venerdì 14 novembre 2014

Noi non siamo speciali

Al corso d’inglese l’insegnante ci chiede cosa faremo il prossimo fine settimana. 
L’ ambiente è abbastanza eterogeneo, una fetta ricca di figure professionali si incontrano due volte a settimana per dar vita ad un interessante esperimento sociale e relazionale. È in quell’aula che la carta opaca che non mi permette di vedere a un metro dal mio naso mi si stacca dagli occhi. Ci sono campioni sociali di ogni tipo: c’è il cassintegrato, l’esodato, l’avvocato, il chimico, la grafica, la studentessa, l’impiegata amministrativa, il postino e via dicendo. Qualcuno ha detto che trascorrerà il sabato a casa a riempire lavatrici e pulire i pavimenti perché durante la settimana non ha avuto tempo. Qualcun altro si rilasserà a casa guardando la tv e al massimo la sera andrà a mangiare una pizza con gli amici. O forse una passeggiata ma se non sbaglio questo fine settimana è prevista pioggia, dice un altro.

La vita di tutti noi, da un po’ di tempo, la trovo ripugnante. Ho sempre pensato che sia da sfaticati non lavorare, aspettare che il lavoro ti cada dal cielo, non impegnarti con tutte le tue forze per ottenere un colloquio, un lavoretto in un bar, in un ristorante qualsiasi. Dobbiamo pur adattarci al contesto e spegnere quei sogni velleitari che i nostri genitori ci hanno instillato come medicamento egoistico quando siamo nati, lasciarci giustamente uccidere dalla realtà perché la vecchia generazione ha preteso che i loro figli fossero i migliori, i più bravi, i più speciali. Non ci hanno detto però perché noi figli degli anni ottanta e novanta siamo speciali. E questo buco, questo vuoto di educazione ha compromesso la nostra capacità di adattamento al mondo contemporaneo. 
Io dico sì, sbattiamoci per trovare un lavoro e mettiamo da parte le lauree, sacrifichiamoci e dimentichiamoci pure di essere speciali. Perché non siamo speciali in realtà, è lo scarto tra il senso di rivalsa postuma dei nostri genitori e la realtà sociale e lavorativa che ha creato questo mito. 
Ma mi chiedo se non sia meglio così, non lavorare, avere un mucchio di tempo libero per sé stessi da non sapere come spendere perché non si percepisce uno stipendio. Perché ovviamente solo il denaro può comprare la felicità. 
Ma questo circolo vizioso, se inizi a lavorare, si spezza. 
Vado a fare shopping al centro commerciale e solo così la maledetta noia della domenica svanisce. E l’odio per la domenica ha a che fare con l’odio per il lunedì, quando vado a lavoro (non ho studiato per  fare questo lavoro ma io non sono speciale), quando cambio nuovamente ruolo sociale e mi trasformo in una persona diversa, che accetta il compromesso, una persona diplomatica e sorridente con tutti, anche con gli stronzi. Ma io non sono diplomatica e sorridente. Allora sto vivendo la vita di qualcun altro? mi chiedo. Non va bene vivere la vita di qualcun altro, essere sempre sorridenti e pazienti, indossare vestiti stretti per sembrare più magra e presentabile e soprattutto sorridere e ridere alla battute degli altri quando non c’è un cazzo da ridere. Tutto questo ridere e far finta che vada tutto bene mi farà venire un tumore. Farà venire il tumore a tutti quanti. Perché il lavoro, per come è concepito oggi, è solo un tumore. Far finta di vivere una vita normale quando non hai diritto a niente di ciò che volevi. E cosa volevi? Volevi vivere serenamente, poter dedicare del tempo alla tua individualità, a coltivare la tua identità, a crescere, imparare dagli altri, leggere e andare al cinema, a teatro, studiare  sempre, viaggiare, avere dei bambini da portare al parco, pranzare insieme la domenica, genitori figli e nonni insieme, vivere nella stessa città di tuo fratello almeno, non dover scegliere chi seguire tra il tuo ragazzo, la tua famiglia e i tuoi amici che vivono tutti quanti in posti diversi. Poter stare sereni.

