venerdì 12 novembre 2010

Chanteclaire, lo sgrassatore.

La stanza è diventata un bazar. Ci sono vestiti dappertutto scarpe disseminate a riempire ogni mattonella libri mai letti sulla scrivania cose non mie regali mai consegnati riviste impolverate lette a metà coperte aggrovigliate e maleodoranti montagne di cicche nel posacenere e l'odore di intere generazioni che ci hanno passato la vita qui dentro, generazioni che evaporano da questa lurida carta da parati.
Non mi va affatto di riordinare, di ripulire. Non mi va nemmeno di alzarmi dal letto.
Ho la sensazione che anche se facessi ordine non cambierebbe proprio un cazzo nella mia testa. Rimarrei comunque troppo confusa.
La stessa confusione nella stanza e nella testa. Una confusione che oggi non si può risolvere.
Credo di essermi persa.

Mi sono persa perché tu mi hai detto che non sai cosa potrei fare 'da grande' e invece io a te l'ho detto. Io lo so cosa puoi fare tu. Tu una possibilità ce l'hai. E non credo sia solo una questione di buona volontà. Sto parlando di ambizioni. Tu sì che sei ambizioso.
Credo di essermi persa perché mi hanno detto che sarebbe meglio tornare a Palermo.

Torno da Berlino, dove mi hai detto che vuoi andare a vivere. Bella Berlino. Bella la vita a Berlino. Ma il cielo è troppo grigio e i piedi ti si congelano per il freddo, la pioggia ti entra dentro le scarpe e alle quattro è già buio. Si potrebbe vivere lì comunque, magari in una stanzetta vicino una stazione est da duecento euro al mese. Si potrebbe mangiare l'insalata e il kebab, si potrebbe bere anche il loro caffè. Si potrebbe fare attenzione a quel barbone che si fa di eroina proprio lì dove tu prendi la metro ogni giorno. Si potrebbe perfezionare l'inglese e indossare il paraorecchie, vivere di hamburger e borsa dell'acqua calda, sopportare una tristezza malsana in metro e la domenica fare un giro per le bancarelle d'usato di Mauerpark, andare a Tacheles quando ti vuoi fare una canna con qualche debosciato, sempre a Mauerpark per sentire quanto dista tuo nonno da quella generazione, per parlare col tuo amico strafatto di Enna, per capire che l'arte non è esattamente arte. Ci si potrebbe andare sì, e vivere di marchette a Zoologischer Garten, o magari in una caffetteria e nel tempo libero mangiare Donuts e Sacher. Perché no?
Ma prima aiutami a capire che cosa so fare e cosa posso fare. Posso rimanere anche qui a Roma, ma solo se vinco al Superenalotto. Qualsiasi lavoretto non mi consentirebbe l'autonomia sufficiente a pagarmi l'affitto di questa stanza. Non si scherza con Roma, e ieri la pizza che ho comprato mi è costata un sacco di soldi, informarsi veramente costa tanto e arrivare al Colosseo è più stancante di quanto si possa immaginare. Qui ti stanchi mentre cammini. Ti stanchi guardando la gente che corre e non ti degna nemmeno di uno sguardo. Ti stanchi perché ti chiamano 'ciccia' o 'stella' con un'ipocrisia che dà la nausea, perché ti sorridono solo quando vogliono qualcosa in cambio, questi romani senza amici. E scusa se generalizzo.
E metti che mi assumono al centro commerciale o all'ufficio vendite dell'azienda 'Muoriroma' devo sempre prendere l'autobus o il treno come in quel film che non abbiamo mai visto per intero, quello con Favino, l'attore che un po' ti piace. Quella del film si faceva 'sti viaggi lunghi in treno con la nebbia che le oscurava le caviglie e gli occhi sempre tristi e io invece a lavoro ci vorrei andare solo nelle giornate di sole, e avere sempre lo sguardo rivolto al blu del mare. Che dici amore? Forse vivo nel mondo delle favole? Ora ci credi che io non sono affatto matura? Ora ci credi che non assomiglio affatto a tua madre? Ora capisci che tutte le mie ambizioni sono fatte solo di 'parole' e non di fatti?
Dovrei farmi una doccia e andare in giro a cercarmi un lavoro. E non lo sto facendo. Spreco ore di affitto così, senza rendermi utile. Domani lo cerco, promesso.
Il vero trauma di quelli della nostra età è che si sentono inutili perché nessuno ha bisogno di loro. La mancanza di lavoro ci rende perfettamente inutili, e una che sa solo scrivere, invece che lavorare per il giornale del suo paese e ricevere una paga a fine mese, va a lavorare come cassiera in un autogrill.
L'unica cosa che la soddisfa è scrivere i suoi versi sulle mattonelle del cesso di quello stesso autogrill, dove peraltro la sua collega più grande di due anni - che 'da grande' voleva insegnare - fa le pulizie giornalmente, cancellando quei versi a colpi di Chanteclair.

giovedì 28 ottobre 2010

In questi casi meglio una torta alla crema...

Si leggeva insieme l'articolo pubblicato su 'Internazionale', un articolo di Stephan Faris, pubblicato sul 'Time', settimanale americano di attualità.
Si leggeva l'articolo che in italiano era intitolato Arrivederci Italia.
E il lead era questo:
“Non è esattamente il genere di consiglio che ci si aspetterebbe dal direttore di un'università d'élite. Nel novembre del 2009 Pier Luigi Celli, direttore dell'università Luiss di Roma, ha scritto una lettera aperta al figlio: 'Questo paese, il tuo paese non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio (...) Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati.

L'articolo su 'Repubblica' continuava così:

'Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.

Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché'.


Siamo tre in cucina. Abbiamo appena finito di cenare, fuori c'è freddo, il cortile interno fa paura, le luci sono tutte spente e io sono in fase premestruale.
Lui è stanco e sbadiglia ogni due minuti.
Lei sorride, ma è stanca pure lei. Leggiamo insieme e le nostre risate di un attimo prima sono zittite da questo Celli (che poi lui i soldi ce li avrebbe e dovrebbe essere l'ultimo a parlare).
Finisco di leggere l'articolo e cala il silenzio. Siamo tutti e tre un po' più tristi.
Il cortile diventa ancora più buio e freddo. Da qualche giorno ho come l'impressione che il mio palazzo sia disabitato. Nemmeno i vicini si affacciano più.

