giovedì 3 settembre 2015

Prova lo xanax, dico io

Ho aspettato tre ore alla stazione prima di prendere il treno, pensavo ce ne fosse uno ogni ora e invece i treni per Cefalù d’estate vengono dimezzati. Non c’è nulla di male, a noi i turisti stanno sul cazzo. Sbuffano, si lamentano, guardano inorriditi il tabellone con gli orari e poi se ne vanno, e chissà dove vanno. Io so che il viaggio varrà l’attesa, perché il treno per Cefalù ad un certo punto diventa una barca. Il mare è lì, dietro il finestrino, basta tirarlo giù e fare un tuffo, lì dopo Trabia il treno diventa barca e quello è il premio per l’attesa, ma loro non possono saperlo. 

Sono stata a casa di un mio amico che vive in paese con i genitori, mi hanno ospitato per tre giorni nonostante in casa non ci fosse acqua. Hai capito come si ragiona qui? 
Grazia mi chiede un parere sul vestito del battesimo, sulla collana e gli orecchini, le scarpe e la borsa. Mi ha anche chiesto se il trucco color tortora secondo me potesse andar bene. Grazia sa come farti sentire importante. Mi ha preparato la colazione e mi ha impedito di fare il caffè, mi ha impedito di sparecchiare o lavare i piatti. Mi ha accompagnato alla stazione e mi ha raccontato che vorrebbe che suo figlio rimanesse in Italia, lo spera davvero e mi chiede di darle una mano a convincerlo. ‘Ci proverò’, le dico. 
Qui c’è il mare, il mare che osserva tutti i tuoi gesti, che ti tiene fermo. E Grazia ed Enzo non fanno altro che dirmi ‘hai visto che bel panorama che si vede da qui?’, e che bella temperatura, e il vento leggero e il profumo dei calzoni appena sfornati o delle melanzane fritte di prima mattina, il piacere di scambiare due parole, di parlare in modo spontaneo, in canottiera, con gli occhi ancora chiusi dal sonno.
Mia madre stamattina piangeva, e io non sapevo cosa dirle, non sapevo cosa fare, noi siamo qui nello stesso posto, nello stesso limbo tra il mare e il sole ed è lì che io vivo, vivo in Sicilia, abito solo in un posto diverso. Ma questo non so come spiegarglielo. Non so come spiegarle che per adesso deve accontentarsi di cullare i bambini di mia cugina e che la nostra società è un enorme rogo di passeggini, in pochi possono permettersi di avere figli adesso, e la natura, la natura dice che i figli si fanno dai 20 ai 30 anni e quindi ciao.

La voce della vicina la sentiamo bene da qui perché i muri sono sottili. Dice a sua figlia di stare tranquilla, che a Milano alla fine si sta bene, che qui non avrebbe saputo cosa fare, gli attacchi di panico prima o poi saranno solo un brutto ricordo, non c’è nulla di cui preoccuparsi, davvero. C’è sempre lo xanax, dico io.

Ti ricordi quando eravamo alla Sapienza e mi dicevi di non guardare mai la Minerva negli occhi? Dicevi che portava male e non mi sarei mai laureata, ti ricordi? Ci siamo passate sotto centinaia di volte eppure non abbiamo mai guardato il volto di quella statua. 
Siamo state a Palermo per tanti anni e non l’abbiamo mai guardata davvero, non ci siamo mai accorte, se non dopo anni, che la nostra città era ferma al Dopoguerra, che camminare tra le rovine della Vucciria non era una cosa poi tanto normale. I palazzi crollavano, piazza Garraffaello era una discoteca a cielo aperto e i residenti si lamentavano, la mozzarella a Ballarò era verde e il paninaro si soffiava il naso prima di tagliare a metà il panino, le blatte volanti ci si posavano addosso e il parcheggio non si trovava manco per il cazzo. Quant’era bella Palermo? Puzzava da fare schifo, al foro italico c’erano le puttane e le giostre, il mare era solo una lingua di spiaggia a Mondello, il mare non lo vedevamo mai, solo gli stronzi con i villini all’Addaura potevano farsi un bel bagno, indisturbati, soli. 
Perché ci manca così tanto? Non è cambiato nulla negli anni, quando si tornava a casa alle quattro di mattina sbronzi, a piedi nudi, come faceva Remi, e non ti poteva accadere nulla. 
Tra la nostra e tutte le altre città c’è uno scarto enorme, un abisso culturale immenso e quell’ambiente familiare, socialmente inaccettabile, non lo ritroviamo e non lo ritroveremo mai in nessun altro posto. 

Lo sai quanta vita ho grazie alla mia città? Lo sai quanta energia ho? Ma non riesco a convivere con quel senso civico che serve qui a Torino, avrei bisogno di un po’ di macerie, di un po’ di anarchia, di un po’ di sud.


lunedì 27 luglio 2015

"Ciao Marx, Ciao Kafka. Ciao sogni di uguaglianza e di fratellanza". Ciao Sebastiano Vassalli

La scrittura di Sebastiano Vassalli, uno dei più grandi interpreti contemporanei della crisi nichilistica, è caratterizzata da una potente ambiguità, da un realismo feroce e disincantato.
Ho avuto il piacere di conoscerlo il 28 maggio del 2008, ad un incontro organizzato dall'Università degli Studi di Palermo, e di rivolgergli alcune domande (alcune davvero ingenue) per il mio lavoro di tesi. 
In occasione della sua morte riporto l'intervista che mi concesse in esclusiva, in memoria di uno dei migliori scrittori e narratori del nostro tempo.