Lavoratore e non lavoratore vivono entrambi in una palafitta costruita in mezzo al nulla. Chi non lavora è frustrato perché non ha i soldi ma chi lavora, i pochi soldi che guadagna, è costretto a spenderli comunque dentro quella palafitta per comprare i sogni degli altri. 

lunedì 3 novembre 2014

Porta Susa

Ho comprato le vongole al mercato del pesce, il prezzemolo e la frutta, i gianduiotti e le banane che piacciono a mia madre, i cereali che piacciono a mio fratello e la marmellata che mio padre spalma sulle fette biscottate a colazione. 
Inizio a cucinare e metto in ordine la casa.
Alle 13 scendo e prendo la bici. Inizio a pedalare veloce e per poco non metto sotto una signora. C’è il sole oggi e non fa freddo. 
Mi guardo intorno a scrutare la città, mi chiedo se può andar bene. Voglio che Torino faccia un’ottima impressione anche a chi arriva dal mare. Mi chiedo se è tutto perfetto e studio la strade per vedere se sono pulite e i cassonetti per assicurarmi che siano vuoti e il traffico e l’abbigliamento dei passanti. Niente deve disturbare la mia famiglia. Devono apprezzare questa città e il suo profumo, devono sentirsi a casa, cambiare idea e trasferirsi qui.
Sono le 13.20 e un gruppo di studenti gioca a rincorrersi davanti alla stazione. Il sole è caldo e mette di buonumore. Una ragazza si avvicina e mi chiede dove sia l’agenzia delle entrate. Un vecchio è in piedi davanti all’ingresso e guarda la gente passare. Le macchine si fermano per far attraversare i pedoni e la gente in bicicletta. Non c’è traccia di sporco, tutto brilla e il tabellone luminoso segna 15 gradi. Perfetto.
Scrivo un messaggio a mia madre per indicarle l’uscita giusta e aspetto. Controllo il meteo sul cellulare. Bel tempo fino a domenica. Bel tempo fino al giorno in cui ripartiranno.
Studio ancora una volta la cartina, dove ho cerchiato in rosso i posti migliori, quelli che voglio vedano assolutamente.
Poi squilla il telefono.
‘Uscita D’

È il momento più bello, quando vedo sbucare i sorrisi uno ad uno, loro avvolti da giubbotti e piumini che manco Totò a Milano, mi guardano e sono felici e pure io e ci abbracciamo e ci chiediamo tutti insieme ‘come stai’.
‘C’è il sole’, dico.
Prendo il borsone e lo metto nel portapacchi della mia bicicletta. 

Oggi è una bellissima giornata.

venerdì 5 settembre 2014

Partenze

Sono sempre sola in aeroporto. Tutti gli altri sono in gruppi di due o tre o addirittura intere famiglie allargate. Li invidio, è più facile dividere l’angoscia della partenza con qualcuno. Vedo tutti come se li osservassi dall’esterno, come se fossi invisibile. Nessuno mi guarda, sono tutti presi dalla partenza, dal mare o dalle nuvole, tutti pieni di sole e salsedine. Io li guardo e mi viene da piangere.

Arrivata al corridoio delle partenze, torno indietro per fumare l’ultima sigaretta prima del volo. Le porte scorrevoli si aprono sul mare. 
Il mare lo rivedrò solo a dicembre e oggi è una tavola, peccato, proprio oggi che devo partire. Da quel primo piano dell’aeroporto Palermo sembra magnifica, con l’afa che ti anestetizza e l’aria condizionata appena varchi la porta scorrevole, il sole accecante, i toni paglia che colorano gli sguardi e le contraddizioni spazzate via dal vento forte. Man mano che scompare, vista dall’aereo al decollo, la vedi in tutto il suo splendore, pura e cristallina come poche. È allora che inizi a rimpiangerla davvero, e l’intero viaggio diventa una sconfitta. Il senso di sconfitta non scompare né all’atterraggio né sul pullman che mi porta a casa e continua fino al giorno dopo, quando riesco ad abituarmi al silenzio surreale di Torino.

Mio padre mi ha appena lasciata alle partenze e mi ha riempito la testa di raccomandazioni. E io ho ancora un groppo in gola perché mi chiedo quando i miei genitori sono diventati così fragili, quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho litigato con mia madre e lei mi ha parlato dei sui problemi, quanto tempo è passato dall’ultima volta che abbiamo visto un film insieme o le ho cucinato qualcosa. Mi chiedo da quanto tempo non facciamo un viaggio insieme. Mi sento come se non sapessi più nulla di loro, come se la mia famiglia avesse una nuova famiglia di cui io non faccio parte. I miei nonni se ne sono andati, inghiottiti da divani e letti sui quali mi sono seduta mille volte e non so più nulla di loro, cosa hanno fatto negli ultimi anni e sto perdendo il contatto con la realtà ed è difficile rifarsi una famiglia altrove, non sapere se e quando sbagli, senza nessuno che ti dà delle dritte e condivide le tue scelte.
Anche la diaspora dei miei amici è stata un duro colpo. Loro sono tutti incazzati, esattamente come me. È difficile seguire le loro giornate, i loro pensieri, i loro spostamenti. 
Palermo è stata per me uno stimolo alla sopravvivenza, un test, una prova che ero ancora viva. 
Ora sono in una stanza bianca, deserta e senza istruzioni. Sono senza istruzioni. Ma essere senza istruzioni è forse il grande passo verso l’indipendenza. Ma che me ne faccio dell’indipendenza se non ho più qualcuno con cui parlare? 
Sto qui, tra i miei libri e le mie bollette, e improvvisamente mi manca una passione, mi mancano gli stimoli, mi manca la vitalità.


