venerdì 15 novembre 2013

IPOCONDRIA, ATTACCHI DI PANICO E ALTRI PIANI PER ELIMINARCI TUTTI

Al ritmo di Celentano e Lou Reed i nostri genitori ondeggiavano felici.
Quando ero piccola i cartoni animati erano camomilla serale; oggi nemmeno lo Xanax fa più effetto. Si chiamano tempi moderni. 
Proverò quei sonniferi che prende la vicina.
Mi lavo le mani continuamente, sto attenta a dove mi siedo, faccio attenzione a quello che mangio, non vado mai a pranzo o a cena fuori. 
Ogni volta che salgo in macchina ho la sensazione che andrò incontro ad una morte violenta tra le lamiere, che qualcuno mi verrà addosso, o magari scoppierà la ruota che so, oppure un ragazzino mi lancerà un sasso dal cavalcavia. Ipocondria a duecento chilometri orari.

Spengo la sigaretta, quante cicche nel posacenere, lo svuoto nel cestino, in cucina. Vado verso la mia stanza, adesso vado a letto, no, aspetta, e se il cestino prende fuoco? Meglio andare a controllare, per una sigaretta spenta male potrei far scoppiare un incendio, vado, sollevo il coperchio del cestino, niente; aspetto ancora, non si sa mai. Sto lì per cinque minuti a fissare il cestino, convinta che non posso andarmene perché lo so, lo so che se non guardo bene rischio di incendiare la casa.

Un tempo non avevo paura di bere dai bicchieri di vetro del bar, e nemmeno nelle tazzine del caffè; adesso bevo il caffè dai bicchierini di plastica.
L’aereo non lo prendo più, ho paura, e nemmeno il treno, almeno per lunghe tratte, almeno di notte,  perché salgono certi tipi che mi prende il panico; rubano un sacco di cose, lasciano valigie sospette ed ho paura della velocità.
Cos’altro? La metro mi preoccupa, ho paura di attentati terroristici, stupri o scippi, o cose simili. Ah, soffro pure di claustrofobia e non vado nel posti troppo affollati, troppo piccoli o senza finestre. E nemmeno in quelli troppo affollati perché la gente mi infastidisce, mi terrorizza. Sembrano mostri.

Quando i miei genitori escono da casa, ho sempre paura di non rivederli più, e lo stesso vale per mio fratello, quindi li chiamo continuamente e loro non lo sopportano.
Quando piove evito di uscire da casa e se poi c'è un temporale fortunatamente mi arriva in anticipo un messaggio del meteo sul cellulare che mi intima di non aprire porte e finestre: 'attenzione, da venerdì allerta in tutta Italia per il ciclone Venere, previsti forti temporali e trombe d'aria'.

Ho perfino svuotato la mia libreria per far spazio ai farmaci. Al posto del giovane Holden e di Gregor Samsa, adesso c'è una scorta rassicurante di Oscillococcinum, estratti di fegato d'anatra, Papaya, Echinacea, uva ursina e Valium, poi ancora Tachipirina, Froben, Amoxicillina e l'apparecchio per l'aerosol. 
La mia dottoressa dice che è normale, dice che siamo in pieno declino e che dobbiamo morire per far posto ad una generazione migliore della nostra. Dice che la paura di tutto, indotta da un'entità di cui non si conosce il nome, fa parte di un grande piano per eliminarci tutti perché soltanto così il mondo potrà migliorare.
Parole sante.

Zerocalcare, 'Ipocondria'