D. I mezzi di comunicazione di massa che inducono all'emulazione e all'alienazione, l'anestesia dei sensi e dei sentimenti che questi hanno provocato, sono temi a lei cari. Pasolini proponeva provocatoriamente l'abolizione della televisione. Lei pensa che occultare determinate notizie, penso per esempio ai telegiornali e alla cronaca nera, possa essere un valido strumento di risanamento della nostra civiltà?
R. Se si abolisse la televisione non si abolirebbe proprio nulla perché un certo tipo di comportamenti devianti, aberranti, prevaricatori ci sono sempre stati. Però nella sua domanda c’è un dato oggettivo, un riscontro oggettivo. In effetti l’essere umano, che ha tante qualità e tante doti, per esempio quella dell’intelligenza, ma in definitiva per certi aspetti è sostanzialmente stupido, ecco. C’è questa tendenza forte, e chi come me ha passato la vita a raccontare le storie degli uomini lo sa bene, a ripetersi, a imitarsi. 
Nella mia vita ricordo anni in cui si verificavano certe strane epidemie. C’è stato un periodo, forse quindici anni fa, in cui c’erano i suicidi nelle caserme. Effettivamente smorzando la gran cassa mediatica, tenendo le notizie un po’ sotto tono si è riusciti a tenere a bada il problema. Più se ne parla peggio è. Ma, diciamocelo pure, se anche non ci fosse l’emulazione portata dai mezzi di comunicazione di massa, il mondo non è che andrebbe molto diversamente. Vero è che tante cose che si fanno, si fanno perché gli altri le sanno. Ecco, adesso in maniera molto indiretta abbiamo toccato una delle ragioni profonde della letteratura. Una delle ragioni profonde della letteratura, se non forse proprio la ragione profonda, dai tempi di Omero, è questa: che gli uomini vogliono che ciò che fanno, nel bene e nel male, sia saputo, sia conosciuto. E se non ci fosse questa possibilità di tramandare, di far  conoscere, io credo che il mondo sarebbe fermo. Gran parte di ciò che noi chiamiamo progresso, le invenzioni, gli eroismi, chi li avrebbe fatti? Immagina un mondo dove nessuno non sa nulla, dove non si tramanda la memoria di ciò che avviene. La letteratura è l’arte del racconto, è un’arte antichissima e che non morirà mai. Secondo me fin quando ci saranno nel mondo gli uomini, ci sarà chi vorrà raccontare una storia e chi vorrà ascoltarla, perché ne ha bisogno. L’essere umano, privato di questo rapporto con gli altri, si inaridirebbe. 
Prendiamo per esempio un grande romanzo della letteratura inglese, che è Robinson Crusoe. È un romanzo bellissimo ma è basato su uno spunto irreale, anche se poi mi hanno detto che si riferisce ad un fatto effettivamente accaduto. Lo spunto ideale nella letteratura è bellissimo, ma nella realtà non starebbe in piedi. Alla fine un uomo, nelle condizioni di Robinson Crusoe si ridurrebbe ad un livello di pura sopravvivenza, e non avrebbe più stimoli di alcun genere.
I mezzi di comunicazione di massa non fanno altro che amplificare ciò che comunque è sempre avvenuto e sempre avverrà. Creano anche dei fenomeni di emulazione, che però di per sé non cambiano la realtà.

D. Sarcasmo, paradosso e disillusione sembrano le direttrici principali del suo testo La morte di Marx, in cui racconta il disagio della nostra società, in cui i personaggi  appaiono grotteschi e la civiltà senza alcuna speranza. Si sente estraneo questa umanità 'mutata' che la circonda? 
R. Se mi sentissi estraneo sarei matto. Realmente il limite delle nostre storie è il limite dell’umano. Una cosa che mi ha insegnato questo mestiere è che le storie umane sono solo apparentemente molto complesse, in realtà sono semplicissime. 
Punti di riferimento certi ce ne sono due o tre: il primo è che si nasce, il secondo è che si muore, il terzo è che si impiega la maggior parte del tempo che intercorre tra queste due date a infastidirci tra di noi. Questa è la sintesi di tutte le storie umane. 
Mi è capitato di inventare un racconto più o meno paradossale per il Corriere della Sera, in occasione del Natale. Mi chiedevano di scrivere cosa avrebbe dovuto regalarci secondo me il Bambin Gesù o Babbo Natale. Io scrissi nel racconto che Gesù avrebbe dovuto regalarci un nemico abbastanza temibile per tenerci in riga, che ci avesse costretti a fare i conti con le nostre umane debolezze e ci avesse fatto riflettere sul fatto che è inutile che stiamo a scannarci tra di noi perché c’è sempre il nemico in agguato; oppure ci avesse esortati ad amministrare un po’ meglio le risorse del nostro piccolo pianeta, perché un giorno dovremo rendere conto di tutto. 
Certamente mi sento parte di questa comunità, ma non ne sono felice. Come diceva Voltaire, “soltanto un perfetto cretino può essere felice a questo mondo”. 

D. Ne La morte di Marx e L’Italiano si parla del presente, della società contemporanea e del carattere degli italiani. Oltre ai temi, rispetto ai testi precedenti, cambia anche la struttura compositiva. Perché abbandona la struttura romanzesca e adotta quella del racconto? Che valore ha questa struttura?
R. L’Italiano voleva riflettere la realtà del nostro carattere nazionale. Anche se ci piace raccontare che noi non ce l’abbiamo un carattere nazionale, la realtà abbastanza tragicomica è che ce l’abbiamo, e come!, un carattere nazionale. Io ho cercato di raccontarlo attraverso alcuni episodi che a me sembravano particolarmente illuminanti. Sia nell’Italiano che ne La morte di Marx la struttura del racconto era determinata dalla realtà. Il romanzo nell’Ottocento racconta una realtà in sé completa, nasce come specchio del mondo. Io ho creduto, e in parte ancora credo, che la realtà di oggi sia così frantumata che non si presta ad essere riflessa in un unico disegno. Se la realtà è frantumata anche l’immagine che ne viene fuori deve essere per forza frantumata anche se poi i vari frammenti dello specchio alla fine ci daranno un’immagine che è quella complessiva.