Questo aveva pensato, che se da bambina odiava il fatto che i suoi genitori scegliessero per lei, quando si era allontanata da loro aveva provato piacere nel fare l’esatto opposto: adottare il loro punto di vista e scegliere ciò che prima non avrebbe mai voluto scegliere.

Pensò che in fondo era la stessa cosa che le era capitata quando Bud era andato via da casa. Lui comprava ad Arden le stesse cose che lei comprava per suo figlio e che suo figlio diceva di detestare: gli stessi cereali, le stesse bistecche e le stesse calze a righe. Perché forse era naturale agire così, sentirsi confusi prima di essere ciò che si è veramente”.

giovedì 26 giugno 2014

Consigli di lettura

Kitchen confidential - Anthony Bourdain
Firmino - Sam Savage 
La camera azzurra - Georges Simenon
La trilogia della città di K. - Agota Kristof 
Previsioni del tempo - Wu Ming
Il padre e lo straniero - Giancarlo De Cataldo
Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia - Giuseppe Rizzo
Dieci dicembre - George Saunders
La strada - Cormac McCarthy

Questo è l’elenco dei libri che ho avuto modo di leggere negli ultimi due mesi. Alcuni mi sono piaciuti, altri per niente. 
In assoluto quello che ho amato di più tra questi libri è La trilogia della città di K. di Agota Kristof. Non solo la storia è davvero avvincente ma la Kristof fornisce un vero e proprio prontuario per chi desidera scrivere, consigliando linearità e trasparenza. Niente giri di parole, struttura semplice e trama complessa. Un esercizio letterario davvero notevole.
Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia (Agota Kristof, Trilogia della citta di K., Einaudi)

Al secondo posto metterei La strada di Cormac McCarthy. Questo libro post apocalittico mi ha fatto piangere. Scrittura minimalista, asciutta ed esemplare. Descrizioni fredde e secche, perfette direi. Sembra che non succeda niente durante l’intera narrazione ma è come se il lettore si trasformasse man mano che legge. Ho avuto l’angoscia per una settimana e credo che quindi McCarthy sia riuscito nell’intento che si era prefissato. Quando entri così dentro la storia allora vuol dire che le parole funzionano bene.
Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l'inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava ad ogni prezioso respiro. Si tolse di dosso il telo di plastica, si tirò su avvolto nei vestiti e nelle coperte puzzolenti e guardò verso est in cerca di luce ma non ce n'era. Nel sogno da cui si era svegliato vagava in una caverna con il bambino che lo guidava tenendolo per mano. Il fascio di luce della torcia danzava sulle pareti umide piene di concrezioni calcaree. Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito. Profonde gole di pietra dove l'acqua sgocciolava e mormorava. I minuti della terra scanditi nel silenzio, le sue ore, i giorni, gli anni senza sosta. Poi si ritrovavano in una grande sala di pietra dove si apriva un lago nero e antico. (Cormac McCarthy, La strada, Einaudi)

Al terzo posto metterei La camera azzurra di Simenon. Strutturato molto bene, con una ricostruzione a ritroso dei fatti degna di un vero maestro, è un libro che si legge d’un fiato. Molto ben costruiti i personaggi, studiati con cura e analizzati psicologicamente nel dettaglio al fine di spiegarne i gesti. 
Ti ho fatto male?
No
Ce l’hai con me?
No
Era vero. In quel momento tutto era vero, perché viveva ogni cosa così come veniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare che un giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire. E non solo tutto era vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto sfatto, nuda, con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma. Era felice? Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto di sì senza esitare. (Georges Simenon, La camera azzurra, Adelphi)

Quarto posto Firmino, libro leggero e scritto con una sensibilità letteraria incredibile. Firmino è il topino lettore dotato di un’immaginazione catastrofica, che vede tragedie ovunque e per questo gli ho subito voluto bene, perché un po’ mi somiglia.
Tutta la vita ho portato sulle spalle il fardello di un'immaginazione mostruosa, che mi ha quasi paralizzato. (Sam Savage, Firmino, Einaudi)

