giovedì 3 marzo 2016

Anarchia mestruale a Porta Palazzo

Ho sognato l’esplosione di questa città, Superga, la Gran Madre, piazza Vittorio, i portici di via Po, piazza Castello, il palazzo reale, piazza San Carlo e la stazione di Porta Nuova, tutto schizzato in aria, tutto avvolto dal fumo e dalla polvere, tutto a soqquadro, nessun appiglio di umanità, nessuna logica, niente ordine, niente di niente, solo pezzi di tutto in aria, niente più cielo né pavé, Marco che mi porge lo zaino e mi intima di andare via, un paio di scarpe da tennis slacciate e un curriculum in mano, identico a sempre, una felpa a righe e lo sguardo sereno di chi non ha fretta.
Mi sento ferita dall’ordine becero di queste strade e mentre si frantumano sotto i miei piedi provo un senso di liberazione, un miracolo, mi sembra un miracolo che qualcosa si muova, le persone iniziano a correre e noi fermi lì, io immobile e Marco che sorride e ha già posato lo zaino per terra, non abbiamo fretta, non abbiamo dove andare, il posto è quello giusto e quando finirà il terremoto allora questa sarà la città giusta per tutti noi. 

Ale vive in due città diverse, la mattina può permettersi anche di rivolgere la parola agli sconosciuti ma la sera, non appena approda nella vasca di Porta Susa sa che deve rimanere muto e passeggiare in silenzio fino a casa dove io esplodo insieme a lui in un eccesso di vitalità che mi è mancata nelle ultime ore. Per me sono quattordici ore di tabula rasa, di elettroencefalogramma piatto e quattro ore di sfogo, di rabbia e allegria, di follia e urla, di risate sonore e occhi finalmente accesi, l’indifferenza se ne va insieme a questa città e i portici di piazza Statuto si trasformano nella curva del San Paolo.

Stefy mi guarda attenta e mi chiede cosa c’è. Non riesco a respirare bene. Mi dice ‘rilassati’, puoi amare chi vuoi, puoi parlare con chi vuoi, è così che ti conosco e così devi rimanere, mi strappa un sorriso e ci abbracciamo, l’amicizia ci viene naturale ed è una cosa troppo bella. Ogni tanto piange. L’ha fatto anche al nostro primo appuntamento. Non è fatta della stessa pasta delle persone che fanno da sfondo a questa città. Al Valentino, sotto un albero quasi più piccolo di lei mi ha fatto bene guardarla indifesa avvolta da quella natura finta, ordinata e composta. Lei era più forte.

Scompongo le mie giornate e mi sento meglio, agire qui è difficile, serve un sacco di coraggio e sono diventata timida, inadatta, inopportuna. 
Che strano effetto mi ha fatto vedere quella ragazza che ho conosciuto una sera qualche mese fa, mi ha abbracciata e mi ha sorriso di cuore, dicendomi che le faceva davvero piacere incontrarmi per caso, non ha esitato, ha smesso di parlare con la sportellista della Posta, optando per un eccesso di calore e attirando tutti gli occhi della sala su di sé. Sai perché sono qui? Lo sai?
Stefy, Marco e Ale continuano ad abbracciarmi e a farmi divagare, a farmi andare fuori strada, a tagliare in diagonale i viali e non rispettare i semafori.
Marco torna a Napoli senza un lavoro, Porta Palazzo crolla, le bancarelle alle sei di mattina sono ancora smontate, nessuno ha più voglia di lavorare e quelle cazzo di molle che mi ritrovo sotto i piedi non saltano più come prima. Adesso che la foto di Maradona ci arreda la casa mi sento come se la leggerezza fosse un po’ più lontana dalle mie giornate, come se sei ore per la preparazione di un buon piatto fossero perfettamente inutili, come se il Torino Film Festival fosse solo uno squallido ritrovo per gente che non ha un cazzo da fare, come se l’hip hop non fosse mai esistito, come se il trash fosse davvero solo immondizia, come se tutte le bici del ToBike non funzionassero più, tutte rotte o col sellino storto o con la ruota bucata o senza freni.