Visualizzazione post con etichetta Torino. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Torino. Mostra tutti i post

sabato 11 gennaio 2025

Perché oggi Torino è la città più anarchica d'Italia?

 

L’ultima volta che ho sentito parlare di anarchici a Torino è stato qualche giorno fa, durante la protesta per la morte di Ramy Elgaml, il diciannovenne morto la notte dello scorso 24 novembre dopo lo speronamento da parte di un’auto dei Carabinieri. A dire il vero ne ho sentito parlare centinaia di volte da quando vivo in questa città, dallo sgombero dell’asilo occupato di via Alessandria al corteo per Alfredo Cospito, e ogni volta penso la stessa cosa: Torino è la città più anarchica d’Italia. Non mi interessa dare un’accezione negativa o positiva a questa affermazione ma scoprirne le ragioni, capire perché qui l’anarchia si trasformi quasi sempre in violenza e perché la rabbia sociale si manifesta in scontri pericolosi anche per i cittadini che protestano pacificamente.

Perché una violenza tale? Perché una rabbia così feroce? Ho provato ad interrogare alcuni amici di Torino sulla questione. Qualcuno era quasi compiaciuto nel prendere atto di questo primato, altri hanno esitato prima di dare una risposta ad una domanda che sembrava così semplice ma che nasconde ragioni sociologiche tutt’altro che ovvie.

Una delle spiegazioni è forse legata alla Fiat. Cosa succede se dal Sud emigrano intere famiglie per popolare una città fredda e austera come Torino? Succede che la popolazione subentrante viene ghettizzata e tenuta alla larga dai contesti centrali della città, esattamente come quello che è successo dopo in Italia con l’arrivo di migranti da tutto il mondo. Questa formula del ‘ti confino in un quartiere e da lì non ti muovere’ ha fatto sì che il tessuto sociale non solo fosse disgregato ma che nascessero delle comunità locali in cui il dialogo e il reciproco aiuto, l’assistenzialismo sociale fossero alla base di un ordinamento politico e che lo ‘stare insieme’ fosse l’unico premio al sacrificio di massa dovuto all’espatrio.

I luoghi vergini, dimenticati, confinati del ghetto hanno costituito delle roccaforti di umanità anche quando il Comune di Torino, con la gentrificazione di massa iniziata nel 2006 con le Olimpiadi invernali, ha cercato di riqualificare quei quartieri ‘operai’ o ‘multietnici’ per interessi economici diversi e per offrire un ‘decoro’ (parola estremamente abusata dall’amministrazione cittadina) zone che ai cittadini di altri quartieri facevano paura. Per evitare che i torinesi si spostassero (come stavano già facendo) nelle zone limitrofe a Torino, l’amministrazione decise di coniugare gli interessi economici e imprenditoriali di una fetta della città all’ansia sociale generatasi nel contatto con il diverso modus vivendi dell’altra parte di popolazione acquisita.

Se la paura crea diffidenza, accade che ci si isoli a livello sociale e ci si disinteressi completamente delle questioni politiche della città. Torino oggi è una città in cui il gap culturale, sociale ed economico è estremamente alto e lavorando negli uffici postali mi è capitato di incontrare clienti smisuratamente ricchi, con diverse case al mare e in montagna e un reddito molto alto e persone costrette a vivere per strada (laddove non disturbi il ‘decoro urbano’) a seguito della crisi che ha costretto piccole e medie aziende a chiudere i battenti. Ciò crea una spaccatura profonda nel tessuto sociale e accade che i ricchi non si fidano dei poveri e i poveri dei ricchi.

La solitudine sociale ha fatto in modo che i nuclei familiari si disgregassero e la libertà individuale è stata sostituita dalle regole. L’interruzione  della vendita di alcolici oltre le ore 24 e la vendita di bevande in bottiglia di vetro oltre le ore 23 hanno causato chiusure temporanee o definitive delle attività commerciali, il contenimento dei volumi della musica tra i 45 e i 50 decibel durante le ore serali e notturne al fine di non interferire con la quiete pubblica dei residenti, la difficoltà di creare eventi nelle piazze, soprattutto a seguito dell’evento del 3 giugno del 2017 che ha causato la morte di tre persone, la chiusura dei Murazzi, luogo di attrazione e socializzazione ineguagliabile.

A che servono le regole in una città? Perché il rispetto delle regole, anche le più assurde, è fondamentale in questo periodo per il funzionamento di un governo politico? Le regole sfruttano la paura e creano un meccanismo sociale che invita i cittadini alla sicurezza, alla tutela dall’ ‘altro’ anche quando l’ ‘altro’ non è una reale minaccia e preferiscono chiudersi in casa rinunciando alla loro libertà individuale piuttosto che aggregarsi e ragionare su una politica che tenga realmente conto delle loro esigenze reali.