Al quinto posto un libro che inizialmente non mi aveva convinto ma che vale la pena di comprare anche solo due racconti a mio avviso strepitosi. Dieci dicembre è una raccolta di racconti di George Saunders. Racconti molto cerebrali che richiedono una forte partecipazione del lettore, uno sforzo di immaginazione e la pazienza di passare da uno stile all’altro a distanza di poche pagine. Da leggere assolutamente il racconto “Fuga dall’aracnotesta” che ho trovato geniale per l’idea, e “Le ragazze Semplica” che stravolge totalmente il concetto di letteratura classica. Insomma Saunders secondo me è totalmente pazzo.
Mettiamo che uno non sa amare, no? Problema risolto. Provvediamo noi. Mettiamo che uno ama troppo, no? O ama una persona che un familiare o chi per lui reputa inadatta... Gli diamo una bella regolata, a questo amore. Mettiamo che uno è triste, perché ama davvero. Entriamo in azione noi, o un familiare o chi per lui, e addio tristezza. Non saremo più navi alla deriva, a livello di controllabilità emotiva. mai più. Se vediamo una nave alla deriva, saliamo a bordo e montiamo il timone. La guidiamo verso l’amore. O nella direzione opposta. Dici che hai solo bisogno di amore? To’, ecco pronto l’ED289/290. Possiamo fermare la guerra? Be’, cacchio, quantomeno gli mettiamo il rallentatore! Improvvisamente i soldati iniziano a trombare coi nemici. O, a basso dosaggio, a volersi un gran bene. (George Saunders, Dieci dicembre, Minimum Fax)

Al sesto posto Previsioni del tempo, libro ambientato sull’Appennino emiliano che parla di rifiuti e corruzione. Forse non è una delle migliori opere del collettivo ma credo che contenga delle massime molto belle che, personalmente, ho annotato sul mio diario.
Le strade si erano fatte più distanti; ne percepiva eco e odori, però, sensazione nelle viscere, grumo nero mosso dalla disperazione. La città, disperazione organizzata, muoveva membra, articolava parole, accoglieva alcuni come un grembo, altri li sputava fuori, come semi d’uva. (Wu Ming, Previsioni del tempo, Einaudi)

Settimo posto per Bourdain, il famoso chef di New York. Kitchen confidential è un libro leggero, divertente, scorrevole. Mi piace come si esprime Bourdain, è leggero e usa parolacce in ogni frase.
Se ti offendi facilmente per degli insulti diretti sulle tue origini, le circostanze della tua nascita, la tua sessualità, il tuo asptto, la possibilità che i tuoi genitori si siano accoppiati con degli animali, allora il mondo della ristorazione non fa per te. Poniamo invece che tu veramente succhi cazzi, lo ‘prendi nel culo’: ciò non pregiudica la tua sopravvivenza. A nessuno importa veramente. (Anthony Bourdain, Kitchen Confidential, Feltrinelli)

Ottavo posto Giuseppe Rizzo con Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia.
Il titolo è molto buono secondo me. Io l’ho comprato per questo. Mi aspettavo molto di più a dire il vero, ma alla fine ho constatato che non ne valeva troppo la pena. L’ho trovato un libro per liceali, una cosa così, senza senso. Ce ne sarebbero stati di motivi per radere al suolo la Sicilia, ma quelli di Rizzo mi sembravano inconsistenti. 
Bisognerebbe mettere mano alla pistola ogni volta che qualcuno dice della splendida decadenza e dell’irredimibilità di questo posto, come fanno Camilleri Pirandello Tomasi. Bisognerebbe appiccare il fuoco, incendiare tutto, cambiare i connotati toponomastici e geografici di quest’isola, togliere ogni punto di riferimento agli isolani e al resto del mondo. Bisognerebbe, ecco, bisognerebbe che qualcuno si decidesse a scrivere un piccolo manuale per organizzare una guerra lampo, radere al suolo la Sicilia e resettare la mente di quelli un po’ cretini come te. (Giuseppe Rizzo, Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, Feltrinelli)

Ultimo posto, categoricamente, Il padre e lo straniero di De Cataldo. Cos’è? Non lo so. Un libro buonista, appena abbozzato, frasi sconnesse e storia tanto confusa quanto debole. Non mi è piaciuto per niente.
«E c'erano stati momenti in cui si era sentito impazzire, perché avevano un bel dire e suggerire, i professori, gli esperti, gli estranei, ma a suo figlio era stato negato il diritto di vivere, e allo stesso tempo avrebbe vissuto una vita sulla soglia dell'oscurità permanente».   (Giancarlo De Cataldo, Il padre e lo straniero, Einaudi)


Adesso sto leggendo La Vendetta, una micro raccolta di racconti della Kristof. Il primo racconto parla di una signora che uccide il marito con una scure. È lungo solo due pagine ma è un perfetto anticipo di ciò che promette questo libro: ironia macabra, visionarietà e immaginazione distorta e allucinata. Mentre leggevo, ieri sera, la bocca ha disegnato un ghigno sul mio viso. 