Lei non voleva lasciare nemmeno Lecce per venire a Roma, a dire il vero. Ogni tanto la vedi che visita il sito del suo quotidiano pugliese e legge, legge e poi si commuove quando muore Uccio Aloisi, cantore storico della Pizzica. Studia scienze politiche. Le piace quello che fa.
Ogni tanto invece la vedi incredula, mentre legge quello che succede nel mondo o in Italia ed è ingenua quando alza la voce e con gli occhi esprime il suo dissenso. Sterile dissenso.
Lui dice che dovrebbe andarsene da qui. Lavora dieci/dodici ore al giorno come stagista in uno studio di architettura senza percepire né uno stipendio né un rimborso spese. Ha un senso del dovere spiccatissimo, è in gamba, curioso, capace e ha tutte le carte per realizzare il suo obiettivo. Ma da un'altra parte. Non qui.
Il silenzio dopo un po' lascia spazio a sguardi perplessi e interrogativi. Meglio non pensarci troppo.
'Quanto spendi mensilmente qui a Roma?'
'In tutto credo 750 euro, compreso l'affitto'
'Credo sia tanto'
'Sì, è tanto. Ma lo sai che pago 15 euro a notte in quella casa? Mi costerebbe molto meno un ostello. E non ci sono spese da pagare in ostello'
'Che cosa assurda'
'E non compro vestiti da almeno tre anni, con le scarpe vecchie dove entra l'acqua, e le magliette bucate'
'Ma se perfino il mio professore veniva a lezione con i maglioni bucati! Che ci vuoi fare, non ti lamentare. Per ora c'è la crisi'

E poi:

'Che farai dopo lo stage?'
'Mi piacerebbe andare a vivere a Berlino, lavorare lì. Non lo so. Mando curricula ovunque. Vado dappertutto. Fuori dall'Italia, comunque. E tu?'
'Non lo so. Proprio non lo so'

Dopo un po' non ci pensiamo più. Abbiamo voglia di dolci. Allora lei fa la crema gialla e io un pan d'arancia. Metto in forno l'impasto e non lievita nemmeno. Viene fuori una torta brutta da vedere e da mangiare. Ma almeno i malumori e le paure li abbiamo depositati da qualche parte. In una torta avvelenata, che è ancora tutta intera.


Io sono una provinciale. I miei amici sono tutti di paese e, senza la pretesa di generalizzare, la gente delle grandi città non mi piace.
La cosa che mi manca di più da quando mi sono trasferita a Roma è la luce del soggiorno di mia nonna la mattina e il suo viso dolce che mi sorride suggerendomi che sarà un buon giorno. Mi manca quella casa vicino la stazione di Palermo che diventava un carcere quando ne avevo bisogno; la domenica mattina a casa, con i miei genitori che tornano dalla passeggiata, con il pane caldo sotto braccio e un vasetto di ricci di mare comprati al Borgo vecchio; la domenica dopo pranzo, con la tv che si ascolta da sola e la serenità nei volti di mia madre, mio padre e mio fratello. Mi manca poggiare i piedi sul termosifone nelle serate invernali, io e mia madre su una poltrona troppo stretta per contenerci entrambe; l'odore dei cibi cucinati da mia nonna, piazza magione e la strada del Capo.
Io sono una provinciale e ho paura di andare a vivere all'estero. Voglio pensare che le cose andranno diversamente, che tutto si sistemerà e che sarà più facile trovare lavoro, voglio credere che la mia laurea servirà a qualcosa e che tra qualche tempo al governo non ci sarà più un coglione che va a puttane e spiana la strada a veline e showgirl, umilia giornalmente i cittadini, fa le leggi per se stesso, possiede tutte le reti della tv generalista case editrici squadre di calcio banche e chi più ne ha più ne metta, che spende i suoi soldi in festini e troie, che offende la gente che lavora onestamente.
Io voglio restare.

martedì 12 ottobre 2010

DELLA CRONACA NERA ME NE FOTTO

Un'infermiera romena in coma, e per un pugno di un ventenne.
In fondo chi se ne frega. Davvero, non me ne frega niente. Non la conoscevo 'sta tipa. A me poi la cronaca non interessa.

Ti hanno detto che in metropolitana ti può succedere di tutto, che alla stazione centrale di Palermo un pazzo può prenderti a martellate, che al Lido Mida di Mondello devi stare attento perché mentre passeggi o ti abbronzi sulla brandina un camion potrebbe travolgerti. Ti hanno detto che se vai in un'altra città per studiare hai più probabilità di morire, che dopo l'undici settembre si pianificano attentati su attentati nel mondo, che sarebbe meglio non andare a Berlino per i prossimi mesi, che quello che succede ad Avetrana potrebbe succedere anche dove vivi tu, che non ti devi fidare nemmeno di tuo zio, che i romeni sono un popolo da ghettizzare, che dovresti stare attento ai tuoi vicini dopo Erba, che una madre può uccidere il figlio senza rendersene conto, che siamo un po' tutti indignati ma in fondo così affascinati da personaggi come Erika e Omar.
Un boom di ascolti per la cronaca nera. Che poi mi dovete spiegare che cazzo è questa smania di guardare studiare filmare tutte 'ste tragedie? voyeurismo necrofilo?
Certo, ormai il vero giornalista è il 'reporter diffuso'. Cioè, in parole povere, sei tu.

Insomma, oggi sul sito della 'Repubblica' leggo questa notizia e guardo il video che riprende tutta la scena del pugno alla stazione della metro di Anagnina. E mi accorgo che dopo il pugno di questo disgraziato ventenne, la donna cade a terra e per più di un minuto nessuno la soccorre. Ci sono delle persone che passando da lì decidono di fottersene e proseguire come se nulla fosse.
Allora se fino ad ora non ero riuscita bene a spiegarlo adesso so cosa mi da fastidio di questa cazzo di cronaca nera.
Le notizie con i morti, con il sangue, condite da particolari di intrighi familiari improbabili, queste storie di morti ammazzati dopo essere stati violentati, di figli che uccidono i genitori e viceversa, di persone che ti prendono a martellate alla stazione ci hanno fatto diventare dei mostri perché ci hanno arrugginito il cuore. Patetica riflessione, ma me ne fotto. Siamo un po' più bestie di prima.
Altro effetto, non meno importante delle notizie di cronaca, è quello evidentissimo di indirizzare il dibattito pubblico su temi che possono oscurarne altri che ci riguardano più direttamente, che riguardano noi in quanto cittadini di un paese democratico.

Poi mi sono ricordata di un tipo, un sociologo statunitense di nome Charles S. Clark che diceva che le immagini violente in tv provocano due effetti. Lui li definisce 'effetto vittima' ed 'effetto spettatore'. Il primo corrisponde alla paura dell'individuo di restare vittima di violenze, il secondo all'aumento dell'indifferenza verso la violenza subita da altri. La “banalità” della correlazione tra la visione di scene violente e il comportamento aggressivo poi, resta comunque una grande verità, anche se decisamente inflazionata.

E ora vergognatevi voi che l'avete lasciata a terra.

lunedì 30 agosto 2010

Lomografia

Non pensare, scatta!