Come diceva Umberto Eco, se non abbiamo un nemico dobbiamo costruircelo. Questo è quello che succede nella ‘guerra’ anarchica a Torino, una protesta che trova come primi capri espiatori coloro che fanno rispettare le regole e che rappresentano uno Stato che non conosce i contesti sociali reali e si erge a risolutore di questioni complesse tramite  manganelli.

Prevedo un aumento esponenziale dei casi di rivolta sociale in Italia. Arriverà forse un giorno in cui gli uomini si disinteresseranno totalmente agli uomini e non ne sentiranno la mancanza ma prima tutti i ghetti del paese cercheranno di reagire per difendere il diritto alla libertà e all’umanità. Per ora la parte gentrificata della città ha sostituito gli esseri umani con i cani (decisamente più fidati), ricevendo affetto dagli animali piuttosto che dalle persone. La ‘cultura del sospetto’ che allontana la popolazione delle città ci ha resi scettici nei confronti della stessa vita, laddove prima la vita era condivisione, aiuto, umanità.


Porta Palazzo, 2016


 

lunedì 23 settembre 2024

Di città soffocanti, gente frustrata, vincoli sociali e ragazzini odiosi

 

Nelle strade che percorro giornalmente c’è una nebbia fittissima. Non appena apro la finestra solo macchine, impegnate nello slalom della puntualità quotidiana. I pochi passanti hanno i paraocchi, evitano gli sguardi altrui il più possibile, sembrano dei cadaveri vestiti in bianco e nero, con le facce scavate dall'aria putrida.

Mi perdo negli sguardi delle madri con il fiatone, dei tossici che si trascinano a fatica con gli occhi sgranati, dei vecchietti con il cane da compagnia, dei ragazzi di Glovo con una mano sul cellulare e l’altra sul manubrio della bici. Non mi sento sola, mi sento isolata piuttosto. E così vedo loro, isolati. 

Quando scendo da casa anch'io mi trasformo in uno di loro. La signora che mi cammina accanto trema quando sente dei passi dietro di lei, l’automobilista insulta il conducente dell’auto che gli sta davanti, l'edicolante prega che non entri nessuno a comprare, a giudicare dall'atteggiamento misantropo. Sembrano tutti svogliati e lobotomizzati, come incasellati in cubicoli che non hanno alcuna traccia umana.

Sto solo respirando gas di scarico, penso. Lo repiro da 12 anni o 13. E mi chiedo cosa significherebbe rifiutare tutto questo, rinunciare a questa gabbia per qualche tempo.

Mi pento di vivere così, di aver vissuto così fino a questo momento, mi pento della riservatezza imposta, dei sorrisi forzati e un abbraccio sincero solo ogni tanto, del decoro urbano e di quello che bisogna dire o non dire per non ferire la gente permalosa. Mi pento dei vincoli sociali, di tutte le sovrastrutture mentali che mi fanno diventare un automa.

Non ci sono più panchine, penso. Io mi sedevo spesso sulle panchine, mi piaceva. Le panchine ti permettono di fermarti e osservare un pezzo di città, ammirarla, conoscerla. Le panchine sono luoghi di ritrovo, possono essere luoghi veri ma in qualsiasi comune, da nord a sud, hanno deciso di trasformare quasi tutti gli spazi pubblici in 'non luoghi', togliendo di mezzo qualsiasi supporto per sedersi o facilitare l'aggregazione

Mi sembra che la mia vita sia diventata una vita in punta di piedi, un continuo fare attenzione a non fare casini, offendere o ferire nessuno, a dire le cose giuste al momento giusto, senza il gusto di essere sé stessi o non prendersi sul serio. Sento che il mio desiderio di ironia o spontaneità rovini le giornate alla gente che mi circonda. Tutto questo mi toglie la libertà di essere me, mi paralizza anche negli intenti, nelle passioni, in ogni tipo di azione propulsiva.

Ho anche un altro problema poi, odio i ragazzini di oggi. Si incontrano a casa o al parco ma tengono lo sguardo fisso sul Youtube, Snapchat o TikTok, respingendo qualsiasi tipo di contatto visivo, non vedendo nemmeno che è dallo sguardo che passano le emozioni. Hanno come obiettivo quello di pubblicare migliaia di video e ricevere like dagli altri ragazzini, cercano popolarità con ogni mezzo e non sono disposti ad imparare più nulla dai genitori o dai maestri. Mangiano male e ad ogni ora e non accettano i 'no' come risposta, sono volubili e suscettibili. Crescono interpretando ruoli diversi in ogni momento della giornata cambiando continuamente filtri su Instagram. Credono che tutto ciò che merita di essere visto sia riprodotto da uno schermo, imparano dagli influencer, mestiere che peraltro sognano di fare da adultianziché da un viaggio, una gita, una lezione.  