  



giovedì 6 febbraio 2014

La Palermo che si autodistrugge

Avvinghiati ai calcinacci, alle pietre, alla spazzatura, veli di polvere ci separano dal mondo,  l’opacità delle cose, le strade unte, la fatiscenza che ci relega ai confini del mondo. 
Parlare di una città è sbagliato. Palermo non è una città, è un luogo che si è fermato al Dopoguerra e noi abbiamo scelto di preservarla nelle sue storture, nelle sue deficienze, nelle sue mancanze e malformazioni. 
Questa volta tutti sono sopravvissuti, le bottiglie riverse in piazza, i cani randagi nati dall’incuria, i furgoni-ristorante, le risse, tutto preservato come nel più magnanimo dei miracoli. Questa volta siamo salvi. 
Ma non è mica tra la spazzatura che vogliamo vivere, e questa fatiscenza che noi palermitani amiamo ci farà implodere tutti, le piazze del centro imploderanno stanche della loro stessa rovina, le strade si sgretoleranno e i turisti affonderanno mentre viaggiano in carrozza, continueremo a sputare per terra, a distruggere e apprezzare solo il mare i colori e il bel tempo.
Si può vivere meglio, credo, in qualsiasi altro luogo. Si può vivere fuori dalle macerie, si possono abitare luoghi più sicuri.
Perché queste rovine diventino edifici o ancor meglio opere d’arte, bisogna allontanare l’amore per il marcio, per la decadenza, questa passione per i detriti, per gli avanzi.
Noi non meritiamo avanzi, sia chiaro. 

La nostra città merita di essere ricostruita, di essere sicura, di essere salva.

Piazza Garraffaello, 5 febbraio 2014

martedì 28 gennaio 2014

"chiuditi a riccio"

Il giornalismo dei tg vive da sempre un bel paradosso: rimanere indifferenti a tragedie immani. Ci siamo abituati tutti, infatti, alle tragedie.
Se li guardi, questi giornalisti della tv, sembrano indifferenti a tutto, sembra che i fatti di cui parlano siano legati geograficamente ad una galassia che non esiste. 
Questo è il primo motivo per cui odio i telegiornali. Ma cavolo, ogni tanto ti deve scappare un'espressione da quella faccia di bronzo, non so per sbaglio magari, ti si inarcano involontariamente le sopracciglia, un gesto di disappunto con l'angolo delle labbra, qualcosa, qualunque cosa che possa indicare che pure tu, giornalista di un altro mondo, sei un essere umano. E invece no, perché il giornalismo da noi è da sempre finzione.
Informazione piatta che al massimo verrà poi rielaborata dai telespettatori. O ruttata dagli spettatori, dipende dal livello di gastrite di ognuno. O bestemmiata, vedete voi.

Analizziamo le notizie di questi giorni.
Renzi ha incontrato Berlusconi al Nazareno: qualunque potesse essere il motivo, Berlusconi è pur sempre un imputato per frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita, induzione alla prostituzione minorile eccetera eccetera. 
Riina minaccia Di Matteo dal carcere. Il capo dello Stato non dice nulla, non una sola parola su un morto che cammina. Facciamo finta di niente. 
Ieri ti hanno chiamato ‘boia’ caro Napolitano, e fino a lunedì prossimo non si parlerà che di questo. Non è corretto chiamarti 'boia', è vero, ma non siamo tanto distanti dalla realtà. Tu, presidente della Repubblica, dovresti tutelare i nostri ‘morti che camminano’, i nostri eroi e, dopo la morte di Falcone e Borsellino, non credo che gli italiani perdoneranno altri ‘morti annunciati’ di mafia. Riina invece se ne sta tranquillo e dialoga indisturbato con Lorusso, criminale pugliese, e gli spiega che deve succedere un manicomio. E tu nemmeno una parola hai detto, una parola di solidarietà ad un magistrato che fa il suo dovere. 
Ti aspettiamo, Riina. Sei a posto, perché non c’è nessuno che in questo paese protegga i magistrati e chiunque voglia collaborare per la giustizia. Lo abbiamo visto nella puntata del 20 gennaio di Presa Diretta , in cui si evince che i testimoni di giustizia sono trattati come lebbrosi e vengono isolati per bene, e possono morire da un momento all’altro perché lo Stato tanto è complice. E tutti ‘sti stronzi, Lea Garofalo per esempio o Piera Aiello o Giuseppe Carini, tutti questi, inseriti in un programma che si chiama paradossalmente ‘programma protezione’, sono in realtà da eliminare perché sono solo dei pesi per il governo e perché non gliene fotte niente a nessuno. 