lunedì 11 novembre 2013

Il mio cognome è del nord

Al supermercato, davanti alla mia cassiera di fiducia, l’unico modo per non sentire un pugno allo stomaco quando mi spara a voce il totale, è quello di pensare che la cifra da pagare sarà molto più alta, almeno il doppio di ciò che spenderò realmente. Solo così riesco a non farmi venire un coccolone, solo prendendomi per il culo, lasciandomi credere che sì, anche oggi sono stata brava a risparmiare. La guardo la spesa e penso “saranno almeno 20 euro”. Invece la cassiera mi sorride e mi dice “fanno 10 euro e venticinque”. Che culo, penso. 
Arrivata a casa apro la busta per svuotarla: 3 birre, 2 kinder cereali (perché dice che fanno passare il mal di testa), una scatola di kinder cioccolato da 4, due finocchi e una confezione di patatine. Bella spesa del cazzo, penso.
Ma oggi dovevo consolarmi, era il mio primo ‘vero’ giorno di lavoro. Sono arrivata in ufficio alle 7.45, in perfetto orario. Ho legato la bici davanti all’ufficio e sono entrata dicendo: “buongiorno, oggi è il mio primo giorno di lavoro”. 
Presentazioni di rito, tutti vecchi, un po’ pelati, un po’ stanchi, con rughe disegnate qua e là, tutti sorridenti di un sorriso un po’ spento, come bambole di porcellana gentili e gradevoli ma anche un po’ inespressive. Ecco i miei colleghi di porcellana, con voi condividerò la neve, la pioggia, il freddo, i discorsi sul tempo, qui a Torino si gela, meglio da te a Palermo, chissà quanti gradi ci saranno, questa camicia l’ho pagata 70 euro e poi al mercato l’ho rivista uguale a 15, che hai oggi per pranzo, sai sono a dieta, la dieta sta funzionando, si vede che stai meglio, ma parti?, dove vai quest’anno?, hai sentito il telegiornale, questi immigrati se ne devono andare, i mezzi a Torino non funzionano, senti qua non dire scemenze perché io vengo dal sud, sai questo mese ho troppe spese, sono arrivate le bollette, è aumentato il gas, devo accompagnare mio figlio alla partita di calcetto eccetera eccetera eccetera. 
Con gli anni ci farò l’abitudine ma la mia espressione quando mi trovo nel bel bezzo di queste conversazioni tritatutto è quella di una persona estremamente diffidente. Mi trovo a dialogare con degli sconosciuti, che tra qualche tempo diventeranno figure abituali come i personaggi disegnati sui quadri di casa mia, di cose assolutamente futili. 
Da piccola mi ero riproposta di non sprecare la mia voce in discorsi troppo futili.  Di circostanza magari sì, o almeno ho imparato col tempo, ma futili e banali no. O almeno questo era quello che pensavo quando avevo costruito la mia idea di vita e il mio carattere ideale in un mondo che apparteneva solo a me, una sorta di codice etico da rispettare per volermi bene, per garantirmi un’autostima solida. Era quando avevo deciso che la mia vita sarebbe stata importante. 
In realtà, tutto quello che mi è capitato dalla fine dell’università ha soltanto smontato questo mio postulato.
La vita è fatta così, una grande palla di discorsi mediocri che ti permettono di essere ‘normale’, una grande sfilata in cui nessuno sembra o deve dar l’impressione di brillare per  astuzia. 
Tutto questo all’inizio mi offendeva, adesso non più. Possibile che io stia vivendo solo adesso il passaggio dall’adolescenza alla maturità? Sì, forse è possibile per via di una serie di questioni che bla bla bla si conoscono bene, crisi, precariato e quant’altro. 

Lavoro con i soldi, conto i soldi e li do alla gente. Conto i soldi e li incasso. Ho tutti i giorni dei soldi in mano insomma, ma non sono miei. Sono dell’azienda, o dei clienti. Ho anche uno stipendio però, e questo mi fa sentire fortunata, felice.
Mi occupo di amministrazione, di servizio al pubblico e cose così.