Pallidi sono, senza amore per gli altri. Fare qualcosa per loro ha senso solo se si può fotografare, postare e ottenere like.

Il mio dolore è estraneo alla volontà di giudizio manichea. Non voglio condannare nessuno né affermare che noi da ragazzini eravamo completamente diversi. 

Dico però che questo cambio generazionale ha palesato una delle mie paure più grandi, ovvero quella del soffocamento dell'individualità, quell'individualità costruita dal confronto con l'altro, il diverso, il nuovo, e che passa attraverso delle emozioni reali, che coinvolgano tutti i 5 sensi. Vivere una vita di finzione costante corrisponde a spazzar via una parte di sé stessi, e se al compiacimento dell'altro corrisponde il compiacimento e la soddisfazione di sè stessi, come si  fa a capire chi si è davvero e come si fa a confrontarsi con la realtà?






mercoledì 31 agosto 2022

Torinesi, pinsati a 'sta farsa!

 Chiddi scarti ri 'cca si nni vannu, è solo questione ri tiempu. Travagghiari pi' campari 'cca addiventa un travagghiu. A vogghia ri niesciri s'arrifridda e u vinu è l'unica manna pi sientiri ciavuru. 

Torino ri iornu e di notte, rui città diviersi, pari ca i cristiani si scantanu a farisi taliari pi' comu su.

A curiosità, a biddizza, a valìa su cosi ca s'annu ammucciari pi fari iri i cosi boni.

Siti tutti perfetti ri iornu, cu' cori scricchiatu e atturrunatu, 'na para ri 'scusa, grazie, per favore' p'un sciarriarisi ogni minutu, frustrazione runnegghiè, facci giarni, un sulu pu' suli ca un c'è!

Ritirativi rintra, pinsati a 'sta farsa e poi nisciti fuora, accuminciati a moviri i manu e i peri, a sientiri l'uossa, i muscoli e u sangu 'nne vini.

Spugghiativi inveci ri cummigghiarivi e viriti quant'è bellu abballari!

Comu si rici 'nni nuatri: 'isti pi' futturi e arristasti futtutu'.


Traduzione:

Quelli scaltri da qui se ne vanno, è solo questione di tempo. Lavorare per campare qui diventa un travaglio, la voglia di uscire si spegne e il vino è l'unico rimedio per sentire profumo.

Torino di giorno e di notte, due città diverse, sembra che le persone abbiano paura di mostrarsi per come sono.

La curiosità, la bellezza, la voglia sono cose che si devono nascondere per far andare tutto bene.

Siete tutti perfetti di giorno, con il cuore rotto e freddo, un paio di 'scusa, grazie, per favore' per non litigare ogni minuto, frustrazione ovunque, facce pallide e non solo per il sole che non c'è!

Andate a casa, pensate a questa farsa e poi uscite fuori, cominciate a muovere le mani e i piedi, a sentire le ossa i muscoli e il sangue nelle vene. Spogliatevi invece di coprirvi e guardate quanto è bello ballare!

Come si dice da noi: 'sei andato per fottere e sei rimasto fottuto'.








sabato 2 luglio 2022

'A RAGGIA

 Un'altra umanità fatta di programmi a lungo termine, invivibile organizzazione meccanica e facce congelate in un'espressione assente, bestie insensibili e robot con i cappotti. 

Quanto avrei voluto vivere bene la mia vita! Da qualsiasi altra parte anche il lavoro mi sarebbe piaciuto  un po' di più perché qualsiasi essere umano è più stimolante e vivo di voi!

Vi devo vivere, purtroppo. Quindi, sembra che io non possa offendervi. Ma se ho fatto a meno di tutti voi per dieci anni - concedendo a me stessa il beneficio del dubbio, nutrendo la speranza di essermi sbagliata - pensate che non sappia e non voglia fare a meno di voi per sempre?