Non c’è che dire, la De Girolamo si dimette, e a me che me ne fotte, non sono queste le notizie che mi interessano, dice che è stata privata della sua dignità e del suo onore per la storia dell’Asl di Benevento. E ‘sti cazzi? Ben le sta. Mi pare ci siano cose più importanti della sua dignità.
E il papa? Gli rubano l’ampolla di sangue? La reliquia? Pista satanica? Si parla di ‘furto su commissione’. Interessante.

La gente fa la fila alle Poste per pagare la mini IMU. 
'Ma come si paga? Ma come si calcola? Come facciamo a sapere...?' 
'Signora, se la deve calcolare da sola, su Internet ha capito?'
'Ma io Internet non ce l'ho. Allora non so signora, vada in un Caf'. 
Ma ti pare che il governo dice alla gente di pagare le tasse, ognuno si calcola l'importo, se sbaglia paga la mora, e via con la rissa negli uffici pubblici. Bel paese di merda!

Privatizzano le aziende statali, dicono che si chiamano ‘esternalizzazioni’ e che anche uno che ha il contratto a tempo indeterminato da oggi rischia il licenziamento, l’IVA è al 22% e si risparmia pure sugli assorbenti, i commercianti di tutti i tipi non fanno lo scontrino nemmeno per i pagamenti di duemila euro, niente fattura, niente casini, paghi 100 euro in meno e qua la mano. 



E continuiamo a guardare i telegiornali e a farci avvelenare le cene. Io non lo guardo più il tg ma quando lo guardo mi viene la gastrite. E devo prendere il Riopan. Il medico dice (ridendo) che devo prenderlo ogni volta che guardo il tg o sfoglio un quotidiano. Così, per prevenzione.
Mi viene in mente il consiglio di Duccio, il personaggio di Boris. Lui sì che lo prendo sul serio. 



martedì 21 gennaio 2014

Alzheimer

La giornata che scorre a singhiozzo, tra bagno e cucina, apatia e noia mortale. 
La vedi che prende la forchetta e non ricorda più a cosa serve, fa domande su bambini inesistenti, parla solo di persone morte, ha lo sguardo vitreo e ride per cose senza senso. Ricorda ancora, fortunatamente, che le olive hanno il nocciolo e così non si affoga, mastica lentamente. E sa ancora che quella che sta mangiando è pasta col pesto ma sembra che non senta più i sapori perché quella pasta è uguale a tutte le altre. 
Crede che mio fratello sia ancora il bambino di due anni che si è versato la candeggina sulla maglietta e che io abbia dei figli. Riconosce ancora mio padre, crede che il cane parli e sia arrabbiato con lei e fa tantissimi discorsi senza senso.

Quando è andata via, le ho mandato un bacio da lontano, lei era già salita in macchina con mio padre. Mi ha guardato, io sulla soglia di casa, mi ha sorriso e l'ho salutata con la mano, le ho mandato un bacio e le ho sorriso. Per due o tre volte ci siamo mandate baci da lontano. 
Poi mi ha guardata con lo sguardo spento, totalmente alienata e stanca. 
Chissà se si ricorda ancora di me.

Non posso fare nulla nonna, solo abbracciarti forte e sperare che tu riconosca almeno il mio profumo per potermi sorridere ancora.

lunedì 13 gennaio 2014

"La scuola dei disoccupati" di Zelter

C’è una libreria, a Torino, che apre le porte nel cuore della notte e pullula di “nuovi profeti”.
Tra gli scaffali spiccano scelte editoriali inusuali, libri di nicchia intervallati da bicchieri contenenti rimasugli di cocktails. È lì che ho trovato La scuola dei disoccupati di Joachim Zelter, testo balordo e paradossale, pubblicato in Germania nel 2006 e in Italia da Isbn Edizioni nel 2012.