Ci pensavo a questi amici che poi tanto immaginari non sono. Quella Billy con la sua lomo che è diventata sua figlia e si chiama Diana. I panini e l’antipasto caldo alle tre dopo diciotto birre e vino e una familiare con bufala e crudo. Gli occhi vacui di Ale perso dentro materassi di calcio e di donne e la lancetta che conta i minuti li scavalca e si prende troppo tempo.
Sara, pezzo di ferro. Idee chiare che mi mancano e che non si chiariranno mai, voi trovate rifugio in quella donna che per la prima volta l’altra sera ha indossato la minigonna.
Il costume che scivola scoprendo il seno, le gambe e l’inguine ruvidi non depilati, una tenda che non imparerò mai a montare e farmacie notturne per non far bruciare una vagina disabituata agli orgasmi d’amore. Le coccole che sdegnano, le frasi fatte, i come stai a facce ebeti, certi perizoma che proprio non capisco. Il mare più sporco ma più felice, lo smalto sulle unghie dei piedi, le scarpe spaiate nello zaino, il ‘giovin signore’ che appena sveglio si fa preparare il pranzo dal papà, il mascara che mi cola sulla faccia, le pillole omeopatiche e le punture di Penstapho.
Le risate non alcoliche, eccezione di questi ultimi giorni. E un personaggio che mi tiene per mano. Le casse che spaccano i timpani, la Beirutmania, quella stronza dei Blonde Redhead che si fotte il cervello, In particular. E un fischiettare dentro macchine stazioni e docce intervallato da nananananana eccetera. Stimoli che arrivano da tutte le parti, cani abbandonati, braccialetti della fortuna che si annodano da soli, sotto il sole oscurato da un marocchino che mi tende la mano.
Melanzane fritte a go go, mercati con cocomeri spaccati in due a fare scenografia, pesci che sembrano alghe e alghe che sembrano pesci, le gelosie delle suore, la macchina fotografica che non so usare, un pacchianissimo paese pieno di obbrobri architettonici che ti mettono il buonumore, strade a cascata e gente rimasta a piedi sulla statale, salsicce e incomprensioni, storie importanti e moleskine, aeroporti e polizia, partenze per pochi attimi che sembrano anni. Una luce che brilla più che mai, una donna che è quasi tutta la mia vita e che mi regala un viaggio a Berlino, un Bimbo che se ne va con gli occhi lucidi dopo ventisette euro di pesce scaduto, una Gale che dalla Corsica è tornata oggi e mi ha alitato tramite un cellulare che mi sente ancora sua, un Mimmo che non ho potuto salutare per bene e che è il nostro orgoglio, ‘padre istinto e dovere’ per tutti. Una donna a testa in giù per paura di essere accecata dal sole e una bambina che mi sorride e mi anima. Flavia che guarda sempre l’orizzonte anche da un bagno senza finestre e un angelo di nome Fra che ha fatto delle sue ali due coperte per una sola persona. Massimo massimino detto massimone e mari e annalisa e ezio e peppe e tutti nomi che io ho sulla rubrica e che chiamo poco. Riemergono ogni tanto nei bei sogni e mi fanno da corazza.

Forse sono pronta per Roma, con o senza di te.
Il groppo in gola si scioglierà al decollo.

mercoledì 14 luglio 2010

Lettera al Presidente del Consiglio

Palermo, 14 luglio 2010-07-14

Caro Presidente,
la persona che scrive si chiama Laura, ha ventiquattro anni ed è nata a Palermo. Studia Giornalismo alla Facoltà di Lettere della Sapienza e vive a Roma stabilmente da un anno e mezzo grazie ai cinquecento euro mensili sborsati da mamma e papà.
La persona che scrive, oggi ha acceso la televisione e ha seguito un filmato del tg3 che le ha fatto venire il mal di stomaco. La questione degli immigrati provenienti dall’Eritrea.
Questi eritrei, appena arrivati in Sicilia, appena scampato il pericolo di morte, con i denti scintillanti e gli occhi pieni di luce per la gioia di esser sopravvissuti al tragitto in mare, sono stati rispediti in Libia.
Questi eritrei, signor Presidente, non erano arrivati in Italia perché volevano ‘fotterci’ il lavoro o cose così. Questi sporchi eritrei chiedevano asilo politico. Non so se Lei è al corrente della situazione politica del loro paese di provenienza.
So solo che Lei li ha rispediti in Africa. Anzi, Lei non li ha solo rispediti in Africa. Li ha rispediti in Libia, un paese che non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra e che quindi non riconosce i richiedenti asilo. Un paese dove si pratica ancora la tortura e le condizioni delle carceri sono spaventose.
Lei non solo, dopo il patto stipulato con Gheddafi, ha eliminato il fenomeno dell’immigrazione clandestina, ma ha anche legalizzato la tortura per persone innocenti.
Allora mi è venuta voglia di consigliarle qualche libro: innanzitutto Come un uomo sulla terra (al quale è allegato anche un dvd molto interessante) della Infinito Edizioni (2008). Ma anche Bilal di Fabrizio Gatti ( Rizzoli, 2008) e, perché no, anche A sud di Lampedusa di Stefano Liberti(Minimum Fax, 2008) e I fantasmi di Portopalo di Bellu (Mondadori, 2004). Vede, pensavo che Lei, avendo a disposizione l’intera Mondadori sarebbe stato contento ricevere un consiglio su quale libro leggere tra tutti quelli che pubblica.
Insomma signor Presidente, Lei ha case editrici, giornali e televisioni ma – mi dicevo guardando quel filmato – è estremamente povero.
Lei nell’agosto 2008 ha firmato un “trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” con Gheddafi.
Nell’ottobre del 2007 ENI e NOC, la società petrolifera dello stato libico, hanno siglato un accordo per lo sviluppo della produzione del gas in Libia per ventotto miliardi di dollari in dieci anni. La mia amica di Gela nemmeno lo sapeva che la sua città è collegata a Mellitah (città della Libia) da un gasdotto sottomarino di 520 chilometri! Ma è collegata a Mellitah anche da una miriade di cadaveri di africani che non ce l’hanno fatta ad arrivare salvi a casa nostra.

Lei, caro Presidente, ha fatto spedire oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto, insieme ai soldi necessari per pagare i voli di rimpatrio e tre campi di detenzione (più appropriatamente centri di tortura). So bene che già nel 2007 Giuliano Amato aveva fatto la stessa cosa.

Poi pensavo che in fin dei conti oggi nessuno vuol più fare il lavoro che fanno gli immigrati nel nostro paese. Nessuno. Loro in qualche modo ci salvano. Salvano la nostra economia.
Noi non vogliamo fare le badanti o le collaboratrici domestiche. Noi non vogliamo lavorare nei campi.
E lo sa perché, signor Presidente? Per colpa sua.
Lei, con le sue televisioni, ha cambiato un popolo, un’intera società. Lei è riuscito a mutare antropologicamente gli italiani con le sue immagini.
Nessun ragazzo che non voglia iscriversi all’università penserebbe oggi di andare a zappare la terra o raccogliere pomodori. Perché nessun ragazzo di diciotto anni della televisione lo fa. E nessuna ragazza senza cultura e senza attestati di alcun tipo sognerebbe di fare la collaboratrice domestica perché non esiste questa figura in tv. O, se esiste, esiste in Beautiful o nella Tata, che però non sono telefilm italiani. Al massimo quella ragazza, se ha un bel paio di tette, penserà di fare carriera come escort.

