lunedì 27 luglio 2015

"Ciao Marx, Ciao Kafka. Ciao sogni di uguaglianza e di fratellanza". Ciao Sebastiano Vassalli

La scrittura di Sebastiano Vassalli, uno dei più grandi interpreti contemporanei della crisi nichilistica, è caratterizzata da una potente ambiguità, da un realismo feroce e disincantato.
Ho avuto il piacere di conoscerlo il 28 maggio del 2008, ad un incontro organizzato dall'Università degli Studi di Palermo, e di rivolgergli alcune domande (alcune davvero ingenue) per il mio lavoro di tesi. 
In occasione della sua morte riporto l'intervista che mi concesse in esclusiva, in memoria di uno dei migliori scrittori e narratori del nostro tempo.

D. I mezzi di comunicazione di massa che inducono all'emulazione e all'alienazione, l'anestesia dei sensi e dei sentimenti che questi hanno provocato, sono temi a lei cari. Pasolini proponeva provocatoriamente l'abolizione della televisione. Lei pensa che occultare determinate notizie, penso per esempio ai telegiornali e alla cronaca nera, possa essere un valido strumento di risanamento della nostra civiltà?
R. Se si abolisse la televisione non si abolirebbe proprio nulla perché un certo tipo di comportamenti devianti, aberranti, prevaricatori ci sono sempre stati. Però nella sua domanda c’è un dato oggettivo, un riscontro oggettivo. In effetti l’essere umano, che ha tante qualità e tante doti, per esempio quella dell’intelligenza, ma in definitiva per certi aspetti è sostanzialmente stupido, ecco. C’è questa tendenza forte, e chi come me ha passato la vita a raccontare le storie degli uomini lo sa bene, a ripetersi, a imitarsi. 
Nella mia vita ricordo anni in cui si verificavano certe strane epidemie. C’è stato un periodo, forse quindici anni fa, in cui c’erano i suicidi nelle caserme. Effettivamente smorzando la gran cassa mediatica, tenendo le notizie un po’ sotto tono si è riusciti a tenere a bada il problema. Più se ne parla peggio è. Ma, diciamocelo pure, se anche non ci fosse l’emulazione portata dai mezzi di comunicazione di massa, il mondo non è che andrebbe molto diversamente. Vero è che tante cose che si fanno, si fanno perché gli altri le sanno. Ecco, adesso in maniera molto indiretta abbiamo toccato una delle ragioni profonde della letteratura. Una delle ragioni profonde della letteratura, se non forse proprio la ragione profonda, dai tempi di Omero, è questa: che gli uomini vogliono che ciò che fanno, nel bene e nel male, sia saputo, sia conosciuto. E se non ci fosse questa possibilità di tramandare, di far  conoscere, io credo che il mondo sarebbe fermo. Gran parte di ciò che noi chiamiamo progresso, le invenzioni, gli eroismi, chi li avrebbe fatti? Immagina un mondo dove nessuno non sa nulla, dove non si tramanda la memoria di ciò che avviene. La letteratura è l’arte del racconto, è un’arte antichissima e che non morirà mai. Secondo me fin quando ci saranno nel mondo gli uomini, ci sarà chi vorrà raccontare una storia e chi vorrà ascoltarla, perché ne ha bisogno. L’essere umano, privato di questo rapporto con gli altri, si inaridirebbe. 
Prendiamo per esempio un grande romanzo della letteratura inglese, che è Robinson Crusoe. È un romanzo bellissimo ma è basato su uno spunto irreale, anche se poi mi hanno detto che si riferisce ad un fatto effettivamente accaduto. Lo spunto ideale nella letteratura è bellissimo, ma nella realtà non starebbe in piedi. Alla fine un uomo, nelle condizioni di Robinson Crusoe si ridurrebbe ad un livello di pura sopravvivenza, e non avrebbe più stimoli di alcun genere.
I mezzi di comunicazione di massa non fanno altro che amplificare ciò che comunque è sempre avvenuto e sempre avverrà. Creano anche dei fenomeni di emulazione, che però di per sé non cambiano la realtà.

