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lunedì 23 settembre 2024

Di città soffocanti, gente frustrata, vincoli sociali e ragazzini odiosi

 

Nelle strade che percorro giornalmente c’è una nebbia fittissima. Non appena apro la finestra solo macchine, impegnate nello slalom della puntualità quotidiana. I pochi passanti hanno i paraocchi, evitano gli sguardi altrui il più possibile, sembrano dei cadaveri vestiti in bianco e nero, con le facce scavate dall'aria putrida.

Mi perdo negli sguardi delle madri con il fiatone, dei tossici che si trascinano a fatica con gli occhi sgranati, dei vecchietti con il cane da compagnia, dei ragazzi di Glovo con una mano sul cellulare e l’altra sul manubrio della bici. Non mi sento sola, mi sento isolata piuttosto. E così vedo loro, isolati. 

Quando scendo da casa anch'io mi trasformo in uno di loro. La signora che mi cammina accanto trema quando sente dei passi dietro di lei, l’automobilista insulta il conducente dell’auto che gli sta davanti, l'edicolante prega che non entri nessuno a comprare, a giudicare dall'atteggiamento misantropo. Sembrano tutti svogliati e lobotomizzati, come incasellati in cubicoli che non hanno alcuna traccia umana.

Sto solo respirando gas di scarico, penso. Lo repiro da 12 anni o 13. E mi chiedo cosa significherebbe rifiutare tutto questo, rinunciare a questa gabbia per qualche tempo.

Mi pento di vivere così, di aver vissuto così fino a questo momento, mi pento della riservatezza imposta, dei sorrisi forzati e un abbraccio sincero solo ogni tanto, del decoro urbano e di quello che bisogna dire o non dire per non ferire la gente permalosa. Mi pento dei vincoli sociali, di tutte le sovrastrutture mentali che mi fanno diventare un automa.

Non ci sono più panchine, penso. Io mi sedevo spesso sulle panchine, mi piaceva. Le panchine ti permettono di fermarti e osservare un pezzo di città, ammirarla, conoscerla. Le panchine sono luoghi di ritrovo, possono essere luoghi veri ma in qualsiasi comune, da nord a sud, hanno deciso di trasformare quasi tutti gli spazi pubblici in 'non luoghi', togliendo di mezzo qualsiasi supporto per sedersi o facilitare l'aggregazione

Mi sembra che la mia vita sia diventata una vita in punta di piedi, un continuo fare attenzione a non fare casini, offendere o ferire nessuno, a dire le cose giuste al momento giusto, senza il gusto di essere sé stessi o non prendersi sul serio. Sento che il mio desiderio di ironia o spontaneità rovini le giornate alla gente che mi circonda. Tutto questo mi toglie la libertà di essere me, mi paralizza anche negli intenti, nelle passioni, in ogni tipo di azione propulsiva.

Ho anche un altro problema poi, odio i ragazzini di oggi. Si incontrano a casa o al parco ma tengono lo sguardo fisso sul Youtube, Snapchat o TikTok, respingendo qualsiasi tipo di contatto visivo, non vedendo nemmeno che è dallo sguardo che passano le emozioni. Hanno come obiettivo quello di pubblicare migliaia di video e ricevere like dagli altri ragazzini, cercano popolarità con ogni mezzo e non sono disposti ad imparare più nulla dai genitori o dai maestri. Mangiano male e ad ogni ora e non accettano i 'no' come risposta, sono volubili e suscettibili. Crescono interpretando ruoli diversi in ogni momento della giornata cambiando continuamente filtri su Instagram. Credono che tutto ciò che merita di essere visto sia riprodotto da uno schermo, imparano dagli influencer, mestiere che peraltro sognano di fare da adultianziché da un viaggio, una gita, una lezione.  

Pallidi sono, senza amore per gli altri. Fare qualcosa per loro ha senso solo se si può fotografare, postare e ottenere like.

Il mio dolore è estraneo alla volontà di giudizio manichea. Non voglio condannare nessuno né affermare che noi da ragazzini eravamo completamente diversi. 

Dico però che questo cambio generazionale ha palesato una delle mie paure più grandi, ovvero quella del soffocamento dell'individualità, quell'individualità costruita dal confronto con l'altro, il diverso, il nuovo, e che passa attraverso delle emozioni reali, che coinvolgano tutti i 5 sensi. Vivere una vita di finzione costante corrisponde a spazzar via una parte di sé stessi, e se al compiacimento dell'altro corrisponde il compiacimento e la soddisfazione di sè stessi, come si  fa a capire chi si è davvero e come si fa a confrontarsi con la realtà?






sabato 13 aprile 2013

Paura nelle città. Lo spazio urbano secondo Bauman.