La persona che scrive ha ventiquattro anni ed è ambiziosa. Ambiziosa come Lei, signor Presidente.
Lo sa che i miei professori fanno lezione in giardino per protestare contro i tagli e i licenziamenti? Lo sa che fanno gli esami di notte?

La crisi, signor Presidente. La crisi. Cosa ci possiamo fare se c’è la crisi? Lei ha ragione, non si possono fare miracoli. Lei non è mica Roosevelt!
Lei però una cosa la può fare, signor Presidente. Mi ascolti bene. Lei dovrebbe almeno consentirci di lamentarci e di opporci e di protestare, e di urlare. Non ci provi nemmeno ad imbavagliarci.
E poi dovrebbe rileggere qualche articolo della Costituzione italiana.
Le lascio i compiti per casa, insomma. Pochi, non tantissimi. Legga solo questi articoli.

Art. 4 - La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Art. 9 - La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.  Art. 10 - La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.  Art. 21. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.  Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'Autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. 

Per adesso potrebbe provare a imparare questi quattro. Poi passeremo agli altri.

domenica 11 luglio 2010

Cromoterapia

La vecchietta del tabacchi fa i conti a mano, e mi fa uno strano effetto.
Dice che la lettera te la imbuca lei. Prende un francobollo da sessanta. Quando lo lecca la saliva le si scioglie sul mento.

In questo mondo in bianco e nero mi sento sempre un po’ a mio agio. Come quando c’erano le brioches con la nutella se eri malata. Come quando mamma e papà, quando eri piccola, ti lasciavano a casa della nonna, di mattina e a volte il sabato sera. Lei guardava Fabrizio Frizzi alla televisione e rideva. Invece tuo nonno rideva con Magalli. La televisione era già diventata efficace. Prima un sorriso era semplicemente una risposta ad un altro sorriso non mediato da uno schermo.

La domenica ti svegliavi felice, e la colazione era a base di cioccolata calda e biscotti. Poi guardavi Jem (‘il mio nome è Jem/sono una cantante’ ecc...).
C’era una luce calda dentro quel soggiorno, la luce più calda che tu possa ricordare.
La sera l’acqua la bevevi direttamente dal mestolo.
Il rimedio per la febbre era un dito di grappa condita con chicchi di melograno.
Eri sempre di buonumore.


Oggi hai chiesto a tuo padre se ricorda, da quando è nato, una disoccupazione e una crisi così feroci. Ti ha detto ‘no, no e no’.


Ogni volta che torni a Palermo hai la sensazione di dover soffocare insieme all’asfalto incandescente. Poi la terra dei desideri ad un tratto diventa generosa, ti offre un mare senza meduse e un sole che ti illumina i denti. Le strade piene di rifiuti profumano di pulito, sono le migliori del mondo. Bere acqua del mare, ingurgitare colore per risputarlo dalla bocca e dagli occhi, sentire campane e fuochi d’artificio, assaggiare i gelsi bianchi, sentirti spiata da un ulivo argentato che ti ha visto crescere e che tu hai visto crescere, sentir la pelle respirare a pori larghi.
Sole che brucia tutto e accende i colori.

martedì 29 giugno 2010

Occhi e cieli stellati

A volte il telefono squillava, ma io odio profondamente il telefono quindi niente. 
Quando Daniela mi ha accompagnata a casa abbiamo deciso di fare una sosta al bar di via Gallia. Un bel bar notturno pieno di gente volgare e qualche trans, un bar in cui i baristi sono allegri e i cassieri vanno un attimo al bagno per pippare altrimenti si addormentano. Qui sono tutti strafatti. Il barista dice di essere romano ma è di colore. Non sei romano. "Da dove vieni? Sono di Roma. Sei nato qui? Sì. E i tuoi? No i miei no. Ah e loro di dove sono? Mia mamma è filippina".
Una ragazza circondata solo da ragazzi visibilmente ubriachi. Questi maschi così poco maschi si lanciano occhiate per creare una gerarchia. Non si sa bene chi deve scoparsela. Non è proprio carina ma stasera non c’è nulla di meglio. Si guardano in giro e non c’è nessuno. Lei sembra molto disponibile. Probabilmente sarebbe pure disposta a provare che ne so un’orgia o una cosa a quattro. Ma loro non possono saperlo e nemmeno intuirlo. Oggi i maschi si distinguono per questo loro essere ingenui rispetto alle donne. Loro sono disinibite, vergognosamente scollate e fanno paura. Siamo ritornati alla femme fatale del XIX secolo. La donna di oggi è una tigre reale verghiana e l’uomo ha decisamente paura di tanta aggressività. Poveri cristi costretti a massacrarsi di seghe per uno sguardo non incrociato. Perché abbassi lo sguardo e non sai quanta roba porno ti perdi. Perché loro sono lì con la minigonna pubica che aspettano solo di fartela vedere, aspettano di sbattertela in faccia ma tu non te ne accorgi nemmeno. Poi ridono sempre loro, veline deluse dalla vita, ridono per qualunque cosa. L’unica cosa che a loro importa è farsi accettare da te, maschio impaurito. Cucciolotto, non vedi come sbatte le ciglia? Non vedi che ha perso quattro chili in una settimana, per te e solo per te? Un gesto apprezzabile. Carino da parte sua. Calcolala un po’, dai. Non pensare solo alle tue di sopracciglia, Non pensare alla tua di ceretta. Guardala un po’.


Sono le quattro e un quarto di notte e la sveglia non sarà clemente con me domani mattina. Il posacenere è colmo di cicche e Remedios si è già congedata da Nicola. Io ho voglia di un’altra sigaretta, ho voglia di aspirare un altro po’ di vita.
E so bene dove vorrei essere. Su una bicicletta, lato passeggero.
Sempre che esista il lato passeggero su una bicicletta.
E adesso, con gli occhi semichiusi, vi confesso che “non so affrontare la vita quando sono sobria”. E questa è una citazione prima che una verità. Ma Bukowski stava messo male, un po' peggio di me.
Auguro a tutti una buona notte.
A tutti, comprese le stelle, quelle che prima cascavano dal cielo solo per farmi piacere e adesso non più.
Che la prossima stella cada solo per farmi piacere, perché io possa accennare un sorriso a più denti!

venerdì 25 giugno 2010

Estate

Arrivata, quest’estate ieri acerba ora matura, col profumo di fiori di zucchero e puzza di spazzatura. I topi che avanzano lungo il marciapiede del Colosseo, a passo d’uomo, le bandiere che smettono di svolazzare e non solo perché il vento non soffia più, la bambina dagli occhi sempre più azzurri, i capelli appiccicati al viso, la pizzica a piazza San Giovanni, gli odiati fuochi d’artificio e quelle stelle filanti così fuori luogo. Ridicole stelle filanti.

Tu folle tu squilibrata tu che bevi Valium caffè e vino dallo stesso bicchiere tu che non distingui più i sapori.
Tu oggi aggiungi un po’ di latte nella tazzina del caffè e abbracci volti e ricordi col sorriso sardonico di chi ha definitivamente chiuso con la strada che sta dietro.

Giusto per precisarlo a me stessa: non smetterò mai di innamorarmi della gente, di fantasticare sulla gente.