D. Sarcasmo, paradosso e disillusione sembrano le direttrici principali del suo testo La morte di Marx, in cui racconta il disagio della nostra società, in cui i personaggi  appaiono grotteschi e la civiltà senza alcuna speranza. Si sente estraneo questa umanità 'mutata' che la circonda? 
R. Se mi sentissi estraneo sarei matto. Realmente il limite delle nostre storie è il limite dell’umano. Una cosa che mi ha insegnato questo mestiere è che le storie umane sono solo apparentemente molto complesse, in realtà sono semplicissime. 
Punti di riferimento certi ce ne sono due o tre: il primo è che si nasce, il secondo è che si muore, il terzo è che si impiega la maggior parte del tempo che intercorre tra queste due date a infastidirci tra di noi. Questa è la sintesi di tutte le storie umane. 
Mi è capitato di inventare un racconto più o meno paradossale per il Corriere della Sera, in occasione del Natale. Mi chiedevano di scrivere cosa avrebbe dovuto regalarci secondo me il Bambin Gesù o Babbo Natale. Io scrissi nel racconto che Gesù avrebbe dovuto regalarci un nemico abbastanza temibile per tenerci in riga, che ci avesse costretti a fare i conti con le nostre umane debolezze e ci avesse fatto riflettere sul fatto che è inutile che stiamo a scannarci tra di noi perché c’è sempre il nemico in agguato; oppure ci avesse esortati ad amministrare un po’ meglio le risorse del nostro piccolo pianeta, perché un giorno dovremo rendere conto di tutto. 
Certamente mi sento parte di questa comunità, ma non ne sono felice. Come diceva Voltaire, “soltanto un perfetto cretino può essere felice a questo mondo”. 

D. Ne La morte di Marx e L’Italiano si parla del presente, della società contemporanea e del carattere degli italiani. Oltre ai temi, rispetto ai testi precedenti, cambia anche la struttura compositiva. Perché abbandona la struttura romanzesca e adotta quella del racconto? Che valore ha questa struttura?
R. L’Italiano voleva riflettere la realtà del nostro carattere nazionale. Anche se ci piace raccontare che noi non ce l’abbiamo un carattere nazionale, la realtà abbastanza tragicomica è che ce l’abbiamo, e come!, un carattere nazionale. Io ho cercato di raccontarlo attraverso alcuni episodi che a me sembravano particolarmente illuminanti. Sia nell’Italiano che ne La morte di Marx la struttura del racconto era determinata dalla realtà. Il romanzo nell’Ottocento racconta una realtà in sé completa, nasce come specchio del mondo. Io ho creduto, e in parte ancora credo, che la realtà di oggi sia così frantumata che non si presta ad essere riflessa in un unico disegno. Se la realtà è frantumata anche l’immagine che ne viene fuori deve essere per forza frantumata anche se poi i vari frammenti dello specchio alla fine ci daranno un’immagine che è quella complessiva.

