venerdì 28 luglio 2017

Infanzia

Avevo uno zaino blu elettrico con la scritta Invicta e passeggiavo con mio nonno e mia cugina per le strade della Noce e i palazzi cadevano a pezzi, lʼaria era sempre ferma e le vie sempre affollate. Iniziavamo la giornata con la treccina che il nonno Mario ci comprava al panificio sotto casa ed era un vero regalo perché quello zucchero sul pane ci restituiva lʼeccitazione di cui avevamo bisogno la mattina presto. Ci accompagnava a scuola e veniva a prenderci anche allʼuscita.
Di tutti i bambini della scuola ne ricordo bene soltanto uno, la mia compagna di banco Carlotta, di cui perfino il nome per me era fonte di ispirazione. Aveva un caschetto lucido nero e due occhi da san bernardo, sapeva sempre tutto e sapeva cavarsela sempre. Pranzavamo tutti insieme, in classe, e la bidella portava una busta per ogni bambino, dentro cʼerano un panino, una mela e un formaggino.
Ricordo il rigore dellʼedificio e le pareti bianche, lʼesterno grigio e un atrio grande dove si teneva la recita di Natale e quella di fine anno con lo spettacolo di tarantella siciliana, Me lo ricordo bene perché fu la prima occasione in cui i miei mi permisero di mettere il rossetto. Ricordo un pavimento di resina lucida nera e un cortile con una sola aiuola piena di cespugli non curati, le foto di classe, il negozio di detersivi e casalinghi che vendeva anche cannoli, il giorno in cui mia madre dimenticò di venire allʼuscita da scuola e aspettai ore nellʼufficio della segretaria, i temi in classe e lʼalbero di Natale allʼentrata, la piazzetta della Noce e via Ruggerone da Palermo, una delle vie più caotiche e vive di Palermo, le vecchiette cariche di sacchi della spesa e i motorini truccati a fare lo slalom tra i passanti strafottenti.
In genere era il nonno Mario che veniva a prenderci allʼuscita da scuola. Io e Gabri ci incamminavamo verso casa lente, in attesa di poggiare i nostri zaini sui sedili della sua macchina. Puntualmente, quando gli chiedevamo dove avesse posteggiato, ci rispondeva ʻqui dietroʼ ma la macchina non la prendeva nemmeno, cʼerano solo venti minuti di strada da casa del nonno alla scuola. Ci prendeva in giro, a lui non piaceva la vita comoda e, arrivati davanti allʼascensore ci vietava di usarlo e ci ordinava di salire a piedi. Scherzava, rideva e ci teneva ben lontane dalla vita facile. Quando arrivavamo a casa la nonna era alle prese con i fornelli, ci accoglieva sempre con odori diversi e , rivolgendosi a Gabri la rassicurava sul fatto che di ogni portata ci fosse un doppione, preparato accuratamente senza glutine e senza contaminazione di alcun genere. Quando ci sedevamo a tavola, davanti a noi trovavamo piatti fondi che a stento contenevano quellʼinfinità di corallini con le lenticchie, le tagliatelle al sugo fresco o le casarecce alla grinta, la sua specialità.
Il nonno aveva le sue posate perché diceva che non tutte le posate erano buone, quindi le aveva segate leggermente sul manico per capire quali fossero le sue. Erano posate come le altre, ma lui diceva che il suo cucchiaio entrava in bocca con maggior facilità e che le posate con il manico di plastica, per esempio, lo mandavano in bestia. Quando veniva a casa mia e mia madre apparecchiava, faceva sempre una smorfia di disprezzo quando metteva a tavola le posate. E poi aveva la fissa dellʼuovo, di quella puzza di uovo che lui sentiva dappertutto, odorava sempre piatti e bicchieri e puntualmente se li faceva cambiare, ovunque fosse, perché se sentiva quella puzza non riusciva proprio a mangiare. Mia nonna lo viziava e, da quando era in pensione, aveva iniziato ad istruirlo bene sulla scelta degli alimenti da comprare. Cʼerano voluti anni di spesa insieme a Marineo per fargli capire come riconoscere la carne buona o le melanzane e le olive migliori. Poi aveva passato lʼesame e la nonna aveva cominciato a dargli diversi incarichi, quindi scendeva da casa più volte al giorno per comprare o il prosciutto senza conservanti o due etti di provola dolce tagliata a fettine sottili o due etti di parmigiano grattugiato. Al vino aggiungeva mio nonno aggiungeva lʼaranciata, poi si poteva cominciare il pranzo.
La nonna iniziava a mangiare cinque minuti dopo di noi, dopo aver osservato con attenzione la nostra espressione dopo il primo boccone: se non era accompagnato da

unʼesclamazione o unʼespressione di sorpresa per la bontà di quello che aveva cucinato, si chiudeva in unʼespressione arrabbiata, offesa. I suoi piatti doppi erano speciali e si offendeva quando ogni tanto pranzavo dallʼaltra mia nonna, mi chiedeva spiegazioni e mi illustrava puntualmente i piatti che avrebbe cucinato il giorno dopo, facendomi venire lʼacquolina in bocca e convincendomi ad andare a casa sua.
Era bella mia nonna, aveva gli occhi azzurri e delle rughe eleganti intorno agli occhi, profumava di Neutro Roberts ed era timida quando si trovava davanti a gente sconosciuta, sempre attenta a non sembrare inopportuna o poco garbata. Quando ero piccola e avevo la febbre veniva a trovarmi a casa e io ero felice, mi rassicurava il fatto di avere anche lei vicino, mi rassicuravano le confidenze che lei faceva a mia mamma, convinta che io non capissi di cosa stava parlando. Io ascoltavo, e quel chiacchiericcio era il mio sottofondo preferito, il modo migliore per trascorrere le giornate in cui non potevo andare a scuola, nel soggiorno di casa, con il sole placato dalla tenda pesante bianca e lʼaria ferma. Lei arrivava profumata e pettinata come se dovesse andare a teatro, con quelle sue gonne sotto il ginocchio e quei cardigan e i foulard a fiori bordeaux, mi chiedeva se stessi meglio e poi cominciava a parlare con mia madre. A volte mi infastidiva il fatto che non mi desse le giuste attenzioni, come se la mia febbre non fosse importante, come se la mia influenza non meritasse più di due minuti di conversazione. Io invece volevo essere al centro dellʼattenzione di entrambe, volevo essere lʼunico argomento di discussione, mi perdevo negli occhi della nonna e aspettavo un suo cenno, uno sguardo dolce, cercavo la sua complicità.
La nonna veniva sempre a casa quando stavo male, sempre. Portava una montagna di contenitori pieni di cibo, si sedeva sulla sedia di fronte a me, mia madre accanto, guardava solo mamma. Solo quando andava via mi guardava bene e mi diceva: ʻdomani passo a vedere come staiʼ. E io mi sentivo felice perché cʼerano due mamme a vegliare su di me.