D. “È l’odio puro, disincantato, astratto, disinteressato quello che muove l’universo e che sopravvive a tutto”. Vede l’odio come motore del mondo, insomma. Mi chiedo se in mezzo a questo frastuono umano, in mezzo a questo infastidirci a vicenda lei intravede anche solo un barlume di speranza per questa umanità che racconta.
R. Negli anni Settanta conoscevo uno scrittore di origini inglesi nato in Argentina. Si chiamava Rodolfo Wilcock, viveva a Roma ed era uno stranissimo personaggio. Una volta si parlava dei sentimenti umani in rapporto alla letteratura e Wilcock mi disse: “guarda, l’amore e l’amicizia sono cose che vanno e vengono. Ma se tu hai qualcuno che ti odia non sei mai solo”. Io all’epoca avevo vent’anni.
Il pensare che il più forte dei sentimenti umani sia l’odio non mi viene solo da Wilcock. Mi viene da tutta una riflessione sulla realtà che però va un po’ spiegata e addolcita. La parola odio impressiona. L’odio è un sentimento che ha un’infinità di componenti, e non tutte negative. Comprende anche la competizione tra gli esseri umani, il voler essere di più e meglio rispetto alle persone con cui si vive. Comprende anche quelle cose che muovono il mondo anche in senso positivo. Se gli uomini si volessero bene e basta, sarebbero ancora lì che saltano da un ramo all’altro. Non ci sarebbero più storie. Io dovrei cambiare mestiere perché sarebbero finite le storie. Sarebbe finito tutto, non si muoverebbe più niente. Questa parolina di quattro lettere include al suo interno più livelli di significato, comprende le rivalità, lo sport, il voler essere più avanti nella ricerca scientifica, il voler ottenere dei riconoscimenti. Tutto ciò nasce da un perenne stato di rivalità tra gli esseri umani che poi muove tutte le nostre storie. Questo ce l’ha insegnato la Bibbia e ce l’ha insegnato Freud, l’atteggiamento dominante nel mondo non è l’amore, è l’odio.
Una volta mi invitarono a Ferrara in un liceo - non mi ricordo se fosse classico o scientifico - e, durante l'incontro con gli studenti, il preside insorse e disse “non possiamo comunicare ai giovani dei messaggi così negativi”. Io dissi: “io cerco di non essere né positivo né negativo. L’orizzonte è il realismo. Io sono uno scrittore, uno che racconta storie. Non ho soluzioni di nessun genere, né le cerco. E nemmeno posso prendermi il lusso di parteggiare per una cosa o per l’altra. La grandezza di uno scrittore è quella di non calarsi dentro ciò che racconta, ma di calarci gli altri. Omero non teneva né per Ettore né per Achille però, ancora oggi, se un’insegnante in una scuola media fa leggere Omero ai ragazzini, loro si divideranno in coloro che tengono per Ettore e quelli che tengono per Achille. Questa è la grandezza della letteratura. Bisogna raccontare quel mondo tenendosene fuori, anche se a volte sarebbe più gratificante e porterebbe più quattrini raccontarlo come gli altri vorrebbero che fosse. Io dipingo quello che vedo. Diffidate di chi vi trasmette messaggi. Non è compito dello scrittore. Trai tu le conseguenze che vorrai, parteggia per Ettore o per Achille. L’importante è che non sia io a dirti dove devi andare. È del tutto irrilevante cosa penso o quali speranze vedo o quali disperazioni ho. Anche il povero Leopardi trascorse una vita a cercare di spiegare che questo rapporto uomo-natura come lui lo rappresentava non dipendeva dalle sue infelicità personali ma da una visione filosofica. Anche Leopardi cercava di distinguere assolutamente il proprio stato personale dalla rappresentazione oggettiva che riguardava tutti gli uomini. Io non ho assolutamente nessun messaggio da comunicare. Io mi calo dentro certi temi perché cerco di capirli meglio. La letteratura è questo tentativo che si prolunga nei secoli e nei temi di dare dei barlumi di significato.

D. Lei ha detto di voler solo registrare il reale, mentre secondo me nella sua scrittura c’è un giudizio molto forte, anzi la sua scrittura mi pare pervasa da una sorta di moralismo inquieto che si traduce in una distinzione manichea tra bene e male. Leggendo molti suoi romanzi mi sembra che ci sia una netta opposizione tra personaggi positivi e personaggi negativi, come i mafiosi de Il cigno che vengono descritti in maniera grottesca, trattati anche con un risentimento irridente ma comunque feroce. Lei, in un’intervista, accusa di omertà gli scrittori siciliani. E leggendo le sue opere capisco da cosa possa nascere questa convinzione perché, nelle sue opere, la distinzione tra bene e male è netta. Invece spesso nelle opere degli scrittori siciliani, nelle opere per esempio di Pirandello o di Sciascia si vuole indagare piuttosto sulla complessità di una 'zona grigia' che ospita dei contatti fatali tra bene e male. La mafia spesso vive in questa 'zona grigia', quindi questo sguardo degli scrittori siciliani, secondo me, è uno sguardo che indaga la complessità, una complessità che, se non si conosce a fondo, spesso non si può giudicare. Volevo chiederle se ha ridefinito la sua opinione su I vecchi e i giovani di Pirandello, in cui peraltro compaiono anche attacchi al mal costume dei siciliani e a certi comportamenti, che emergono dai discorsi di Caterina Laurentano; e poi, se effettivamente questa dicotomia tra bene e male che io scorgo nelle sue opere sia un metodo conoscitivo e una scelta morale.
R. Ha ragione, nel senso che fino a qualche anno fa ero più fanatico, ero più portato a dividere il mondo in luci ed ombre, in bianco e nero. Per quanto riguarda I vecchi e i giovani di Pirandello credo sia un romanzo che venga letto meno di quanto meriti. Contiene un bel pezzo di storia siciliana e italiana in generale. Questo Maurizio Mortara che assiste allo sfacelo di una certa società politica italiana rimpiangendo l’onorata società e la dimensione rurale del suo paesello. Questo sarà portato ai massimi livelli da Sciascia ne Il giorno della civetta.