D. “È l’odio puro, disincantato, astratto, disinteressato quello che muove l’universo e che sopravvive a tutto”. Vede l’odio come motore del mondo, insomma. Mi chiedo se in mezzo a questo frastuono umano, in mezzo a questo infastidirci a vicenda lei intravede anche solo un barlume di speranza per questa umanità che racconta.
R. Negli anni Settanta conoscevo uno scrittore di origini inglesi nato in Argentina. Si chiamava Rodolfo Wilcock, viveva a Roma ed era uno stranissimo personaggio. Una volta si parlava dei sentimenti umani in rapporto alla letteratura e Wilcock mi disse: “guarda, l’amore e l’amicizia sono cose che vanno e vengono. Ma se tu hai qualcuno che ti odia non sei mai solo”. Io all’epoca avevo vent’anni.
Il pensare che il più forte dei sentimenti umani sia l’odio non mi viene solo da Wilcock. Mi viene da tutta una riflessione sulla realtà che però va un po’ spiegata e addolcita. La parola odio impressiona. L’odio è un sentimento che ha un’infinità di componenti, e non tutte negative. Comprende anche la competizione tra gli esseri umani, il voler essere di più e meglio rispetto alle persone con cui si vive. Comprende anche quelle cose che muovono il mondo anche in senso positivo. Se gli uomini si volessero bene e basta, sarebbero ancora lì che saltano da un ramo all’altro. Non ci sarebbero più storie. Io dovrei cambiare mestiere perché sarebbero finite le storie. Sarebbe finito tutto, non si muoverebbe più niente. Questa parolina di quattro lettere include al suo interno più livelli di significato, comprende le rivalità, lo sport, il voler essere più avanti nella ricerca scientifica, il voler ottenere dei riconoscimenti. Tutto ciò nasce da un perenne stato di rivalità tra gli esseri umani che poi muove tutte le nostre storie. Questo ce l’ha insegnato la Bibbia e ce l’ha insegnato Freud, l’atteggiamento dominante nel mondo non è l’amore, è l’odio.
Una volta mi invitarono a Ferrara in un liceo - non mi ricordo se fosse classico o scientifico - e, durante l'incontro con gli studenti, il preside insorse e disse “non possiamo comunicare ai giovani dei messaggi così negativi”. Io dissi: “io cerco di non essere né positivo né negativo. L’orizzonte è il realismo. Io sono uno scrittore, uno che racconta storie. Non ho soluzioni di nessun genere, né le cerco. E nemmeno posso prendermi il lusso di parteggiare per una cosa o per l’altra. La grandezza di uno scrittore è quella di non calarsi dentro ciò che racconta, ma di calarci gli altri. Omero non teneva né per Ettore né per Achille però, ancora oggi, se un’insegnante in una scuola media fa leggere Omero ai ragazzini, loro si divideranno in coloro che tengono per Ettore e quelli che tengono per Achille. Questa è la grandezza della letteratura. Bisogna raccontare quel mondo tenendosene fuori, anche se a volte sarebbe più gratificante e porterebbe più quattrini raccontarlo come gli altri vorrebbero che fosse. Io dipingo quello che vedo. Diffidate di chi vi trasmette messaggi. Non è compito dello scrittore. Trai tu le conseguenze che vorrai, parteggia per Ettore o per Achille. L’importante è che non sia io a dirti dove devi andare. È del tutto irrilevante cosa penso o quali speranze vedo o quali disperazioni ho. Anche il povero Leopardi trascorse una vita a cercare di spiegare che questo rapporto uomo-natura come lui lo rappresentava non dipendeva dalle sue infelicità personali ma da una visione filosofica. Anche Leopardi cercava di distinguere assolutamente il proprio stato personale dalla rappresentazione oggettiva che riguardava tutti gli uomini. Io non ho assolutamente nessun messaggio da comunicare. Io mi calo dentro certi temi perché cerco di capirli meglio. La letteratura è questo tentativo che si prolunga nei secoli e nei temi di dare dei barlumi di significato.

D. Lei ha detto di voler solo registrare il reale, mentre secondo me nella sua scrittura c’è un giudizio molto forte, anzi la sua scrittura mi pare pervasa da una sorta di moralismo inquieto che si traduce in una distinzione manichea tra bene e male. Leggendo molti suoi romanzi mi sembra che ci sia una netta opposizione tra personaggi positivi e personaggi negativi, come i mafiosi de Il cigno che vengono descritti in maniera grottesca, trattati anche con un risentimento irridente ma comunque feroce. Lei, in un’intervista, accusa di omertà gli scrittori siciliani. E leggendo le sue opere capisco da cosa possa nascere questa convinzione perché, nelle sue opere, la distinzione tra bene e male è netta. Invece spesso nelle opere degli scrittori siciliani, nelle opere per esempio di Pirandello o di Sciascia si vuole indagare piuttosto sulla complessità di una 'zona grigia' che ospita dei contatti fatali tra bene e male. La mafia spesso vive in questa 'zona grigia', quindi questo sguardo degli scrittori siciliani, secondo me, è uno sguardo che indaga la complessità, una complessità che, se non si conosce a fondo, spesso non si può giudicare. Volevo chiederle se ha ridefinito la sua opinione su I vecchi e i giovani di Pirandello, in cui peraltro compaiono anche attacchi al mal costume dei siciliani e a certi comportamenti, che emergono dai discorsi di Caterina Laurentano; e poi, se effettivamente questa dicotomia tra bene e male che io scorgo nelle sue opere sia un metodo conoscitivo e una scelta morale.
R. Ha ragione, nel senso che fino a qualche anno fa ero più fanatico, ero più portato a dividere il mondo in luci ed ombre, in bianco e nero. Per quanto riguarda I vecchi e i giovani di Pirandello credo sia un romanzo che venga letto meno di quanto meriti. Contiene un bel pezzo di storia siciliana e italiana in generale. Questo Maurizio Mortara che assiste allo sfacelo di una certa società politica italiana rimpiangendo l’onorata società e la dimensione rurale del suo paesello. Questo sarà portato ai massimi livelli da Sciascia ne Il giorno della civetta.