Le sigarette da oggi hanno un altro sapore.
Mi basta poco: qualche confetto dal cielo e sorrisi larghi.

Il mondo richiede veramente poco impegno. Pensa che quei ragazzi avevano il tema sugli ufo.
Pensa che oggi anche a te veniva un po’ da piangere quando hai visto le lacrime di Quagliarella.
Pensa che i cani a Roma nemmeno abbaiano più.
Pensa che non si sforza più nessuno.


Spero oggi sia un buon giorno.

martedì 22 giugno 2010

' Umanità, mi stai sul cazzo da sempre ' (C. Bukowski)

Mandarsi i fiori da sole, per fare ingelosire l’uomo che amano... Questa era la trovata più che legittima di Rob Reiner per descrivere la follia di certe donne. E in fondo torto non aveva.

Mentre il fumo avvolge le mie tonsille fino a strangolarle, sono qui sul letto a scrivere di niente. Il medico dice che non sono placche, sono pezzi di cibo che mi si ficcano in gola. Signorina lei è piena di infezioni questo è solo cibo ma mangia bene? Ha problemi di stomaco? Gastrite o cose così? No lei non ha il tetano, non si preoccupi. Posso darti del tu? Sei stressata? Ti cadono mazzi di capelli? Hai una valvola di sfogo?
Puoi provare questa cura per una settimana. Poi ritorna qui e vediamo come va.
Dalla dottoressa non ci volevo proprio andare. Che cazzo ci vado a fare? Lo so che ho. Non ho un cazzo.
Tachifludec e uno spray per la gola, per allagarla di fluidi anestetizzanti e Argotone. Sangue dal naso e lacrime. Per il raffreddore, si intende. Digrignare i denti.

Lo stomaco, che ormai galleggia nel vino del Tuodì. Lo dovevo dire questo alla dottoressa?

Poi vado a fare la spesa, perché non hai nemmeno la carta igienica per pulirti il culo. Vai e ritorni a casa con un mucchio di roba, due sacchi pesantissimi e una borsa della spesa colma di piombo. Nessuno stronzo che ti aiuta. Ti vedono in difficoltà, fare due passi per volta e poggiare le buste per terra. Poi, con l’espressione incazzata, ti fermi. Poggi per terra le buste, ancora, ti guardi intorno, studi i froci che ti circondano e scopri che sono davvero tutti froci, e ancheggiano e sculettano e li senti che dicono ‘certo che non ci sono andato all’happening, era troppo fuori quel tipo. No, stasera non ci vado. Quel gruppo? Che genere fa? Quello è dream pop. Io preferisco la chill out. Vado con Tommy domani. No, non lo sapevo che andavate lì. Il sushi? Sì, lì è discreto, meglio che dal corto. Vabbè dai, allora a stasera. Ma davvero è stato bello? Daje fratè, se vedemo!’
Ti viene solo da vomitare. Lui sculetta, con i jeans attillatissimi, la voce da donna, ridacchiando come una vera puttana e tu stai lì come una stronza in attesa che qualcuno ti aiuti. Ma lui è molto più magro di te, e anche se volesse non potrebbe aiutarti. Gli uomini oggi si distinguono per questo loro essere più magri delle donne, più magri più stronzi più sensibili più impegnati più non posso scusa ho fretta devo andare devo lavorare scusa non volevo poi ci penso io.
Sei stanca, hai anche un po’ d’influenza, vorresti svenire, fingere di avere un calo di pressione e invece sei lì al centro del marciapiede e ti passano davanti solo checche che parlano di cazzate. Non me lo sto inventando. Davvero.
Poi pensi che qualcuno sta peggio di te e rifletti sul fatto che non solo quella vecchietta di oggi, quella della sala d'attesa, ha indossato il suo vestito migliore e ha finito la boccetta del suo carissimo profumo per l’occasione, ma che il vecchietto che le siede accanto non la guarda nemmeno. Anzi sembra quasi infastidito. La collana di perle è decisamente fuori luogo ma lei la indossa con naturalezza.
Penso che siamo sempre le stesse, a ventiquattro o a sessant’anni.
Poi guardo la segretaria della dottoressa. Ha una scollatura provocante, ti sbatte in faccia tette e sorriso in un colpo solo e ti chiede nome cognome indirizzo città e numero di telefono. Volendo potrebbe trovarti amarti cercarti pedinarti come e quando le pare, fare le valigie e venire a vivere da te, amare e perseguitare chi le piace con la naturalezza di chi lo fa per mestiere. Lei sa tutto di te e tu non puoi farci nulla. Si sa pure comportare. Indossa tacchi alti e ha una voce suadente alla Jessica Rabbit. Forse a volte se lo scorda di essere in uno studio medico.
Io scatarrerei volentieri sul suo stupido block notes. Lei mi guarda e mi chiede scusa per ogni cosa, se non trova la penna, se squilla il telefono, se non mi guarda negli occhi, se parla con un altro. Io mi incazzo e la fisso. Voglio vedere a che punto arriva la demenza di questa debosciata. La fisso per un po’. Poi faccio retromarcia e mi siedo.

Finalmente la signora profumata, quella delle perle, incrocia il mio di sguardo. E sono proprio io a regalarle il primo sorriso della giornata. E sono io a guardarla. Lei ricambia, e ha gli occhi lucidi. Io me ne sono accorta.

martedì 15 giugno 2010

Noi emigranti

Quella Palermo che ora ha un giardino che si specchia sul mare, e prima aveva solo giostre e puttane.
Sta morendo. E con Palermo muoiono i palermitani. Quelli che se ne vanno.

Il mio amico vive a Foligno. L’altro giorno gli ho chiesto se voleva tornare giù. «A parità di lavoro, adesso, cosa faresti? Torneresti?»
Lui ha trovato gente fantastica lassù, ha una ragazza che ama, dei coinquilini meravigliosi e degli amici veri.
Lui tornerebbe giù, senza pensarci due volte.

Lei vive in Finlandia adesso. Dovrà rimanerci per altri cinque mesi. Sta lavorando lì, la pagano bene. È socievole lei, simpatica, molto in gamba. Si adatta ovunque per quello che so. Ma è a Palermo che vuole vivere, dice che il suo posto è lì, in mezzo alla spazzatura, in «quel sud che puzza di fame». Io quegli occhi li ho sempre davanti, e mi sembra di vederli lucidi e fieri, che fissano un punto preciso; uno sguardo che non si può sostenere. Remedios, dolce Remedios.

Poi c’è Billy, che viaggia sempre. Adesso è in Spagna, e credo stia bene. Ma ogni volta che parte ha le crisi isteriche. Sale sulla macchina e parte. E mentre guida piange, tanto da non veder più nemmeno la strada. Poi le passa però. Anche per lei Palermo è troppo importante.

