiarsene c’è la differenza tra il morire e il campare”.
Aveva spiegato la situazione al signor Blaser e l’aveva pregato di non scegliere l’unica candidata intoccabile, Rosalia Calaciura, per non dar dispiacere al ragazzo.

La selezione si svolge all’interno di una chiesa, in presenza dei parenti delle ragazze e dell’arciprete.
La paura di andar via, nel racconto di Sciascia, come nella realtà, è dettata dalla difficoltà incontrata per ambientarsi in un altro luogo. Il siciliano ha un legame viscerale con la sua terra e quello che dovrebbe essere un diritto, ovvero poter scegliere di rimanere, si converte in un dovere, una partenza forzata, svuotata di affetti e luoghi e popolata di facce nordiche tristi e bianche, di volti vuoti e gelidi. 
Come dire che il siciliano ha una sola madre e fa di tutto per restarvi accanto. 
La storia di Blaser e Rosalia Calaciura mi ha fatto pensare al signor Giuseppe, mi ha risvegliato il ricordo a mosaico del suo volto: occhi fuori dalle orbite, labbra spalancate, denti marci e voce ossessiva, mi ha riportato al ricordo di sua figlia costretta a partire, al ricordo della sua pena, del suo dolore, del rammarico per non aver avuto la possibilità economica di farla rimanere accanto a lui.
Rosalia Calaciura ama il suo ragazzo, eppure, per aiutare economicamente la sua famiglia, è costretta a partire. Vuole partire e farsi una dote, per poi tornare e sposarsi. La madre di Rosalia dice all’arciprete che il suo fidanzato è un disoccupato, un perdigiorno, ma la ragazza obietta che non è un perdigiorno, semplicemente non trova lavoro. La madre convince Blaser a portare in Svizzera la figlia, per ricevere quei quattro soldi che lei le manderà. 
Il ragazzo dovrà lasciar perdere, dovrà lasciarla andare.
“Se davvero tu le vuoi bene, lasciala andare... Tornerà, è una ragazza tenace, tornerà... E vi sposerete.
“Se io trovassi lavoro...” disse il giovane.
“Lo troverai. Con tutta la gente che se ne va, il lavoro a chi resta non dovrebbe mancare”
“Il problema è  che più gente se ne va, più il paese diventa povero [...] Non è come quando si sta seduti in molti su una panca, stretti, stretti, pigiati: che uno si alza e gli altri tirano respiro e si mettono più comodi... Qui nessuno è seduto: e chi se ne va, gli altri nemmeno se ne accorgono; o si accorgono solo che il paese si va facendo vuoto”. 

Non si lotta per il lavoro in Sicilia. Sulla panca sono seduti in pochi, tutti gli altri sono in piedi, senza un lavoro. Si lotta per restare, in Sicilia. Si lotta per il diritto di rimanere in quella piazza, anche in piedi. Chi va via, lo fa sempre per necessità, qui da noi. E Palermo, durante l’anno, si riempie di persone che provengono dai paesi e di studenti universitari, ma si svuota dei suoi cittadini autoctoni, e li riversa per il mondo. 
Le mamme palermitane, al telefono, affrontano discorsi che suonano pieni di emozione:
“Tua figlia è tornata?”
“Sì, finalmente”.
“Anche mio figlio è tornato”.
Torniamo tutti, con un mare di storie da raccontare.
E anche noi, come il personaggio descritto da Sciascia, ci troviamo a fare conversazioni come queste:
[...] “Ma perché non te ne vai in Svizzera anche tu? In Svizzera, in Germania... La Germania è a due passi dalla Svizzera”.
“Ci sono già stato in Germania, per tre mesi. Ma io dico: l’uomo non è un cane... Può starsene straregnato, in un paese non suo, a soffrire perché tutto questo gli manca” accennò alla chiesa, alla piazza intorno, al cielo che si struggeva nell’oro del tramonto “ma il diritto non deve levarglielo nessuno [...] Io voglio dire il diritto di essere [...] qui, che io e lei siamo uguali, e parliamo... Con loro invece è diverso: non ci vedono, ecco, non ci vedono”.
Essere straregnati, ovvero non poter ritornare nel proprio regno. Non poter tornare quando si vuole, non poter godere del proprio paese e della propria città. Ed essere invisibili. Non ci vedono, dice il ragazzo. E non essere visti è una cosa terribile, è come non esistere.
Questo essere straregnati e questo sentirsi invisibili è ancora vero, è una sensazione antica che Sciascia conosceva almeno quanto la conosciamo noi.


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