D. In Archeologia del presente il narratore dice: “Io sono un fanatico dell’Aspirina. Questi dischetti bianchi sono una delle poche certezze che ci ha dato questo nostro secolo. L’utopia socialista è crollata, la fede nel progresso è crollata, ma l’Aspirina, per la mia generazione, è un punto di riferimento incrollabile, e non mi deluderà mai. Se non credo nell’Aspirina, in cosa posso credere?”. Vorrei sapere in cosa crede oggi Sebastiano Vassalli.
R. Perché lo vuole sapere? A cosa le serve? Come ho scritto nel libro, il principio attivo dell’Aspirina, contenuto nella corteccia dei salici e in alcune erbe dell’ambiente palustre, era già noto ad Ippocrate e alla medicina greca antica. Sì, credo ancora nell’Aspirina.








martedì 21 luglio 2015

Raccontami dei tempi di piazza Magione

‘Scrivi di piazza Magione’ mi hai chiesto, ‘ricordami com’ero, ricordami come eravamo’. Dici che è stato uno dei periodi più felici della tua vita. Certo che te lo ricordo, e soprattutto cazzo, non siamo mica morte, c’è sempre tempo per ritornare così belle come eravamo e ti assicuro che vivere ancora lì, in quella piazza, e provare quelle sensazioni, si può.

Venivo a prenderti con la mia Cinquecento blu, la magica Brigitte. E ti trovavo sempre avvolta in quelle pareti bianche, vuote e squallide, nemmeno un poster, solo collage demenziali e qualche ritaglio di giornale a formare immagini e frasi nonsense. Il senso estetico che caratterizza la nostra civiltà non ti appartiene, non ti è mai andato a genio, sei sempre stata un po’ sui generis e per me all’inizio eri incomprensibile. Appesa alle pareti bianche tenevi anche una gamba di plastica, una di quelle gambe che si usavano nelle mercerie per esporre le calze. All’occorrenza prendevi la sedia, la tiravi giù e la suonavi. Dicevi ‘aspe’, tu canti e io ti accompagno con la gamba’. Hai sempre avuto un senso del ritmo invidiabile e abbiamo anche scritto una canzone insieme, che chissà come faceva. 

Allora c’era questa casa di corso Tukory e tu portavi un basco che non raccoglieva nemmeno tutti i capelli, tanto erano ricci e per i cazzi loro. Portavi degli occhialetti da brava ragazza e vestiti demodè, avevi abiti di cent’anni fa raccattati da parenti vari e roba sempre larga, non ti  truccavi e d’estate le lentiggini ti illuminavano il viso. Le gambe secche e una forza inumana, la ferocia di chi vuole prendersi tutto e tutti, il sorriso sempre in mostra, davvero, per chiunque. 
Il portiere, Filippo, ci provava con te e Bimbo. Lo chiamavate per uccidere gli scarafaggi. Non ti faceva paura niente ma appena vedevi uno scarafaggio diventavi cretina e dovevi chiamare il portiere. Sei diventata amica del tuo dentista (da quando ti è caduto un dente mentre mangiavi la pastina) e vi sentivate tutti i giorni. Il dentista per me era vecchio e non capivo come potessi aver raggiunto quel grado di confidenza con lui, tanto da incontrarlo al bar per un caffè o una birra. 
Noi studiavamo, e studiavamo cose diverse. A me piaceva quello che studiavi tu e a te piaceva la letteratura. Io ho imparato due o tre parole in arabo e in inglese e tu hai scoperto chi erano Pasolini e la Fallaci, e poi abbiamo studiato storia dell’arte contemporanea, una materia in comune finalmente, ed è stato bellissimo. La passione per la letteratura e per l’arte ci ha travolte per un bel po’ e passavamo interi pomeriggi a dipingere le pareti della tua stanza. Abbiamo impiegato quasi tre giorni a pulire quando la proprietaria ha visto come le avevamo ridotte e si è incazzata a morte. 