Questo libro va letto come una profezia, una di quelle profezie buone che fanno riflettere, una di quelle profezie che possono servire da monito e insegnamento.
Zelter, professore tedesco che insegna letteratura inglese all’Università di Tubinga e a Yale, racconta il 2016, anno in cui l’Europa conta più di dieci milioni di disoccupati. Un futuro ipotetico che vede la Germania in piena crisi economica, una crisi che viene fronteggiata, grazie all’aiuto dell’Agenzia Federale per il lavoro, con l’istituzione di una vera e propria scuola per disoccupati, chiamata Sphericon, vecchio capannone industriale svuotato di tutte le macchine.
Il libro di Zelter, che si propone come satira attualissima, appare quanto mai illuminante e profetico. La scrittura asciutta e didascalica annulla ogni sentimento dei protagonisti, che sembrano più marionette grigie che esseri umani in carne ossa. La fantascienza è il pretesto per parlare dell’attualità, in forma decisamente onirica e circense ma pur sempre reale.
La scuola dei disoccupati è un luogo in cui vengono condotti uomini e donne con un’età compresa tra i 25 e i 40 anni, individui che hanno perso la speranza, apatici e pallidi, resi inermi dalla mancanza di lavoro e guidati da 150 istruttori belli, abbronzati e con i denti bianchissimi che, a detta di Zelter, li trasformeranno in uomini di successo. 
Insegnano materie come Elaborazione biografica, Modellazione drammatica, Training telefonico o Aspetti astrali della candidatura.
Durante la prima lezione gli allievi sono invitati a “scavarsi la fossa”, nel vero senso della parola, imbracciando vanga e piccone in segno di buon auspicio per la nuova imminente vita. Dentro la fossa potranno lasciare tutte le false speranze e aspettative, i sogni e le illusioni. Ogni fossa è un nuovo inizio, un distacco dal passato.
Ma la preoccupazione principale degli istruttori di Sphericon, termine che fa riferimento all’apertura, intesa come critica verso se stessi e verso gli altri, è quella di insegnare agli allievi a redigere la lettera di presentazione e il curriculum vitae perfetti, ricorrendo all’immaginazione e alla fantasia nell’esercizio dell’elaborazione biografica. 
Colpisce l’ironia dell’autore quando descrive il direttore della scuola, che ai suoi allievi si rivolge così: «un curriculum vitae vincente non è dato da ciò che è stato, ma da ciò che avrebbe potuto essere, per condurre un’esistenza di successo. […] Se qualcuno di voi non ha il diploma di scuola media, allora non può avere la maturità. Altrimenti si infrange la regola di coerenza interna. Se però qualcuno di voi scrive di avere sia il diploma di scuola media che la maturità, anche se non ha né l’uno né l’altro, allora questo è un dato di fatto coerente. Consegue che può stare scritto in un curriculum vitae». 
Dunque gli allievi possono scrivere ciò che vogliono sul curriculum, purché il tutto risulti coerente e ben strutturato. Se si sentono vecchi, possono cambiare l’età, se non gli sta bene il luogo di nascita, che cambino anche quello. E se per caso son nati calvi o con il naso troppo grosso, possono far presto ricorso alle innovazioni in materia di fotografia e ritocco digitale offerte dalla scuola. Niente è impossibile finché tutto è plausibile. 

I curricula sono fittizi, sono solo montature, una forma di letteratura applicata. Da ciò deriva che un romanziere di successo è anche un ottimo scrittore di curricula e viceversa. È stupefacente come certa letteratura risulti sostanzialmente essere una forma di metaletteratura, ovvero è sorprendente che così tanti scrittori facciano ricorso all’espediente della scrittura intesa come salvezza, come unico rimedio previsto per il miglioramento della propria condizione. Solo i romanzieri, i veri letterati talentuosi avranno una speranza di trovare un lavoro perché loro avranno il vantaggio dell’immaginazione, della creatività e dell’estro. Straordinario che inconsciamente Zelter assolva se stesso e si attribuisca il merito di avere un lavoro solo grazie al suo profilo letterario, al suo essere non solo un professore – figura che in ogni modo non andrà mai incontro a nessun tipo di declino (e unica contemplata all’interno di Sphericon) – ma uno scrittore, un individuo almeno capace di inventare altri mondi, possibili o impossibili che siano.