C’è chi ha perso le coordinate, ed è rimasto in una città fantasma della Sicilia. C’è chi teme che il proprio corso di laurea venga soppresso. C’è chi ha debiti da colmare e chi non riesce più a sostenere esami. Chi lavora in Sicilia per paura di perdere tutto. Chi se ne va, e sa che non ritornerà più.
C’è chi parte per seguire qualcuno, e poi se ne pente. Chi costruisce qualcosa in ogni angolo della terra, e se ne pente, perché in fondo partire è lasciarsi qualcosa alle spalle e alcune persone meritavano più tempo.
C’è chi viene dall’Africa su un gommone strapieno e non se ne pente, e vive con la foto della sua famiglia nera sempre più nera appesa in camera, appiccicata al muro per sempre. C’è chi viene dalla Tunisia e mette su una nuova famiglia, dimenticando quella che ha lasciato dall’altra parte del Mediterraneo. Ci sono donne che soffrono per i mariti che se ne sono andati, mariti che colmano il loro senso di colpa con le rimesse.
C’è chi prima di trovare il suo posto deve trovare se stesso, e non dentro una bottiglia. C’è chi non ha il coraggio, e vive di rimpianti da una vita.
C’è chi con gli occhi azzurri più belli della terra ingoia tutte le persone che incontra e divora ogni luogo. Chi impara dieci lingue ma dimentica per sempre l’idioma materno, il dialetto dell’infanzia. Chi è ancora in attesa di partire, imprigionato in qualche centro di detenzione in Libia. Chi rischia la vita per un pezzo di pane.
Sono sempre i poveri a dover partire. E oggi siamo quasi tutti poveri di risorse.
In fondo siamo un po’ tutti emigranti.

martedì 8 giugno 2010

Come un uomo sulla terra

Stamattina mi sono svegliata presto per andare a lezione. L’ultima lezione, credo, della mia carriera universitaria.
Questa lezione ha avuto un significato molto particolare. C’era un ospite in aula. Un ospite importante, invitato dal professore di Giornalismo d’inchiesta Pietro Veronese (“La Repubblica”).

In aula c’era Dagmawi Yimer, un ragazzo etiope sbarcato in Italia dopo un lungo viaggio.
Dagmawi studiava giurisprudenza ad Addis Abeba ed è fuggito in Italia per via della difficile situazione nel suo paese d’origine.

Negli anni ’80 e ’90 in Etiopia c’era la dittatura dei ‘militari rossi’ di Menghistu Haile Mariam, poi sostituita da un governo neoliberale.
Oggi il potere autarchico e repressivo del governo di Melles Zenawi spegne ogni speranza di rinnovamento civile in Etiopia. Attualmente quasi tutti i leader dell'opposizione sono incarcerati o dispersi.
Questa premessa serve a comprendere le ragioni della partenza di Dagmawi.
Lui, che non ha potuto salutare i suoi genitori perché non gli avrebbero permesso di andarsene. Lui che ha attraversato il deserto a bordo di un pick up in condizioni di degrado estremo, stipato insieme a decine e decine di persone. Lui che, arrivato in Italia, ha incontrato Frattini ad una conferenza sui rapporti tra Italia e Libia e non gli ha nemmeno sputato in faccia. Lui che è stato venduto alla polizia libica per trenta denari. Lui che ha avuto il coraggio di raccontare.

Parlava piano, lentamente e a bassa voce. Era dolce, ascoltava le domande e rispondeva, parlava bene l’italiano, aveva gli occhi lucidi e un garbo da far invidia.
In pochi forse sanno (dato che la notizia è stata non dico occultata ma trattata come minore) che nell’agosto 2008 Berlusconi e Gheddafi hanno firmato un “trattato di amicizia, partenariato e cooperazione”.
Nell’ottobre del 2007 ENI e NOC, la società petrolifera dello stato libico, hanno siglato un accordo per lo sviluppo della produzione del gas in Libia per ventotto miliardi di dollari in dieci anni.
Già nel dicembre del 2007 un Protocollo di collaborazione tra il nostro paese e la Libia era stato sottoscritto dall’allora Ministro dell’Interno Giuliano Amato. La prassi illegittima del rinvio forzato è stata legalizzata.
Berlusconi, pur di togliersi dal cazzo questi immigrati, decide di spedire oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto (e non è uno scherzo), insieme ai soldi necessari per pagare i voli di rimpatrio e tre campi di detenzione (veri e propri centri di tortura).

La polizia libica è forse la peggiore di tutto il pianeta.
Mentre il Presidente firma gli accordi per il gas con Gheddafi, migliaia di africani vengono torturati nei campi di detenzione costruiti con i nostri soldi. Picchiano la gente etiope solo perché non è araba. Stuprano le loro mogli, li mettono in una stanza, ammassati come le bestie. Loro non possono nemmeno dormire per quanto stanno stretti. Fanno i turni.
Le peggiori torture le subiscono nel Centro di detenzione di Kufra.
Ricordatevelo. Kufra.
Non solo lo stato libico ricorre ancora alla pena di morte, ma è ancora molto diffusa la pratica della tortura, soprattutto nelle carceri (incatenamento a un muro per ore, percosse con bastoni di legno, scariche elettriche, succo di limone nelle ferite aperte, avvitamento di cavatappi alla schiena, fratture delle dita, soffocamento provocato con buste di plastica, privazione del sonno, di cibo e acqua).

Cioè, mentre Berlusconi si fa i lifting e le sue porcate a Villa Certosa, mentre la Gelmini riduce i programmi, le ore di lezione e fa discriminazione tra bambini italiani e stranieri, mentre Alfano vuol far passare il lodo più anticostituzionale della storia, mentre si inneggia Mussolini, mentre la libertà di stampa è abolita e le intercettazioni diventano motivo di multe salatissime per giornalisti ed editori, mentre la crisi flagella statali e non, mentre migliaia di giovani pagano un affitto di cinquecento euro al mese per una singola nella capitale, mentre si studia per niente, mentre le province vengono ridotte e per le donne l’età pensionabile viene fissata vent’anni dopo la menopausa, nel frattempo, alla Sapienza, alle otto e mezza del mattino, devo pure commuovermi insieme a Dagmawi perché è stato picchiato, derubato e umiliato, detenuto nei centri africani fatti costruire con i nostri soldi!

Ecco. Ecco cosa siamo.

Lui non reagisce, a me viene solo da piangere. E lo guardo, e mi sembra forte; anzi fortissimo.

Sorride quando un italiano lo guarda. Non ha pregiudizi nei nostri confronti. Va in giro per le scuole e le università. E io mi vergogno del mio paese, e non riesco a dire nulla. Rimango muta, con lo sguardo incredulo.
Lui sorride e dice che proprio oggi ha saputo che un poliziotto libico ha violentato una ragazza di ventidue anni. Lui la conosce. Oggi è un po’ triste per questo.
«Io non posso fare niente», dice. E poi dice: «non è Berlusconi, non è solo lui il problema. La sinistra ci ha trattati allo stesso modo. La destra e la sinistra sono uguali». Lui lo sa questo.

Lui lo sa. E non guarda la nostra tv, non legge i nostri giornali. Eppure lo sa. Lui l’ha provato sulla sua pelle.