Fumavi già tantissimo ed eri sempre fusa. Andavi a ‘fare la storia’ anche da sola e mi ricordo che i tuoi amici coraggiosi gelesi ti mandavano sola a comprare il fumo, in via Castro, con quella faccia d’angelo che ti ritrovavi, quelle gambette secche e quell’esperienza da tossica emancipata.
La sera andavamo sempre a piazza Magione e lì ogni sera conoscevamo un sacco di gente, da Sandokan a Nicola, agli americani che ci hanno fatto ubriacare di whisky e cola, facevamo amicizia con tutti, cantavamo Mina e ce ne fottevamo dei residenti, la gente si avvicinava e si sedeva a cantare con noi e non avevamo nemmeno una chitarra, cantavamo a squarciagola, senza un minimo di pudore, nel mezzo della piazza che noi, io e te, per prime avevamo scoperto e sfruttato per i nostri esperimenti vocali. 
Eravamo sempre io tu e Bimbo, a bere Forst da 66 a 1 euro e mezzo, sul prato, buttate per terra, con gli insetti che si infilavano sotto la gonna e i cani che a volte ci scambiavano per alberi e ci pisciavano di sopra.
In macchina portavamo sempre un megafono e una pistola finta, e una volta mentre Marilena vomitava dal finestrino, io ho accostato e uno sbirro in borghese si è avvicinato e ci ha chiesto se eravamo colleghe. Noi ci siamo guardate, stupite, e gli abbiamo chiesto come facesse a saperlo. Solo che lui intendeva colleghe, sbirre come lui, mica colleghe di università. Aveva visto la pistola finta poggiata sul sedile posteriore. Da quel momento abbiamo deciso di lasciarla a casa e abbiamo iniziato ad usare di più il megafono, e abbanniavamo per tutta la città, sempre dalla Cinquecento blu, tipo quelli che vendono il sale o lo sfincione. 
Una volta avevi cinquanta euro in tasca e non ci potevi credere, ti sembravano troppi soldi e hai deciso di offrire da bere a tutti per festeggiare. Hai offerto birre a tutti quelli della taverna di Ballarò, hai sventolato la tua banconota in cielo e hai urlato ‘ragazzi, stasera pago io per tutti’. 
A piazza Magione vedevamo sempre i fuochi del festino, e poi passavamo sempre dai Candelai. Una volta abbiamo litigato e io camminavo davanti a te, a distanza perché non volevo parlarti. Eravamo io e te e le macchine che passavano erano piene di tasci che urlavano e suonavano il clacson. Mi è arrivato un uovo addosso e mi è esploso sul vestito. Ero convinta che fossi stata tu e ho iniziato ad urlare dicendoti che lanciarmi un uovo addosso forse era un tantino esagerato. Ci hai messo una serata intera per spiegarmi che non eri stata tu, ma io non ti credevo.
La birra la correggevi col gin. Aprivi la bottiglia con i denti, ne bevevi due o tre sorsi e poi te la facevi correggere dal barista, intonavi splendidi insulti ruttando e poi dicevi ‘mi fa male la gastrite’, quell’organo che avevi solo tu. 


Gli eccessi Dani, di eccessi ti sei nutrita per anni, con tutti quei personaggi immaginari che ti affollano il cervello e quelle mille personalità che custodisci, come se essere una persona soltanto fosse troppo noioso, come se la tua meravigliosa complessità fosse dovuta a tutti quegli omini che ti fanno vedere le cose da mille prospettive diverse.

Il bagno all’Addaura, nude, tutte donne e senza teli, 
feste in cui si vomitava in due contemporaneamente nella stessa tazza del cesso, a reggersi la testa a vicenda e poi farsi lo shampoo a casa di non so chi, 
Ubuntu, 
il tifo mentre vomitavo, 
e Cin cin, alla nostra grazia, come no, la nostra grazia.
I tuoi lacci ai polsi, brutti e logorati dal tempo, 
le tue collanine anonime e la tua energia, la tua spontaneità. 
Tu che tratti tutti allo stesso modo, e se incontrassi il Papa probabilmente lo inviteresti a cena a casa tua, ‘Papa, ti andrebbe un piatto di pasta alla trapanese?’, gli diresti.

Il resto dei ricordi ritornerà, ritornerà negli anni. 
E grazie per avermi fatto ricordare almeno questo. 


Appuntamento alla Vucciria ad agosto, con cinquanta euro in mano, devono bere tutti, nessuno escluso!


martedì 7 luglio 2015

Lauretta

Mi mancherà la possibilità di confrontarmi con te, di raccontarti quello che faccio. Mi manca già, e sono passate solo due settimane. 
È successo che tu non c’eri e io ho conosciuto questa città. Ho conosciuto un ragazzo di Roma e siamo diventati subito amici. Ti ricordi cosa dicevamo dei romani? Dimenticalo, non tutti sono come quelli che abbiamo conosciuto. E mi sono ricordata della gioia che si prova a pedalare senza meta, a stare seduti sul marciapiede a osservare la gente, a ritornare a casa all’alba o quando ti pare, a prendere meno sul serio le cose, di che gioia si prova a condividere un pasto con qualcuno, della bellezza di questa città di immigrati dove tutti fingono perché non possono fare altrimenti, dove tutti hanno paura di rompere gli equilibri. Ho visto un posto dove mettevano drum and bass, i ragazzini che si scontravano per cercare un contatto, ho visto la gentilezza delle persone, un posto dove si ballava fino all’alba e una sconosciuta che mi ha offerto da bere per tutta la sera. Ho visto ragazzi vestiti a pois che ballavano e che si divertivano, pugliesi che suonavano tamburelli e chitarre, incantati dalla voce di Vale, ho visto stranieri che cercavano oggetti smarriti sul prato del parco del Valentino, muniti di torcia e sacco, ho perso il lucchetto della bici, l’ho lasciata nel cortile interno del nostro palazzo e me l’hanno rubata. Ho visto un posto autogestito, in riva al Po, proprio dove abbiamo ascoltato il concerto del trombettista, e sono rimasta senza parole. Sedie rovesciate e stranieri che arrostivano salsicce, ragazzi che dormivano sulle sdraio piegati in due dall'alcol, con le bocche aperte, altri che ballavano Cindy Lauper alla luce del giorno e che salutavano ogni passante, ho visto l’alba tutti i giorni o quasi, un ragazzo che si tuffava nel Po e nuotava a stile libero, i suoi amici lo riprendevano col cellulare e lui, in mutande, emergeva dall’acqua e rideva, rideva bene, tipo Tony quando prende il peyote. Ho visto piazza Vittorio vuota, senza nemmeno una macchina, un bar in cui tutti i camerieri erano gentili e avevano un sacco di storie da raccontare, ho visto il Lindo Ferretti dei poveri che cantava una canzone che si intitolava “La valanga”, una bacinella blu piena di vino e vodka, una chitarra e un’armonica, ricordi? E vita. Davvero, la vita. 