D. In Archeologia del presente il narratore dice: “Io sono un fanatico dell’Aspirina. Questi dischetti bianchi sono una delle poche certezze che ci ha dato questo nostro secolo. L’utopia socialista è crollata, la fede nel progresso è crollata, ma l’Aspirina, per la mia generazione, è un punto di riferimento incrollabile, e non mi deluderà mai. Se non credo nell’Aspirina, in cosa posso credere?”. Vorrei sapere in cosa crede oggi Sebastiano Vassalli.
R. Perché lo vuole sapere? A cosa le serve? Come ho scritto nel libro, il principio attivo dell’Aspirina, contenuto nella corteccia dei salici e in alcune erbe dell’ambiente palustre, era già noto ad Ippocrate e alla medicina greca antica. Sì, credo ancora nell’Aspirina.








martedì 21 luglio 2015

Raccontami dei tempi di piazza Magione

‘Scrivi di piazza Magione’ mi hai chiesto, ‘ricordami com’ero, ricordami come eravamo’. Dici che è stato uno dei periodi più felici della tua vita. Certo che te lo ricordo, e soprattutto cazzo, non siamo mica morte, c’è sempre tempo per ritornare così belle come eravamo e ti assicuro che vivere ancora lì, in quella piazza, e provare quelle sensazioni, si può.

Venivo a prenderti con la mia Cinquecento blu, la magica Brigitte. E ti trovavo sempre avvolta in quelle pareti bianche, vuote e squallide, nemmeno un poster, solo collage demenziali e qualche ritaglio di giornale a formare immagini e frasi nonsense. Il senso estetico che caratterizza la nostra civiltà non ti appartiene, non ti è mai andato a genio, sei sempre stata un po’ sui generis e per me all’inizio eri incomprensibile. Appesa alle pareti bianche tenevi anche una gamba di plastica, una di quelle gambe che si usavano nelle mercerie per esporre le calze. All’occorrenza prendevi la sedia, la tiravi giù e la suonavi. Dicevi ‘aspe’, tu canti e io ti accompagno con la gamba’. Hai sempre avuto un senso del ritmo invidiabile e abbiamo anche scritto una canzone insieme, che chissà come faceva. 

Allora c’era questa casa di corso Tukory e tu portavi un basco che non raccoglieva nemmeno tutti i capelli, tanto erano ricci e per i cazzi loro. Portavi degli occhialetti da brava ragazza e vestiti demodè, avevi abiti di cent’anni fa raccattati da parenti vari e roba sempre larga, non ti  truccavi e d’estate le lentiggini ti illuminavano il viso. Le gambe secche e una forza inumana, la ferocia di chi vuole prendersi tutto e tutti, il sorriso sempre in mostra, davvero, per chiunque. 
Il portiere, Filippo, ci provava con te e Bimbo. Lo chiamavate per uccidere gli scarafaggi. Non ti faceva paura niente ma appena vedevi uno scarafaggio diventavi cretina e dovevi chiamare il portiere. Sei diventata amica del tuo dentista (da quando ti è caduto un dente mentre mangiavi la pastina) e vi sentivate tutti i giorni. Il dentista per me era vecchio e non capivo come potessi aver raggiunto quel grado di confidenza con lui, tanto da incontrarlo al bar per un caffè o una birra. 
Noi studiavamo, e studiavamo cose diverse. A me piaceva quello che studiavi tu e a te piaceva la letteratura. Io ho imparato due o tre parole in arabo e in inglese e tu hai scoperto chi erano Pasolini e la Fallaci, e poi abbiamo studiato storia dell’arte contemporanea, una materia in comune finalmente, ed è stato bellissimo. La passione per la letteratura e per l’arte ci ha travolte per un bel po’ e passavamo interi pomeriggi a dipingere le pareti della tua stanza. Abbiamo impiegato quasi tre giorni a pulire quando la proprietaria ha visto come le avevamo ridotte e si è incazzata a morte. 