Sphericon è il luogo in cui gli anni di disoccupazione vengono reinventati dagli studenti, in cui gli anni vuoti vengono riempiti di storie fittizie, è il luogo in cui chi si costruisce il passato più avventuroso merita voti più alti. Per colmare gli anni vuoti di Karla, una studentessa trentenne, la classe suggerisce un viaggio in Sudamerica. Per far cosa? Per visitare alcuni parenti. E cosa faceva Karla nel frattempo in Sudamerica? La guida turistica. Sembra interessante, ma sarà compito di Karla studiare non solo la geografia del Sudamerica ma anche lo spagnolo per passare gli esami di fine corso, quando dovrà sottoporsi ad un vero e proprio colloquio simulato che sa tanto di interrogatorio. Il professore, rivolgendosi ancora a Karla, chiederà: «Quale finzione biografica della sua vita la entusiasma di più?»

L’aria che si respira all’interno della scuola è pesante e grottesca. Sphericon può essere abbandonata solo varcando il portone principale che permette l’accesso alla Dusseldorfer Strasse, una strada che non porta a nulla, dove non passano autobus. All’ingresso della scuola campeggia la scritta Work is Freedom che può essere letta anche al contrario, Freedom is work e tutto questo è un chiaro riferimento ai campi di concentramento della Germania nazista.
Gli allievi, così ordinati, disciplinati e disposti a qualsiasi cosa per trovare un lavoro, sono invitati, durante le lezioni di Elaborazione biografica, a spulciare tra i necrologi per scoprire chi sia morto e quale posto lavorativo si sia liberato, sono invitati a contattare la famiglia del deceduto per chiedere il numero di telefono del datore di lavoro di riferimento. 
Leggendo il libro di Zelter, ci si sente come avviluppati nelle braccia di un mondo in cui non c’è scampo. Si è presi da uno sconforto ottimistico per cui disertare e non comportarsi esattamente come gli altri e disobbedire porta dritti alla rovina, in cui la gratificazione coincide con il conformismo bieco, con un guardaroba di grembiuli grigi, grembiuli creati a bella posta quali abiti indicati per svolgere il vero lavoro della generazione europea del nostro secolo: cercare un lavoro. Il vero lavoro quindi è cercare lavoro. 
Il tema in sé è forse un po’ abusato ma l’autore, attraverso una serie di espedienti che raggiungono l’apice del grottesco proprio nel finale improbabile quanto angosciosamente profetico, regala al lettore un sorriso di complicità pagina per pagina, dall’inizio alla fine del libro. Quella raccontata è un’Europa che per fregiarsi del suo nobile nome, ha bisogno di sputare fuori i suoi membri, di riversarli in un altro continente.

Il ricorso al paradosso rende la situazione descritta ancor più attuale. È ciò che succede anche in un’altra opera che, quasi in contemporanea, affronta lo stesso tema in chiave altrettanto paradossale e grottesca: il film Cacciatore di teste di Constantin Costa Gavras (2005), tratto dal libro The Ax (che in italiano significa la mannaia) di Donald Westlake, pubblicato in Italia da Alacran Editore nel 2008.
Bruno Davert, benestante chimico cartaceo, dopo venticinque anni di lavoro nella stessa ditta, viene licenziato. L’opportunità di essere assunto da una compagnia che richiede una figura professionale in linea con le sue competenze, è minacciata da un alto numero di candidati concorrenti. La soluzione scelta dal protagonista è quella di ucciderli tutti, in modo tale da accaparrarsi il posto di lavoro. Per mantenere l’alto tenore di vita ormai consolidato negli anni, il protagonista non può che scegliere la strada più spietata. Le riflessioni sul tema della disoccupazione sono amare e i rimedi al problema irreversibili: «in Europa funziona così, dice un personaggio del film, prendono i migliori e li buttano via. Bisognerebbe rimettere l’uomo al centro di tutto».
Interessante che l’eliminazione dei rivali da parte del protagonista abbia origine non dal sentimento di vendetta quanto dall’istinto di sopravvivenza.
Migliaia di lavoratori vengono licenziati, il profitto delle aziende diminuisce, si abbassa il potere d’acquisto, il popolo dei consumatori via via scompare e gli industriali sono costretti a vendere le proprie aziende ai cinesi, ai giapponesi, agli arabi.


Parlare di profezie non è mai stato tanto facile. Sembra semplice infatti immaginare un sistema in cui i poveri si fanno la guerra e si scavano la fossa da soli, in cui nuove dittature di finissimo acume forgiano “lavoratori alla ricerca di un lavoro”, in cui inedite e pesanti leggi politiche e misure economiche restrittive gettano le basi per una costante e massiccia emigrazione dal proprio paese, in cui le carte colorate di questo fitto mazzo di umani verrà rimescolato fino a non avere più una sua identità.

Articolo pubblicato sul n.11 della rivista Il Palindromo