venerdì 28 luglio 2023

Repressione Piemonte

Siamo nel Canavese, in un pezzo di terra usato come dormitorio e dove la gente non si è mai svegliata. Dietro di noi un uomo in camicia stropicciata, sui 50 anni, capelli lunghi brizzolati con una forte cadenza calabrese si intromette nella conversazione mentre beve la sua quinta birra da 66 cl. In realtà dice di non essere sicuro che sia la quinta perché beve per dimenticare e non se lo ricorda. Ha detto che proprio per questo motivo paga sempre in anticipo. Lo vedo triste, mentre si affanna a chiamare tutta la sua rubrica per sapere se qualcuno vuol fargli compagnia al bar. Un suo amico gli dice di sì e io mi sento sollevata per lui. Ci racconta che aveva un’amica russa e che quando lui si è permesso di parlare male di Putin lei si è arrabbiata e gli ha risposto male, irritata per il suo commento politico assolutamente fuori luogo.

Il bar è a Cuorgnè, un posto che solo a nominarlo ti fa riflettere su quanto sia confinata l’esistenza di chi ci abita. I tavoli e le sedie sono di un colore sgargiante come a ricordare che tutto è reale, come ad affermare la propria esistenza, creare un piccolo rifugio magico gestito da alcolizzati non per scelta e gente che lavora ad ore, in cui gravitano bambini dell’asilo da una parte, paracadutisti e gente senza nome dall’altra, quasi tutti in silenzio fino a quando qualcuno, un po’ più temerario degli altri, non dà il ‘la’.

Questo posto mi piace perché ha voglia di esplodere. Si percepisce per la cura del prato con i giochi per bambini, per la voglia di comunicare che diventa impertinenza se assecondata, per l’audace posizione a metà tra le montagne e la strada, per il servizio cordiale ma informale.

Giorgio, il proprietario, non ha mai mostrato gli occhi. Sono coperti da occhiali da sole a specchio mentre parla senza sosta come se non avesse davanti due persone ma due mummie che possono solo guardare e non interagire. In un delicato equilibrio tra educazione e tatto, cerco di interromperlo con qualche domanda tanto per ricordare che sta parlando con due esseri umani. Giorgio per sopravvivere ha girato l’Europa, ha fatto il cameriere, gestito bar ed è stato insieme a donne bellissime. Giorgio ha bisogno di raccontarci tutto. Ha bisogno di parlare e non di ascoltare, confinato in un pezzo di terra in discesa frequentato troppo raramente da persone che accendono una conversazione. Giorgio è permaloso, ci racconta che le spese sono raddoppiate e che gestire un locale è diventato difficile. Il clienti, anche quelli più assidui, sono polemici per i prezzi che ritengono troppo alti per e gli mandano messaggi di sfiducia, come ad addebitare la colpa a lui che non c’entra nulla.

Il cielo è illuminato da un sole tiepido, quasi rilassante dopo tre giorni di afa torrida che mi ha tolto il sorriso ma faccio fatica a digerire Giorgio, con tutta la sua rabbia e la sua repressione. Mi piace, ha voglia di esplodere, come il suo locale, ma ha troppi sensi di colpa, troppi rimpianti. Sua madre è malata ed è per lei che è tornato. Ha difficoltà ad accettare la sua condizione di maturità, ha una fidanzata russa adesso che viene a trovarlo una volta al mese. Ha un paio di occhiali da sole a specchio, ha due ragazze che lo aiutano quando ha bisogno, ha la vista dei paracadutisti che atterrano nel terreno sotto al suo bar.

Giorgio non esiste finché non parla a ruota libera, resiste perché parla senza sosta e ci coinvolge nel suo finto divertimento alcolico, nelle sue avventure che ormai sono un ricordo lontano.

Ho letto le recensioni del locale, birra fresca, i paracadutisti che mangiano bene, ambiente e personale affabile. Il proprietario Marco è gentile e molto bravo in cucina, non si ferma a disturbare i clienti quando mangiano, i prezzi sono bassi e la posizione regala un bel paesaggio.

Ma lui non è Marco, lui è Giorgio, il nuovo gestore. Lui ancora non esiste.

Quindi voglio dire a Giorgio che è nel concetto di repressione che vivo la quotidianità o meglio sono le persone intorno a me che vivono la repressione in tutta la loro solitudine. Qui la gente vive in un isolamento che da involontario si fa volontario. Solo i più tormentati e caparbi resistono al richiamo della socialità e resistono come hanno fatto la prima volta, quando hanno visto cosa c’è oltre le montagne e non si sono fermati nel parco con il prato all’inglese e fanno in modo che quella curiosità di vivere che sembra una sensazione di troppo schizzi fuori dagli occhiali a specchio per colpire tutti gli interlocutori del mondo.