Fumavi già tantissimo ed eri sempre fusa. Andavi a ‘fare la storia’ anche da sola e mi ricordo che i tuoi amici coraggiosi gelesi ti mandavano sola a comprare il fumo, in via Castro, con quella faccia d’angelo che ti ritrovavi, quelle gambette secche e quell’esperienza da tossica emancipata.
La sera andavamo sempre a piazza Magione e lì ogni sera conoscevamo un sacco di gente, da Sandokan a Nicola, agli americani che ci hanno fatto ubriacare di whisky e cola, facevamo amicizia con tutti, cantavamo Mina e ce ne fottevamo dei residenti, la gente si avvicinava e si sedeva a cantare con noi e non avevamo nemmeno una chitarra, cantavamo a squarciagola, senza un minimo di pudore, nel mezzo della piazza che noi, io e te, per prime avevamo scoperto e sfruttato per i nostri esperimenti vocali. 
Eravamo sempre io tu e Bimbo, a bere Forst da 66 a 1 euro e mezzo, sul prato, buttate per terra, con gli insetti che si infilavano sotto la gonna e i cani che a volte ci scambiavano per alberi e ci pisciavano di sopra.
In macchina portavamo sempre un megafono e una pistola finta, e una volta mentre Marilena vomitava dal finestrino, io ho accostato e uno sbirro in borghese si è avvicinato e ci ha chiesto se eravamo colleghe. Noi ci siamo guardate, stupite, e gli abbiamo chiesto come facesse a saperlo. Solo che lui intendeva colleghe, sbirre come lui, mica colleghe di università. Aveva visto la pistola finta poggiata sul sedile posteriore. Da quel momento abbiamo deciso di lasciarla a casa e abbiamo iniziato ad usare di più il megafono, e abbanniavamo per tutta la città, sempre dalla Cinquecento blu, tipo quelli che vendono il sale o lo sfincione. 
Una volta avevi cinquanta euro in tasca e non ci potevi credere, ti sembravano troppi soldi e hai deciso di offrire da bere a tutti per festeggiare. Hai offerto birre a tutti quelli della taverna di Ballarò, hai sventolato la tua banconota in cielo e hai urlato ‘ragazzi, stasera pago io per tutti’. 
A piazza Magione vedevamo sempre i fuochi del festino, e poi passavamo sempre dai Candelai. Una volta abbiamo litigato e io camminavo davanti a te, a distanza perché non volevo parlarti. Eravamo io e te e le macchine che passavano erano piene di tasci che urlavano e suonavano il clacson. Mi è arrivato un uovo addosso e mi è esploso sul vestito. Ero convinta che fossi stata tu e ho iniziato ad urlare dicendoti che lanciarmi un uovo addosso forse era un tantino esagerato. Ci hai messo una serata intera per spiegarmi che non eri stata tu, ma io non ti credevo.
La birra la correggevi col gin. Aprivi la bottiglia con i denti, ne bevevi due o tre sorsi e poi te la facevi correggere dal barista, intonavi splendidi insulti ruttando e poi dicevi ‘mi fa male la gastrite’, quell’organo che avevi solo tu. 


Gli eccessi Dani, di eccessi ti sei nutrita per anni, con tutti quei personaggi immaginari che ti affollano il cervello e quelle mille personalità che custodisci, come se essere una persona soltanto fosse troppo noioso, come se la tua meravigliosa complessità fosse dovuta a tutti quegli omini che ti fanno vedere le cose da mille prospettive diverse.

Il bagno all’Addaura, nude, tutte donne e senza teli, 
feste in cui si vomitava in due contemporaneamente nella stessa tazza del cesso, a reggersi la testa a vicenda e poi farsi lo shampoo a casa di non so chi, 
Ubuntu, 
il tifo mentre vomitavo, 
e Cin cin, alla nostra grazia, come no, la nostra grazia.
I tuoi lacci ai polsi, brutti e logorati dal tempo, 
le tue collanine anonime e la tua energia, la tua spontaneità. 
Tu che tratti tutti allo stesso modo, e se incontrassi il Papa probabilmente lo inviteresti a cena a casa tua, ‘Papa, ti andrebbe un piatto di pasta alla trapanese?’, gli diresti.

Il resto dei ricordi ritornerà, ritornerà negli anni. 
E grazie per avermi fatto ricordare almeno questo. 