Dagmawi ha realizzato il documentario
COME UN UOMO SULLA TERRA

Prefazione di Ascanio Celestini. Con il patrocinio di Amnesty International.
il film di Andrea Segre, Riccardo Biadene e Dagmawi Yimer, con un libro dell’Archivio delle Memorie Migranti a cura di Marco Carsetti e Alessandro Triulzi

Autori: Riccardo Biadene, Marco Carsetti, Andrea Segre, Alessandro Triulzi, Dagmawi Yimer



http://comeunuomosullaterra.blogspot.com/

domenica 6 giugno 2010

Scappare in Puglia

In fondo è il tema del momento, quindi parliamone ancora, ancora e ancora.
Ho trovato un articolo molto interessante sul blog di Maksim Cristan, scrittore croato (vedi "Internazionale", rubrica Italieni).

Mi permetto di pubblicare per intero il suo articolo pubblicato su "L'Unità" di maggio.

Le mie considerazioni sono un po' provocatorie. Ma solo un po'.

Andiamocene tutti in Puglia; lì c'è il mare, ci sono i campi, c'è il lavoro e c'è Nichi. Lui (Cristan) è ironico. Ma forse non dovrebbe. Il punto è: forse lavorare la terra, toccarla, stare a contatto con poche persone, senza beni superflui, tutti sotto lo stesso sole, a torso nudo, gli occhi che bruciano, i piedi doloranti, il sudore e sguardi diretti, non divisi da uno schermo, forse sì perchè no, ci farebbe bene. Non ci serve questo lavoro in banca, non ci serve questa ricchezza. Teneteveli voi questi fottutissimi soldi, a me servono acqua, pane, letto, il mare, la terra e soprattutto le persone, da guardare negli occhi e sentire al tatto.





Precario e migrante: «Sapete che vi dico? Io scappo in Puglia»
di Cristan Maksim


Caro Presidente della Repubblica sono una cittadina di questo paese, mi chiamo Igiaba Scego, classe ‘74 e volevo informarla che mi sto arrendendo. Tempo fa Lei ha rincuorato i precari, i disoccupati, i ricercatori senza affiliazione a non gettare la spugna. Ci ha detto «Coraggio non vi arrendete. Non uscite dall’Italia». Purtroppo Signor Presidente io mi sto arrendendo. Faccio parte, e non è una vuota statistica, di una generazione a cui sono state tarpate le ali. Sono una precaria della cultura. Sto diventando una precaria della vita». Il 30 aprile su "l’Unità" la scrittrice Igiaba Scego ha scritto una lettera a Napolitano. Il presidente l’ha ricevuta pochi giorni dopo al Quirinale. Ne è seguito un lungo e appassionante dibattito. Quella che segue è il messaggio che lo scrittore croato Maksim Cristan ha inviato a Igiaba.

Tutti noi intellettuali precari, immigrati e non, abbiamo letto con molta attenzione la lettera aperta della nostra collega Igiaba Scego al Presidente Napolitano, dove gli chiede aiuto per tutti. Il presidente è buono e ha invitato Igiaba ad incontrarlo. Lei gli ha detto: Faccia il garante per noi affinché questo tema (che poi sono due: 1. Immigrazione e 2. fuga dei cervelli) non esca dall’agenda politica.

Personalmente ho conosciuto molti esuli culturali a Berlino, arrivati lì perché dopo aver perso la fiducia nel futuro in Italia. Ho conosciuto anche alcuni giovani bresciani, che quando nella loro città il sindaco offriva 500 euro per ogni immigrato regolare che decideva di tornare nel suo paese, dissero: magari dessero anche noi 500 euro per andarcene. Igiaba, mi chiedo come diavolo ti è venuto in mente di importunare il Presidente.

Se volevi davvero risolvere qualcosa, avresti dovuto scrivere, appunto, al Presidente del Governo. Hai già dimenticato come Egli accolse a braccia aperte la richiesta di quella ragazza, che quando lamentò la propria precarietà, il Premier le disse: «Signorina, lei è carina, sposi uno dei miei figli e ha risolto tutti i problemi». E tu, Igi, sei certamente ancor più carina di quella ragazza.
Ah già, dimenticavo che, tu, anche se italiana, sei nera come il carbone e visto che il premier non vuole un’Italia multietnica, probabilmente non ti vorrebbe a tavola in famiglia e magari finirebbe per proporti a uno dei figli del suo amico colonnello Ghedaffi.

È un casino Igi, lo ammetto, e anche se io ti voglio tanto bene, non posso nemmeno dirti sposa me! Dato che sono messo peggio di te. Che fare? Se il signor Vitor fosse ancora vivo, conoscendolo, probabilmente ci direbbe: «Ma andatevene tutti fuori dai coglioni in Puglia a pretendere una vita dignitosa per i vostri scarabocchi e i vostri volontarismi per le razze inferiori! Che lì il governatore comunista costruisce gli alberghi gratuiti pure per gli immigrati braccianti!»
Però, ridendo scherzando, potrebbe essere un’idea per noi Igi. E anche se la politica di Nichi al resto d’Italia sembra Marte, per ora sempre l’Italia è. Che fai, vieni anche tu?

26 maggio 2010

Il ciclo è sempre una buona scusa

Il display dentro la macchina segnava addirittura 25 gradi. C’era caldo, un caldo umido appiccicoso fastidioso.
Ho visto un film crudele stasera e mi sono commossa.
Il film è La nostra vita.
Senti il bisogno di maternità dopo aver visto questo film. Quei bambini. 
Devo andarmene, devo sparire. Voi con i vostri impegni e i vostri appuntamenti. Dove dovete andare? Fermatevi. La strada è quella lì, la più tortuosa.
Svegliatevi, quest’accidia scrollatevela di dosso, questa noia, queste mostre, queste visite guidate, questo desiderio di spostarvi sempre, in continuazione, di vedere il mondo per forza, per intero, a tutti i costi! Statevi fermi, pensateci un attimo.
Prima di guardare troppo lontano, -che l’insicurezza vi protegga!, volgete lo sguardo proprio sotto gli occhi, comprendete questi occhi che supplicano, un sorriso, un abbraccio, una carezza, un amore, state fermi, non andate così lontano, non c’è mica dove andare! Adesso non avete proprio dove andare.
Non si passa, i debiti non si saldano, disoccupati perenni, volti vuoti e inespressivi, state lì. Questi figli li dovete volere. Questi figli che prima erano una festa e ora sono un lutto. Sono gioia, miracolo. Proteggeteli con i vostri sorrisi, rincorrete l’impossibile, andate controvento finché potete, fatelo per voi stessi, scegliete i loro occhi e proteggeteli. Portateli a mare, non girovagate a vuoto, scegliete qualcuno, state sereni, vogliatevi bene.
Davvero non li volete questi figli? Davvero? Io li vorrei almeno sentire tra le braccia, vorrei dare un senso a tutto questo. Allora forse potrei andarmene da qui. Partire, lontano.

Il carillon suona ogni tanto. Quando meno me lo aspetto inizia a suonare, e io salto in aria.