Ho trovato un capo che mi chiede come sto e colleghi siciliani, e i giornali e i telegiornali, e i libri, Rimbaud e Wolff, Carver, Ammaniti, il mio Ammaniti, e Tondelli, Gatti, McCarthy, Bauman, Palahniuk, Wu Ming e Salinger, Bukowski  e la Kristof, Keret e Saunders, milioni di cose che avevo dimenticato, e Auster che non mi piace. Ho visto una casa in collina, bevuto birra polacca, mangiato anguria fresca e parlato d’amore con perfetti sconosciuti, conosciuto i cinesi del bar di Piazza Statuto e visto un trans che discuteva animatamente con un ragazzino di sentimenti, preso un Vodka Lemon alla Bicyclette, io che non bevo cocktail, e c’erano 40 gradi, conosciuto un tipo che sembrava Renato Zero che mi ha chiesto di cantare, giocato a calcio balilla con dei bambini cubani, trovato un bar di fiducia in cui un napoletano e un signore anziano mi raccontano tutto, trovato una rosticceria di fiducia in cui il rollò col wurstel si chiama Rocco, letto un libro di fotografia, iniziato un romanzo, imparato cos’è un fondo comune di investimento e letto il Sole24ore, dormito sul divano con le finestre spalancate e i ragni che mi pendevano sulla testa. 


Adesso sto cercando di imparare a gestire le emozioni, i sentimenti, a dosare quella palla d’amore che tu conosci bene, imparare a dire no a volte, a studiare di nuovo, a comprare solo ciò che è necessario, a vedere le cose dal vivo, e non immaginarle e basta, a vivere un po’ di più, da sola, all’alba. Quando gli altri dormono.

lunedì 8 giugno 2015

Hai preso la pozione?

Hai preso la pozione?
Non mi serve oggi, in questo mucchietto di terra arida l’energia rimane alle persone, nella terra fertile invece l’energia deve necessariamente alimentare le piante, gli alberi, i frutti. 
In riva al Po un trombettista suona e una folla di ragazzi assiste allo spettacolo, tutti giovani, più giovani di te che hai fatto trent’anni. È sabato sera e fa caldo, finalmente siamo a maniche corte e i sandali ci permettono di toccare terra, finalmente è estate. Ma mi chiedi da cosa si capisce. Da cosa si capisce che è estate. Da un mucchio di ragazzi seduti sul lungo Po, muti, in silenzio, immobili, che guardano un trombettista suonare? E quale sarebbe l’estate? ‘Un assopimento generale piuttosto’, e mi guardi perplesso. Ti senti a disagio se alzi la voce, se pronunci il mio nome, ti senti a disagio se mi chiedi una sigaretta perché la tua voce rimbomba e fa eco. Quando inizia il concerto il silenzio viene rotto da un pugno di applausi timidi che risulta tanto ordinato quanto innaturale e meccanico. Non uno slancio di vitalità, niente e nessuno sopra le righe, tutti composti e innaturalmente giovani, facce pulite e gesti misurati. Qualche tempo fa avremmo pensato ‘che meraviglia, che ordine miracoloso, che civiltà’. Ma ora la civiltà ci è venuta a noia e non troviamo più una via di mezzo che soddisfi. 
Il grottesco fa parte della nostra natura e del grottesco ci siamo nutriti per anni, dei comportamenti incivili e della follia smisurata e anarchica. Quindi oggi non mi serve alcuna pozione, qui a bere in mezzo ai trans nelle vie della Vucciria, in mezzo ai pacchioni che friggono panelle e crocché, che non si curano di nulla, in mezzo ai ragazzi ubriachi che ballano sulle panche, a sconosciuti che ti porgono l’accendino quando metti in bocca la sigaretta appena rullata, senza che tu abbia chiesto nulla. L’aria è leggera, i cuori sono aperti e le urla sono il sottofondo perfetto perché grazie alle urla anche tu riesci a gridare la tua, e la naturalezza della vita vissuta bene, senza scopo né obiettivi ma a stretto contatto con la gente, con persone uguali a te, identiche a te, che cercano esattamente quello che cerchi tu. 
Rocky riempie di milza il panino e poi aggiunge ricotta e limone, sorride e mi viene sempre voglia di chiedergli qualcosa, mi fa andare a letto contenta perché racconta sempre storie interessanti e mi fa mangiare bene con due euro. L’energia delle persone si misura in storie, le storie che qui chiunque racconta a chiunque, senza essere interpellato. Oggi mi nutro di storie, di risate e di urla, di ammuttuni, di rombi di motori, di disarmonia.

Sono arrivata con la munnizza e me ne vado col mare. L’autostrada da Puntaraisi a Palermo mostra il lato peggiore della città, con sacchi di spazzatura ovunque, ma quando percorri la strada al contrario e sei diretto in aeroporto, quando devi partire, allora sì che vedi solo mare, solo mare e un’isoletta felice, arida, perché l’energia qui è delle persone.


martedì 24 marzo 2015

Domenica

Sono rimasti solo gli arabi oggi, con i negozi aperti sul marciapiede e le loro cascate di cibo guasto a prezzi raddoppiati. C’è un forte odore di menta nell’aria.
Una domenica romana di desolazione, ovunque, desolazione e spiccioli ai barboni per strada, immondizia per terra e facce stanche. Per essere completamente a mio agio in questo sfondo immobile mi basterebbe andare in giro in vestaglia. Oggi tutti si ricordano di riposare e, presi da un torpore incondizionato, dimenticano di vivere. Oggi la contemplazione è tutto e rimuginare sulle proprie scelte è una priorità assoluta. Ho sempre odiato la domenica perché distoglie dalla becera routine che fa perdere di vista il vero senso delle cose. Ti destabilizza.
La domenica è libertà assoluta e della libertà assoluta io non so che farmene.

