Mi sembra che il mondo intero
stia iniziando a prendere coscienza di cosa ci accade. Forse è solo il mio algoritmo
che mi mostra testi di rifugio, speranza e rivoluzione ma ho la sensazione piena
che questa barbarie che ci ha regalato il nostro secolo verrà spazzata via da
menti illuminate, proprio come succede ciclicamente nella storia del mondo.
In questi giorni mi sono rifugiata
nella noia, che ha portato alla luce una solitudine estrema, in cui la fiducia
nel proprio essere può salvare o ferire definitivamente.
Cosa c’è dentro la noia? Cosa c’è
di bello o di brutto nel rimanere soli con sé stessi?
Mi sono raccontata il tempo, ho
stanato le storture per accettarle e ho vaneggiato sul futuro, l’ho costruito
fino a renderlo reale.
Ormai sono abituata a stare
distante da chiunque ma mi sembra che l’intero mio mondo, fatto di esigui
contatti sociali, per lo più mediati da uno schermo o un telefono, mi abbiano
atrofizzato l’anima. La community
di cui parla Byung Chul Han nel suo libro, ovvero la comunità di consumatori
che producono modelli narrativi al servizio del commercio, producono proprio l’erosione
del concetto di comunità, una comunità che si nutre solo di consumo e che
promuove unicamente vendita di storie come fossero merce.
Non le tocco le persone che amo,
posso toccare solo mio figlio e il mio compagno . Questa assenza di contatto è
in effetti una povertà di mondo reale in cui la solidarietà e l’empatia non
possono esistere e in cui la depressione, l’isolamento e l’angoscia la fanno da
padroni. Esiste solo l’impegno nel produrre sé stessi, una condizione di
egoismo diffusa in cui ognuno di noi è impegnato ad autopromuoversi, in cui il
narcisismo individuale fa sì che nessuno si interessi più alla sofferenza degli
altri. L’uomo si isola per diventare imprenditore di sé stesso e non c’è spazio
per la solidarietà.
Nella società dell’angoscia siamo costretti a vivere in una prigione, in
una condizione costante di solitudine, alienazione e diffidenza costanti in cui
la ‘strettezza’, significato etimologico della parola angoscia, riduce ogni prospettiva di contatto narrativo
con l’altro.
La mia noia è stata invece un momento di pausa autoimposta, non un momento di tedio ma uno staccarsi
dalla vita lavorativa, da quella produttività potenziata dal regime neoliberale dell’angoscia, una pausa per prendere tempo. Il tempo per riflettere, un tempo senza performance né creatività forzata, un tempo
vuoto in cui ricostruire qualcosa, in cui immaginarne la nascita, un tempo di
speranza.
Freud sosteneva che la funzione della coscienza fosse quella di proteggere dall’eccesso di stimoli. Sorvegliare gli stimoli, in un mondo in cui la realtà esiste solo come sezione dello schermo digitale, è un compito arduo. Il nostro apparato psichico ha perso sensibilità percettiva proprio a causa di questa feroce inondazione di stimoli legati all’avvento del digitale. In questo senso la noia potrebbe essere uno spazio neutro in cui ripensare a costruire un futuro in cui i momenti shock provenienti da impressioni singole non siano legate ad uno schermo ma al frutto di un ragionamento basato sulla realtà fisica che abbiamo di fronte. Indispensabile che la noia diventi però un processo di gruppo, in cui l’Altro venga cercato, incluso, ascoltato.
Byung Chul Han ci dice che la pandemia dell’angoscia si combatte con
un concetto trascendentale che appartiene all’essere umano da sempre: la
speranza. La speranza anticipa la nascita del Nuovo, in cui il Nuovo è una
forma di vita nascente, una fede incrollabile legata alla certezza che vi sia
un senso, è un rifiuto di accontentarsi dello status quo per andare oltre, una spinta verso l’Altro. In sostanza,
come suggerisce Paul Celan, la speranza è un ‘non sentirsi persi’.
E cosa ci serve per non sentirsi
persi? Ci servono gli Altri.
Immaginatevi un Decameron
contemporaneo, una stanza in cui si possa ricreare un modello narrativo attraverso
il racconto e l’ascolto. Byung Chul Han parla della narrazione come un
potenziale rimedio all’ isolamento frutto del capitalismo della vita moderna,
appropriatosi della prassi narrativa.
L’esempio più bello analizzato
dallo scrittore sudcoreano (seguendo le considerazioni di Walter Benjamin), è
quello di Erodoto, definito ‘grande maestro della narrazione’. Erodoto racconta
la cattura del re d’Egitto Psammetico da parte del re di Persia Cambise che,
dopo averlo sconfitto, lo umiliò costringendolo a guardare i prigionieri
sfilare davanti a lui. Psammetico, nel racconto di Erodoto, resta muto non solo
quando vede la figlia trattata come una serva ma anche quando vede il figlio
mandato al patibolo. Resta muto e immobile finché non riconosce tra i prigionieri
uno dei suoi servitori. In quel momento le sue grida di dolore diventano strazianti
e inizia a percuotersi violentemente il petto.
Perché?
Erodoto non lo racconta.
Ed è proprio questo che rende
questa storia magica, significativa, fissata nella memoria del lettore. Narrare
presuppone una comunità disposta all’ascolto, in cui alcuni fatti sono omessi
proprio per rafforzarne il valore. Al contrario delle informazioni veicolate dai mezzi digitali producono solo effetti e
reazioni istantanee. Il racconto è di contro un seme la cui forza germinativa
rimane nel tempo.
Per questo la narrazione può salvarci. Può ridarci indietro il vero concetto di comunità con il suo bagaglio di esperienza e saggezza.
Solo attraverso la narrazione si produce una comunità
solidale e che può indurci a sperare che l’individualismo coatto dell’autopromozione
genera solo angoscia, frustrazione e depressione.