Viviamo con la consapevolezza di essere vittime della paura, della violenza, dell’impotenza sociale. Quest’uomo ci dimostra che il potere è nelle nostre mani
(Frank Miller, Batman: il ritorno del cavaliere oscuro, DC Comics, 1986)

Qualche tempo fa, alla stazione Termini, a Roma, capii cosa significa sentirsi veramente a disagio in un luogo. Ero arrivata in anticipo. Volevo fumare una sigaretta fuori ma mi accorsi subito che non c’era nemmeno una panchina. Da una parte c’era un gruppo di ragazzi africani ubriachi, dall’altra sfilavano le persone perbene, sgomitando per la fretta. Io stavo in mezzo e sentivo crescere un nervosismo forte. Sono entrata dentro la stazione. Mi sono fatta largo tra i corpi e sono arrivata al binario. 


Lì ho notato una valigia sospetta. Forse qualcuno l’aveva dimenticata oppure, forse, c’era una bomba dentro. Mi accorsi che un ragazzo, forse indiano, guardava la valigia. Aveva gli occhi strani. Accanto a lui c’era un altro tipo, grasso, con l’impermeabile stretto. Sembrava che sotto l’impermeabile avesse qualcosa, forse... No, non poteva essere imbottito di esplosivo. Mi ero sentita angosciata tutto il tempo, fino a quando non ero salita sul treno. Stavo forse diventando paranoica?Dal finestrino, poi, avevo visto quelle facce che si allontanavano e avevo ripreso a respirare.
Ci sono dei luoghi che, nonostante siano pubblici e affollati ogni giorno da centinaia e centinaia di persone, infondono un senso di paura e angoscia.
Non sono riuscita a capire il motivo di questa angoscia fino a quando non ho letto Fiducia e paura nelle città (Mondadori, 2005) del sociologo polacco Zygmunt Bauman, testo che, con parole molto chiare, analizza il tema dell’insicurezza dei cittadini in rapporto al luogo in cui vivono. 
Da quando il mondo si è ‘allargato’ e si sono moltiplicati i messaggi di pericolo provenienti dai mezzi di comunicazione di massa, da quando l’incertezza determinata dalla crisi economica si è insinuata nelle nostre vite, bisogna far fronte a problemi che coinvolgono non solo la sfera locale ma anche quella globale. La concezione dello spazio urbano è cambiata e, da luogo di inclusione, la città diventa luogo di esclusione. 
Bauman ci spiega come è avvenuto questo cambiamento e quali sono gli elementi che caratterizzano la nuova organizzazione dello spazio all’interno della città.
Un elemento di trasformazione si individua nella chiusura sempre crescente degli spazi, nell’isolamento che si esplicita in una vera e propria ‘architettura della paura’, un’architettura di ‘spazi preclusi’ che segnano la disintegrazione della vita comunitaria che proprio lì veniva consumata e condivisa. L’intento degli ‘spazi preclusi’ è piuttosto quello di dividere, escludere e non creare luoghi di incontro. L’architetto americano Steven Flusty spiega che questi stratagemmi architettonico-urbanistici sono l’equivalente delle antiche mura della città; ma invece di difendere gli abitanti da un nemico esterno, tendono a tenere divisi gli abitanti stessi. Ovunque, all’interno di una città, troviamo delle barriere fisiche, intorno alle case, ai condomini, agli uffici. La presenza di telecamere o di guardie armate che sorvegliano il movimento dei passanti e l’assenza di panchine davanti alle stazioni per allontanare i vagabondi - costringendo i passeggeri in attesa ad accomodarsi sul pavimento, come dimostra il caso della stazione centrale di Copenhagen - sono alcuni esempi di riduzione dell’uso dello spazio.
Un altro esempio palese è quello di Palermo, una città in cui gli spazi sono preclusi ai pedoni e in cui edifici, alberi, cespugli o fontane sono recintati o delimitati da cancelli. Il rapporto del palermitano con la sua città è un rapporto di preclusione totale con i luoghi.  La nuova architettura della vigilanza e della distanza ha dismesso i luoghi deputati alla comunione, per ridurli in spazi chiusi. Da ‘luoghi’, dunque, i centri di condivisione, si trasformano in ‘spazi’ privi di qualsiasi significato collettivo. Da qui, afferma Bauman, la paura degli stranieri, diventati le vittime perfette sulle quali scaricare l’ansia generata dall’incertezza. E da qui la volontà di ritirasi all’interno di una ‘comunità di eguali’. 