Io e Dani abbiamo pochi momenti per stare insieme, lei vive qui, nella capitale, e quando vengo a trovarla mi rendo conto di quanto mi manchi la perfetta disorganizzazione di questa città di squilibrati. Torino, dove sto io, è talmente impeccabile da essere noiosa, equilibrata all’eccesso. Viviamo in due mondi opposti, io e Dani, e mi piace venire qui e scoprire che ci sono ancora posti senza regole, me ne ero solo dimenticata, mi piace quando mi guardo intorno e vedo solo caos, perché è il caos che mi dà la spinta vitale. Ho sempre pensato che è qui, dove la grazia non esiste, dove la confusione e la disorganizzazione dettano legge, è qui che l’uomo diventa un eroe. Laddove invece la vita scorre come un replicarsi di cerimoniali, una copia del giorno prima, laddove non c’è spazio per l’imprevisto, l’uomo diventa un antieroe.

Andiamo a piazza Re di Roma e mentre camminiamo ci raccontiamo tutto e tra i piedi ci ritroviamo tanti di quei rifiuti che diamo calci ogni tanto ad una bottiglia di birra, ogni tanto ad un cartone del latte e la nostra passeggiata non è fluida, è difficile invece, pesante, è come nuotare in una vasca d’olio. Ci areniamo e poco dopo riprendiamo, con un po’ di fiatone, continuiamo a ciondolare, ad inceppare su quei vuoti di superficie, quelle strade sbriciolate, su quella fanghiglia che si appiccica ai piedi.
La libertà per noi si è ridotta alla pausa domenicale ma non sappiamo cosa farcene perché è passato troppo tempo da quando avevamo una passione e non ricordiamo più quello che ci piaceva veramente, abbiamo perso tempo, le nostre passioni si sono inaridite, assopite almeno fino alla prossima domenica. Abbiamo perso tempo, abbiamo solo perso tempo.
Avanziamo confuse, il passo lento e l’ansia, l’ansia del ‘chissà quando ci rivedremo’, ‘ti è piaciuta questa vacanza? Io sono stata bene, è stato bello, ti vorrei sempre qui’, la paura di quel raffreddore che non passa più, le puntine e i linfonodi ingrossati e i capelli che cadono e il lavoro che è incerto e tutto fermo immobile, tutto bianco di una luce immobile, insopportabile e nemmeno un raggio di sole che spacca le nuvole.
Ho smesso da anni di guardare le previsioni del tempo. Mi piace che almeno in questo la mia giornata sia imprevedibile, prendo il tempo come viene e mi bagno se c’è da bagnarmi. Ma quando capitano giornate così, il cielo bianco e le nuvole che coprono l’intero raggio visivo, allora mi prende male, e vorrei solo saltare quella giornata per passare alla successiva. Ma oggi è un giorno speciale, perché posso stare con Dani, e tra poche ore ho il treno per tornare a casa.
Ci fermiamo al bar, l’unico aperto del quartiere. Ci sediamo fuori, coperte da cumuli di nebbia e immondizia, mute, assenti, senza ragazzini che urlano e niente zaini, niente autobus. Nessun rumore se non quello delle tazzine.
La colazione qui fa schifo, le brioches pietrificate giacciono su vassoi opachi argentati e le gocce di caffè sul bancone hanno macchiato il marmo da anni. Un tempo non era così, un tempo questo era il miglior bar della città. Prendiamo ugualmente una brioche e lo strato di glassa è duro e la pasta difficile da masticare. Abbiamo un altro mattone adesso nello stomaco. Il cameriere è assonnato e non ha voglia. Colpisce col vassoio il bicchiere d’acqua che ha appena poggiato sul tavolo, poi si scusa. Anche lui fa parte di questa civiltà invalida della domenica. Non importa, dice Dani accennando un sorriso. Non le importa davvero, non le sarebbe importato nemmeno se le avesse versato addosso del caffè bollente. Non importa, da qualche anno dice solo così. Nemmeno a me importa. Dani la classica persona che ti sembra sia nata con quarant’anni di ritardo, nel Sessantotto avrebbe avuto vent’anni e sarebbe andata in giro a parlare di femminismo e libertà. La guardo, col suo guardaroba vecchio da una vita e sembra sempre chiedermi ‘mi spieghi che ci faccio io qui’?

Cosa fare quando una città ti tiene sospesa in un limbo e i libri non funzionano più, le ricette non funzionano più e nemmeno la pioggia e il sole? Qual è la città?


Ritorniamo a casa, e chiudo la valigia. Preparo un panino da mangiare in treno e riempio una bottiglietta d’acqua. Saluto Dani davanti la porta, ci abbracciamo forte e facciamo fatica a trattenere le lacrime.
Me ne vado.
Sono sola, tutti per strada partecipano al gioco di farmi perdere il treno, si parano davanti come ostacoli e si muovono in modo scomposto, imprecando se li si sfiora appena. Finalmente svegli, alle quattro del pomeriggio, ritornano a vivere e bestemmiare e insultare, e da questo movimento prende vita qualcosa di meraviglioso, familiare, vitale e barbarico.
La strada è in discesa e scavalcare corpi è la mia specialità. Avanzo decisa, rincuorata dal brulichio di sgambetti e gomitate. Adesso ho un obiettivo, adesso riconosco la mia città, adesso, nel caos della prima domenica del mese, tutti fanno a gara per entrare in questo o quel negozio e io mi sento di nuovo viva, immersa nell’agitazione di buste della spesa e pacchiane acconciature del fine settimana. Le smorfie delle donne romane, i sorrisi al botulino e il trucco coatto mi riportano al punto di partenza. È qui che ho iniziato a scrivere, è qui che ho iniziato ad odiare gli uomini.
Eccola finalmente quell’aria pesante e malata, eccola la città che puzza di merda, che fa sudare, che fa incazzare. Eccola la vita che cercavo. A Roma perfino la domenica può essere molesta, a Roma si digerisce male e male si dorme.