Per me i soldi hanno un colore preciso, sono color bordeaux lucido. Quando ero piccola, mi ricordo un’enorme parete attrezzata con una cassettiera dove i miei tenevano tutte le pratiche, i conti, le multe, i documenti di ogni tipo, divisi per carpette e riconoscibili dalle etichette bianche. 
È stata sempre mia mamma ad occuparsi di quella cassettiera, a pulirla, a selezionare i documenti, a rovistare tra la polvere delle cose passate, pagelle, lettere, multe, passaporti, libretti di assegni. Subito sotto c’era il cassetto deputato alle fotografie, il mio preferito.
Per me i soldi erano una cosa lontana, una cosa di cui ho sempre sperato di non dovermi occupare, una cosa che mia madre gestiva bene e che non mi competeva affatto. Tutte quelle pratiche, riordinate con la cura di un bibliotecario, mi hanno sempre fatto paura, mi hanno sempre fatto credere che sarei rimasta lontana da quella vita cartacea fatta solo di numeri. L’ho sempre saputo, come una certezza che ti permette di scegliere l’esatto opposto di ciò che non tolleri. 
Ingenuamente, ho sempre sperato di delegare qualcun altro per svolgere questi compiti, ho sempre pensato, fin da piccola, che qualcuno si sarebbe preso la briga di farlo per me. E invece, vuoi per un fatto genetico, vuoi per il destino, vuoi per contrappasso, adesso io svolgo questo lavoro non solo per me, ma per tutti i cittadini di Torino e in potenza, per tutti gli italiani. 
Le persone delegano me e si sentono immediatamente sollevate, assolte da ogni obbligo, sono io che rispondo delle loro tasse, sono io che ci faccio attenzione, sono io che prendo in gestione le loro vite per dieci minuti e gli permetto di fregarsene dei loro doveri. Esattamente quello che pensavo avrei fatto io per il resto della mia vita, una vita burocratica e amministrativa diretta da altri, da una fantomatica signora dei soldi, infallibile.

La vita quindi ha preso una piega strana e soltanto da qualche giorno ho cominciato a pensare al mio futuro. 
Ho cercato di rovistare tra i cavi di queste vicende, di trovare una risposta a ciò che mi stava succedendo.
Mentre bevevo un caffè al bar vicino l’ufficio, una risposta, seppur non del tutto esaustiva, è arrivata davvero. Ho preso in mano un giornale e ho letto di un tipo che aveva il mio stesso cognome. Allora mi sono ricordata che al corso di web design finanziato dalla Regione Piemonte il mio insegnante mi aveva chiesto: ‘ma sei partente di Ardito?’. 
Quella mattina, dopo il caffè, appena entrata in ufficio, dopo le presentazioni, due dei miei colleghi mi avevano chiesto, di nuovo: ‘ma sei parente di Ardito?’. No, direi di no. 

Appena tornata a casa ho cercato su Google ‘diffusione del cognome Ardito’ e ho scoperto che a Torino ci sono 60 famiglie Ardito, a Palermo solo 9. 
A quanto pare c’è anche un Ardito direttore di un ufficio come quello in cui lavoro io. 
Un motivo quindi doveva pur esserci. Non è un caso che io sia finita qui, tra piste ciclabili e strade ghiacciate, tra regole ferree e conti pubblici, tra le maglie di quella che Bianciardi chiamava ‘vita agra’. 


Sono tornata in patria, ho pensato. È qui che vivono gli Ardito. Dirò ai miei di trasferirsi  qui perché evidentemente hanno più parenti qui che in tutta la Sicilia.
Forse è qui che gli Ardito finiscono per una legge divina, ignari fin dalla nascita che nella loro vita avranno come vanto la Mole piuttosto che il Palazzo dei Normanni. 
Eppure non riesco a perdonarmi di non essere rimasta lì, tra le palme e il traffico. Nonostante nella mia terra mi sia sempre sentita un’estranea, una pedina di passaggio, resta il rimpianto di non essere rimasta.
L’illuminazione derivante dal cognome - che ha assunto un significato tutto particolare da quando ho visto Lost - poteva essere una perfetta spiegazione di ciò che mi sta capitando, ritrovare i propri parenti, i propri simili, il proprio cognome in una città del nord, una città di fabbriche e rigore, una città quasi senza errori. Però ogni tanto questa certezza forzata, si smonta  in un istante. Forse il destino forse non c’entra nulla, è solo che i siciliani se ne vanno, se ne sono andati in passato e se ne andranno sempre dalla loro terra finché le cose non miglioreranno. Per questo motivo si trovano sempre pezzi di Sicilia qui al nord, per questo  motivo quando attraverso via Garibaldi non mi stupisco se sento parlare il mio dialetto, se vedo vecchietti che gesticolano come me, che parlano a voce alta come me.

Forse perché in Sicilia, l’unico modo per non rischiare di fallire sembra quello di scegliere di andarsene via.