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mercoledì 13 novembre 2024

Paura nelle città

 

La mia amica che vive a Barcellona mi ha mandato un messaggio stanotte. Si trovava sulla metro, erano le 11 di sera,  e alla sua stessa fermata, in un quartiere periferico, è sceso un ragazzo trans che ha cominciato a camminare a passo svelto controllando di tanto in tanto che qualcuno lo seguisse. Esprimeva paura, angoscia, disagio. 

La paura è un’emozione che accomuna chiunque. Daniela sostiene che un transgender ha più paura perché vive una condizione di forte ansia sociale più di chiunque altro. Forse è vero ma la paura è un’emozione da sempre legata al contesto sociale, è diversa se ti trovi in un paesino con pochi abitanti o una metropoli. 

Cosa c’è quindi di strano? Cos’è che ha colpito così tanto Daniela? Quella stessa paura la provava anche lei quando tornava sola a casa a Palermo di notte, quando era una ragazzina fuorisede iscritta all’università. 

Forse la domanda giusta da porsi è: come sono cambiate le città negli ultimi 50 anni?

Cosa è cambiato a livello urbanistico e perché abbiamo tanta paura di essere aggrediti?

Leggendo il libro Fiducia e paura nelle città di Bauman, mi sono resa conto di quanto la verticalizzazione del tessuto sociale, che divide i ricchi (sempre più ricchi) dai poveri (sempre più poveri) abbia determinato una riqualificazione notevole dei quartieri centrali. Ovunque tu vada, nei centri delle grandi città, si assiste alla nascita continua di  opere di ristrutturazione di qualsiasi tipo, con investimenti urbanistici importanti e impalcature a ricordarne il progetto. Dall’altra parte si assiste invece un’impoverimento urbanistico, nonché degrado, di quei quartieri periferici che ospitano i meno abbienti. L’abbandono di una parte di città per dare risalto ad un’altra parte, quella di facciata, ha inaugurato quella che viene definita da Bauman la ‘politica della paura’. E la paura, nella politica di una città è la base perfetta per il controllo e la repressione, è il meccanismo che genera una maniacale ossessione per la sicurezza in tutti i cittadini.

Rispetto al 2004 (anno di pubblicazione del testo di Bauman), mi sembra che qualcosa sia cambiato. L’ossessione per la sicurezza, madre di una xenofobia che si manifesta nell’odio, nell’insofferenza totale verso lo straniero, ha generato una totale mancanza di accettazione di tutto ciò che è ‘altro’, diverso, invisibile agli occhi dei ‘cittadini di prima fila’. Prima erano migranti, poi stranieri, poi trans, donne, infine gente comune. Adesso tutti siamo coinvolti e questa verticalizzazione di cui parla Bauman non esiste quasi più. Anche nei centri, per motivi diversi forse da quelli del passato, ci sentiamo minacciati da costanti pericoli invisibili che però sembrano essere dietro l’angolo.

I luoghi (che si differenziano dagli ‘spazi’, resi anonimi e quindi vuoti di un vissuto esperienziale), vengono sottoposti alla logica della vigilanza continua come a ricordarci che il pericolo c’è sempre e va avvertito. Lo ‘spazio scabroso’, come lo chiama l’architetto americano Steven Flusty è quello che non può essere comodamente occupato o vissuto per via dell’assenza totale di panchine nei luoghi pubblici come le stazioni o dei bordi inclinati che impediscono di sedersi. Questo è un modo per evitare lo stazionamento di barboni, tossici o altre persone socialmente inaccettate per non trasformare i luoghi pubblici in zone di bivacco. Quel bivacco che a parer mio è fondamento di inclusione e di formazione di identità di un luogo. Se i balconi hanno delle ringhiere, è perché sono pericolosi e un bambino deve saperlo in modo tale da non sporgersi troppo ma se muro le finestre per evitare che il bambino si affacci al balcone o si infili tra le sbarre della ringhiera, non gli darò più la possibilità di guardare fuori. Questo è quello che è successo nelle città negli ultimi 40 o 50 anni. L’eccessiva sorveglianza anche in termini urbanistici ha creato un modello di paura che suggerisce di non stazionare nei luoghi, soprattutto nelle ore notturne.

Cosa crea questa rivoluzione urbanistica? La disintegrazione della vita comunitaria di una città.

E cosa succede quando la comunità intera, centro e periferia, è invitata a non riunirsi in nome di un’uniformità di uno spazio sociale?

Succede che la città diventa davvero pericolosa.

L’invito a rimanere a casa, per favorire una sicurezza sociale, non è altro che quello che abbiamo vissuto durante il Covid. Cosa hanno fatto i cittadini durante il Covid? Si sono chiusi nelle loro case e hanno creato una vita votata alla difesa che gli consentisse di sopravvivere anche in mancanza dell’ ‘altro’.

Tutto ciò ha potenziato le relazioni digitali, ha accelerato di decenni la naturale avanzata tecnologica che permette di vivere in una bolla chiusa, pensando di avere tutto a portata di mano, che ha esautorato ogni luogo di comunità fisico all’interno di una città. L’uniformità dello spazio sociale, caratterizzata dall’isolamento spaziale, ha generato un’ancora minore accettazione delle differenze sociali, ha creato l’immagine di città inclini al pericolo e meno sicure.

In questo contesto, paradossalmente, il digital divide, ovvero il divario tra la popolazione meno digitalizzata e quella più digitalizzata, meccanismo ancora discriminatorio nei confronti delle classi meno abbienti, ha favorito la spinta verso isole di identità e somiglianza in quella popolazione esclusa dalla tecnologia. Il vantaggio diretto è stato dato dalla possibilità di aggregazione che ha condotto ad un isolamento all’interno dello spazio urbano ma anche una riappropriazione di luoghi incontaminati dalla sorveglianza.

Lo spazio urbano, prima luogo di condivisione e costruzione di identità, diventa così per i poveri una roccaforte per la sopravvivenza di un senso identitario comune, in cui le differenze ne costituiscono la ricchezza e diventano l’alternativa vincente per non cedere alla politica della paura.

Cosa dovremmo fare dunque per non avere più paura? Forse iniziare a ‘contaminare’ i centri, condividere in massa lo spazio urbano, ricominciare a mescolare lingue e culture negli spazi centrali e periferici, riappropriandoci delle voci identitarie che da sempre sono la base di una democrazia. Tutto ciò servirà ad evitare che la paura diventi un meccanismo di marketing gestito dalla politica o dalle grandi multinazionali e favorire la difesa naturale dell’essere umano capace e fiero di vivere in società.



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