Aspetto l’autobus ma non passa. Decido di prendere la metro da San Giovanni e mi avvio in mezzo alla folla. Arrivata alla Stazione Termini mi rendo conto di quanto mi fosse mancato questo girone infernale, questo tappeto di facce arrossate che guardano all’unisono un tabellone luminoso. Odori sconcertanti di tutti i tipi e gente di tutti i colori e caldo, caldo anche in inverno, e voglia di far esplodere tutto.

È qui che devo restare, è qui che devo vivere se voglio far emergere il meglio e il peggio di me, in questa città degli eccessi, di morte e di vita, di facce pallide e mostri e botulino, di gomitate e sgambetti, di vita mortale, di gioia e di eternità.

Il treno ha un ritardo di 40 minuti. La valigia è inzuppata d’acqua, avrò chiuso male la bottiglietta.
È domenica.


venerdì 23 gennaio 2015

A sai ‘na cosa Ma’?


Te ricordi che l’artro giorno te parlavo de quer motivetto, quello geniale che avevo inventato e che m’avrebbe fatto diventa’ miliardario? Te n’ avevo parlato, no? Ecco, me lo so’ dimenticato. Non l’ho registrato quanno so’ tornato a casa, non ho preso un cazzo di appunto nemmanco cor cellulare.
Ah Ma’, il problema è che so’ incazzato nero perché quer motivetto m’avrebbe fatto fa’ i sordi e io so’ un cojone.
Che te devo di’? Vago per la città. È estate ma fa freddo. Le valigie so’ rimaste a Roma. Gli scatoloni me li ha spediti ieri Giulia ma chissà quanno arriveranno. Ah Ma’, me sento perso! Me sento come se m’avessero torto tutto, a casa, a ragazza, l’ amici. Me sento perso, tutto qua. E ‘sti cazzi che te sei operato alle corde vocali e nun poi parla’ ma sarà a seconda vorta ‘n vita mia che mando una mail e nun me ce trovo, me sembra ‘na cosa troppo formale.
Me sento come se c’avessi ‘e mestruazioni oggi. C’ho freddo. È estate, piena estate, e io c’ho freddo. Sento freddo ma nun me posso copri’, nun c’ho vestiti e i quattro stracci miei so’ dentro gli scatoloni. Me so’ fatto un giro pei negozi e vendono solo cose estive, magliette da froci, scarpette da froci, giubbottini che mamma mia.
Ah Ma’, m’hai preso in un momento brutto, nun c’ho tanta voglia de dirti come me sento perché poi pure io passo pe’ frocio. Quando te senti così nun devi parla’ co’ nessuno perché sei pesante e nun devi appesanti’ pure l’artri. Ma vabbè, tu sei amico mio e che ce voi fa’, me devi sopporta’.
A sai una cosa Ma’? C’ho er panico. Er panico ebola. Nun me prende per culo Ma’, ma qua ce so’ tanti di quei negri che m’è venuto er panico. Ce so’ persone de tutto er globo, e sai che i telegiornali per ora parlano solo de questo? Io nun ce la posso fa’. Me sento come se fossi destinato, come se me la fossi meritata l’ebola! Ma chi me l’ha fatto fa’ de veni’ qua? Chi me l’ha fatto fa’ de cerca’ lavoro qua, ah Ma’? Me sento tarmente impanicato che nun magno più, nun bevo più, me sembra che sia tutto contaminato da ‘sti negri e ‘sti zingari che vengono da fuori. Ma te pare che dovevo veni’ qua io? Hai sentito der medico de Emergency che è stato infettato? Ma hai sentito? Sta qua allo Spallanzani, sta. E te pare che lo portano qua dove sto io? Ma te pare er momento de trasferirsi a Roma? A me nun me pare. Stavo così bene a Latina!
Ah Ma’, me sento come ‘nfossato, come se sulla strada mia ce fosse ‘na grossa buca, ‘na buca concava e io ce so’ finito dentro. E da ‘sta buca nun me ne posso anna’, ce sto dentro e nun me posso move. Ma da mo’ che sto in questa buca!
Ah Ma’, so’ fermo, fermo da ‘na vita, sempre nello stesso punto. Me sento come finto, come se dovessi usa’ a dipromazia pure pe anna’ ar cesso, ‘na vita de dipromazia, tutta compromessi, sorrisi, riverenze e invece quanno me succede cor capo mio quello che penso è: ma chittesencula stronzo.
Pure Giulia sta male e se tiene il lavoro perché artrimenti sta in mezzo a ‘na strada ma sai quanti pacchi de’ fazzoletti ho comprato negli ultimi mesi? Piagne sempre, se dispera e a me me dispiace perché prima nun era così.
Ah Ma’, te voglio di’ ‘na cosa, ma tu o sai come se fa’ a capi’ quanno sei morto? Io me sento morto, come se nun c’avessi nulla da di’, nulla da fa’ pe’ cambia’ e’ cose, come se fossi morto. Prima però sognavo, te ricordi? A voglia se sognavo! C’avevo certi sogni che manco Einstein! Ma che me pensavo de diventa’ davero Jimi Hendrix o Eric Clapton? So’ un cojone so’. Ma come se fa’ a capi’ se sei morto? Sei morto quanno nun sogni più o quanno non fai che sogna’? Nun capisco se ero scemo io prima che sognavo tutto er tempo e me pensavo chissà che, oppure so’ scemo ora che nun sogno più.

Ah Massi, qua c’è un freddo! E manco i riscaldamenti posso accende perché so’ centralizzati. Ma quando s’è visto mai ‘sto freddo qua? Ma che è perché so’ arrivato io?

Ma dimme ‘na cosa Ma’. Ma quando vuoi comincia’ a vivere veramente, se voi prende veramente in mano la tua vita come fai?
Come cominci?

‘ndo vai?