In fondo, si possono ottenere importanti profitti commerciali sfruttando l’insicurezza e la paura dei cittadini. Si pensi al boom delle vendite dei Suv, intesi come capsule difensive o all’adozione massiccia di allarmi, porte blindate e telecamere di sorveglianza anche all’interno delle abitazioni. Tutto fa pensare che abbiamo bisogno di isolarci in gusci protettivi, di evitare il contatto con gli altri.

Ma perché tracciare continuamente confini invece di intendere lo spazio come luogo di aggregazione? Probabilmente perché abbiamo bisogno di ritagliarci un posto sicuro in un mondo che si presenta minaccioso e pieno di rischi. 
Le istituzioni politiche, d’altra parte, non riescono a far fronte alle esigenze di tutti i cittadini  in quanto non possono trovare soluzioni locali a problemi globali.
Allora come possiamo far fronte a questi problemi, alla paura che caratterizza la vita urbana contemporanea? Bauman propone di servirci delle differenze per combattere il senso di insicurezza all’interno della città, di non rifugiarci in ‘isole di uniformità’ ed esporci agli spazi pubblici per confrontarci con gli altri, per riallacciare il legame con i nostri concittadini  e con il nostro territorio perché più è svalutato lo spazio, più la gente traccia confini in modo ossessivo. 
Fare in modo che le nostre città diventino dei laboratori adatti ad un esperimento di integrazione può convincerci a mettere da parte la paura e vivere lo spazio con più consapevolezza, far sì che lo spazio diventi ‘luogo’, perché è nei luoghi che l’esperienza umana si forma e si condivide.

Forse, però, questo luogo esiste già. Se il centro di condivisione all’interno di una città era la piazza, oggi è il web. Leggendo La città delle reti (Marsilio, 2004) del sociologo catalano Manuel Castells, ho capito che viviamo il paradosso di un contesto prevalentemente urbano anche in assenza di città, cioè senza un sistema di condivisione di luoghi e di significati culturali. Qual è questo contesto urbano? È proprio quello della rete, in cui idee e pensieri vengono divulgati e condivisi con un solo click. Il meccanismo creato dai social network colma il vuoto che le amministrazioni locali delle città contemporanee non possono e non riescono a colmare. Laddove la politica non arriva, intervengono i social network. 
Quello virtuale non è solo un mondo ‘condiviso’, al pari di una piazza urbana, ma è anche un luogo in cui ogni cittadino può ricavarsi il suo spazio. 
Viene da chiedersi, leggendo Castells, se abbiamo smesso di considerare la città come un luogo di scambio e di interazione quando abbiamo capito che la sua gestione non era compito nostro. Se le politiche locali sono inadatte a risolvere problemi di natura globale, lo spazio all’interno delle città assume una nuova forma.
Se si cercasse, suggerisce Castells, di sfruttare i trend di mercato per costruire o ‘ristrutturare’ una città, ci sarebbero buone probabilità di ottenere la ‘città perfetta’. Tutto quello di cui noi cittadini abbiamo bisogno traspare dalla rete e, se le aziende possono sfruttare le indagini di mercato per vendere un prodotto, la stessa cosa può essere fatta per concedere ai cittadini ciò di cui hanno realmente bisogno. In politica, esiste la figura dello spin doctor, il cosiddetto ‘dottore del raggiro’, una sorta di consulente talmente esperto di marketing da creare personaggi la cui immagine pubblica possa fare presa sui gusti della gente. Perché i trend di mercato, utilizzati per invogliare i cittadini ad acquistare un prodotto, non vengono utilizzati per soddisfarli? ‘Accontentare’  i cittadini, diventerebbe fin troppo facile. 
L’eccesso di stimoli, di spazi condivisi e di idee che si trovano nel web costituiscono una risorsa fondamentale. Mettere la rete al servizio della città, potrebbe essere un’idea interessante per ricreare dei luoghi di condivisione all’interno di essa. Quando aumenteranno i luoghi di condivisione, dovremo necessariamente affrontare le nostre insicurezze e, forse, non avremo più paura di essere in tanti ad occupare lo spazio cittadino.

Articolo pubblicato sul n. 8 della rivista Il Palindromo

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