Appuntamento alla Vucciria ad agosto, con cinquanta euro in mano, devono bere tutti, nessuno escluso!


martedì 7 luglio 2015

Lauretta

Mi mancherà la possibilità di confrontarmi con te, di raccontarti quello che faccio. Mi manca già, e sono passate solo due settimane. 
È successo che tu non c’eri e io ho conosciuto questa città. Ho conosciuto un ragazzo di Roma e siamo diventati subito amici. Ti ricordi cosa dicevamo dei romani? Dimenticalo, non tutti sono come quelli che abbiamo conosciuto. E mi sono ricordata della gioia che si prova a pedalare senza meta, a stare seduti sul marciapiede a osservare la gente, a ritornare a casa all’alba o quando ti pare, a prendere meno sul serio le cose, di che gioia si prova a condividere un pasto con qualcuno, della bellezza di questa città di immigrati dove tutti fingono perché non possono fare altrimenti, dove tutti hanno paura di rompere gli equilibri. Ho visto un posto dove mettevano drum and bass, i ragazzini che si scontravano per cercare un contatto, ho visto la gentilezza delle persone, un posto dove si ballava fino all’alba e una sconosciuta che mi ha offerto da bere per tutta la sera. Ho visto ragazzi vestiti a pois che ballavano e che si divertivano, pugliesi che suonavano tamburelli e chitarre, incantati dalla voce di Vale, ho visto stranieri che cercavano oggetti smarriti sul prato del parco del Valentino, muniti di torcia e sacco, ho perso il lucchetto della bici, l’ho lasciata nel cortile interno del nostro palazzo e me l’hanno rubata. Ho visto un posto autogestito, in riva al Po, proprio dove abbiamo ascoltato il concerto del trombettista, e sono rimasta senza parole. Sedie rovesciate e stranieri che arrostivano salsicce, ragazzi che dormivano sulle sdraio piegati in due dall'alcol, con le bocche aperte, altri che ballavano Cindy Lauper alla luce del giorno e che salutavano ogni passante, ho visto l’alba tutti i giorni o quasi, un ragazzo che si tuffava nel Po e nuotava a stile libero, i suoi amici lo riprendevano col cellulare e lui, in mutande, emergeva dall’acqua e rideva, rideva bene, tipo Tony quando prende il peyote. Ho visto piazza Vittorio vuota, senza nemmeno una macchina, un bar in cui tutti i camerieri erano gentili e avevano un sacco di storie da raccontare, ho visto il Lindo Ferretti dei poveri che cantava una canzone che si intitolava “La valanga”, una bacinella blu piena di vino e vodka, una chitarra e un’armonica, ricordi? E vita. Davvero, la vita. 

Ho trovato un capo che mi chiede come sto e colleghi siciliani, e i giornali e i telegiornali, e i libri, Rimbaud e Wolff, Carver, Ammaniti, il mio Ammaniti, e Tondelli, Gatti, McCarthy, Bauman, Palahniuk, Wu Ming e Salinger, Bukowski  e la Kristof, Keret e Saunders, milioni di cose che avevo dimenticato, e Auster che non mi piace. Ho visto una casa in collina, bevuto birra polacca, mangiato anguria fresca e parlato d’amore con perfetti sconosciuti, conosciuto i cinesi del bar di Piazza Statuto e visto un trans che discuteva animatamente con un ragazzino di sentimenti, preso un Vodka Lemon alla Bicyclette, io che non bevo cocktail, e c’erano 40 gradi, conosciuto un tipo che sembrava Renato Zero che mi ha chiesto di cantare, giocato a calcio balilla con dei bambini cubani, trovato un bar di fiducia in cui un napoletano e un signore anziano mi raccontano tutto, trovato una rosticceria di fiducia in cui il rollò col wurstel si chiama Rocco, letto un libro di fotografia, iniziato un romanzo, imparato cos’è un fondo comune di investimento e letto il Sole24ore, dormito sul divano con le finestre spalancate e i ragni che mi pendevano sulla testa. 


Adesso sto cercando di imparare a gestire le emozioni, i sentimenti, a dosare quella palla d’amore che tu conosci bene, imparare a dire no a volte, a studiare di nuovo, a comprare solo ciò che è necessario, a vedere le cose dal vivo, e non immaginarle e basta, a vivere un po’ di più, da sola, all’alba. Quando gli altri dormono.