E tu ascolti la tua musica, e pensi. Ti fai la doccia, e pensi. Metti su la caffettiera, pensi. Indossi i jeans con le toppe a farfalla, pensi. Esci da casa, pensi. Alla fermata della metro, pensi. A lavoro, sguardo perso, pensi. Parli con quei due, quelli nuovi. Ridi con loro, pensi. Mangi e ricordi.

Io ricordo.
Mangi cibo di merda ora, non ti va tanto di cucinare. Ma che mangi? Nemmeno a me va di cucinare. Tu cosa mangi? Vorrei saperlo. Ti piace ancora il gelato al cioccolato bianco? Che fai? Pensi. Sguardo opaco, pensi.
Io lo so a cosa pensi. Anch’io.

Amore mio, questa è la generazione dell’OKI, quella che si droga di Novalgina e Aulin. Nessuno può farci niente.
Tutti perduti nel dramma delle medicine, dell’Amuchina, della disoccupazione.
Ma tu non preoccuparti, andrà tutto bene.

mercoledì 2 giugno 2010

«E cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?»

«Le promesse di impegno non hanno senso nel lungo periodo [...]. Come ogni altro tipo di investimento, hanno alti e bassi. E così, se desiderate instaurare relazioni, mantenete le dovute distanze; se volete che il vostro stare insieme sia appagante, non offrite o chiedete impegno. Lasciate sempre tutte le porte aperte.
I residenti di Leonia, una delle Città invisibili di Calvino, direbbero, se interrogati al riguardo, che la loro passione è ‘il godere delle cose nuove e diverse’. Infatti, ogni mattina la popolazione ‘indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dell’ultimo modello di apparecchio’. Ma ogni mattina ‘i resti della Leonia di ieri aspettano il carro della spazzaturaio’, tanto che vien da chiedersi se la vera passione dei leoniani non sia invece ‘l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità’».

Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, 2004.


La facilità e la comodità del disimpegno, penso.
Ogni volta che leggo Bauman mi viene voglia di piangere. Questo sociologo ha ottantacinque anni e un sacco di cose da insegnare.
Parla della rete e di come questa abbia trasformato i rapporti interpersonali. Ma questa è una storia vecchia e ormai esistono intere biblioteche su questo tema. Si sa che il termine ‘rete’ indica un contesto nel quale è facile entrare e facile uscire. E citando Vasco Brondi mi viene in mente una frase che dice «con me non devi essere niente». Non ti chiedo nulla, e tu, per favore, fai lo stesso.
Oltre alle ‘relazioni virtuali’, sempre più diffuse e inquietanti, c’è un altro aspetto che ha modificato enormemente i rapporti tra gli esseri umani. Si chiama precariato.
L’incertezza esistenziale ci ha resi oltre che umanamente deboli, incapaci di prendere decisioni in cui si includa l’altro. Direbbe Bauman che ci siamo «individualizzati» e dunque ognuno pensa per sé. Vogliamo tanta gente attorno, vogliamo tanti amici, tanti, troppi forse. Cento, duecento.

I rapporti sociali sembrano funzionare meglio da quando esiste Facebook. 180 milioni di individui che hanno consegnato le proprie esistenze ad un social network, che magari è solo una trovata per fotterci tutti, ridurci a cavie e studiare i nostri profili. Un enorme esperimento di marketing di cui non ci accorgiamo nemmeno.
Continuiamo ad esporci, esibirci, tutti in una grande vetrina per poi tirarci indietro e sentire l’angoscia del contatto vero, quello con persone che incontriamo corpo a corpo.
La crisi, il precariato hanno reso l’uomo incapace di intessere rapporti veri, stabili e durevoli.
Non trovo lavoro, sono laureato, giovane, mando curricula dappertutto e non trovo nulla. Nulla. Quindi forse dovrò andarmene e per andarmene devo abbandonare questa fottutissima città in cui sono nato, i miei genitori, i miei amici, la mia ragazza e questo mare. No, non ci penso nemmeno a legarmi alle persone.
Sono stato male sai, male. La mia ex mi ha lasciato e ho sofferto per anni. Da allora non mi sono più legato a nessuno. E non so dove andrò, di certo non rimarrò qui a vita, quindi perché legarsi? Nel frattempo vedo un sacco di gente, ma quando conosco una ragazza che mi piace evito di affezionarmi perché non si sa mai.

Lo squallore dei rapporti d’amore nell’epoca post-moderna. Il vuoto.

Poi mi viene in mente ancora lui, Vasco Brondi. Lui sintetizza il tutto così:
«E cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?»

sabato 29 maggio 2010

Leggendo le pagine dell’ “Internazionale”

In copertina il titolo “Google salverà i giornali” suonava quasi come un paradosso.
Ho letto l’intero articolo di James Fallows e mi sono resa conto, solo dalle ultimissime righe che questo giornalista statunitense aveva ragione. L’idea che i giornali debbano sopravvivere è fondamentale.
Vittorio Sabadin (vicedirettore della “Stampa” di Torino) ha scritto nel suo saggio (L' ultima copia del «New York Times». Il futuro dei giornali di carta, Donzelli, 2007) che l’ultima copia del “New York Times” sarà stampata nel 2043. Una profezia che secondo molti potrebbe avverarsi ancor prima di questa data.
Insomma, in molti concordano sul futuro breve della carta stampata.
Ma poi leggo l’articolo e mi sento subito rassicurata da questo giornalista americano che su “The Atlantic” scrive che Google aiuterà i giornali a non sparire dalla circolazione. Perché? Semplice.
Google è utile perché la gente lo utilizza come motore di ricerca per trovare informazioni utili. Se non vi fossero informazioni utili, interessanti, precise e aggiornate nessuno lo utilizzerebbe più.
Il motore di ricerca più famoso al mondo è soprattutto attendibile, credibile per le informazioni che mette a disposizione. Nikesh Arora (sovrintendente a tutte le attività di monetizzazione e di gestione dei clienti, nonché al marketing e alle partnership per Google) parla di un rapporto simbiotico profondo tra Google e le fonti di informazione autorevoli. I contenuti sono offerti ma non prodotti da Google. Se i contenuti sono buoni, la gente continuerà a cercarli. Se non lo sono anche Google perderà il suo primato. Per questo il giornalismo sopravviverà.
Serve qualcuno che crei l’informazione. Per questo il giornalismo in generale, le testate cartacee e on line in particolare, continueranno ad esistere.
Google finanzierà i giornali in difficoltà, e questa mi sembra una buona cosa.
Nel nostro paese c’è uno scoglio in più da superare. Eric Schmidt(Presidente del Consiglio di Amministrazione di Google) ha ricordato come la sopravvivenza del giornalismo di qualità sia essenziale per il funzionamento della democrazia moderna. La democrazia esiste nell’informazione americana, ma non in quella italiana (ricordiamo che la Mondadori possiede il 29% del mercato librario e il 38% di quello dei periodici, tanto per dirne una).
Il nostro, dunque, è un caso a parte. Come sempre.

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