Vi rimpinzate di perbenismo dall'alba al tramonto e vivete male. Mamme dei compagni di mio figlio invitate a casa, merenda con calzoni e pasticcini a 35 euro al chilo, che cazzo di storia è che il giorno dopo, all'entrata della scuola, non mi salutate nemmeno? Bestie siete! Non a caso una delle migliori facoltà di psicologia e psicoterapia si trova a Torino. Chiudete subito la porta quando vedete qualcuno sul pianerottolo, vi affezionate dopo anni ma sempre mantenendo una certa distanza e perfino il bengalese sotto casa, che vive qui da anni, mi chiede dieci euro e ventitré centesimi scatenando i miei attacchi d'ira. Sfoghiamola quest'ira quindi, che altrimenti poi ci ammaliamo di depressione per sempre. 

Chi viene dal sud e vive qui confonde la vita con la morte e io mi sento un leone in gabbia, soffro come un vulcano senza cratere. Non sono la sola a vivere questo disagio e questo mi conforta, ci sono anche persone 'grandi' che mi fanno compagnia in Posta. Grandi, meravigliose, belle e forti come la roccia. Si travestono da morti solo alcune volte, vivono di arte e pensieri positivi, alcune non si prendono mai troppo sul serio, escono dalla tana e scivolano per strada, non perdono mai la faccia e gorgogliano cazzate, leggerezze e piangono quando non esistono, proprio come me. 

Ci sono mostri e tenerezze nei miei sogni, un bambino di quattro anni che conosce tutte le bandiere del mondo e ha una passione per i supereroi perché sono migliori di noi umani. Un dolce ricordo di com'era la sua vita precedente lo avvolge ogni tanto ricordandogli che è un piccolo diamante, in difficoltà quando si parla di regole e schemi e non di risate scomposte, solidarietà, socialità, vita.

Direte voi, bestie: perché non te ne torni nella tua città invece di rompere i coglioni? 

Perché non posso, ovviamente. Altrimenti l'avrei già fatto. 

Sono lontani i periodi in cui pensavo che a Torino si vivesse bene, con il sorriso sulle labbra e la serenità nei volti. Lo dicevo solo perché avevo visto fiumi di studenti ubriachi correre lungo il Po da mezzanotte all'alba, avevo calpestato con le ruote sgonfie della mia Cinzia tutti i sampietrini della città senza indicazioni, non avevo impegni se non quello di cercare un impegno e mi fermavo a tutte le bancarelle a fare la commerciante con i commercianti, ad interrogare ogni cosa potesse essere visibile o potesse parlare. 

Mi è arrivato l'ennesimo messaggio di un collega di Poste, mai visto, che ha provato per anni a contattarmi perché era in graduatoria con me per ottenere il trasferimento per Palermo. 

'Voglio chiederti informazioni in merito al trasferimento, per favore rispondi'. 

All'ennesimo messaggio in cui mi scrive il numero di telefono, lo chiamo. Gli dico: 'Compa', la finisci di fare lo stalker? Mica sono il sindacato io, non ne son un cazzo del trasferimento'. Rido, lui ride. Mi dice che sono seconda e che ne prenderanno solo due. Lui in graduatoria è terzo. Gli dico che purtroppo devo rinunciare e lui scoppia a piangere. 

Sto in silenzio, la pausa è lunga e nel frattempo si spezza il cielo di Barcarello al tramonto, via Maqueda e gli indiani, la Palazzina cinese, la Graziella lato passeggero in piedi a sventolare sull'asfalto, Mondello con il suo profumo di alberi e mare, crolla Monte Pellegrino, Elio salumi e l'università di Palermo, insieme a Santa Rosalia e ai parcheggiatori abusivi, franano le ultime palazzine di piazza Garraffaello, si prosciugano i fusti di birra a piazza Sant'Anna, si seccano gli ultimi fili d'erba di piazza Magione, la nebbia della stigghiola si dirada di colpo e le Forst finiscono. 'Non sai quanto mi fai felice', io vivo in un paesino in provincia di Milano e ci sto provando da anni a scendere e adesso che tu rinunci, scusa lo so che sono egoista, mi stai rendendo felice'. 

Taliu a bbuatri chi ristati 'cca e un sapiti chi vi pirditi, quanta energia sprecata e quanta vita lassata. E siccome è una sula, a vita, si proprio a ristari 'cca allura tutta a raggia l'a sfuari picchì a raggia ri quarchi banna av'a niesciri.

(Guardo voi che restate qui e vi perdete, quanta energia sprecata e quanta vita lasciata. E siccome la vita è una sola, se proprio devo restare qui allora devo sfogare la mia rabbia, da qualche parte deve uscire).

https://vm.tiktok.com/ZMNBVtFq6/?k=1



venerdì 5 maggio 2017

Pazienti

A trentadue anni non abbiamo alcuna idea di quale sarà la nostra città la nostra casa la nostra famiglia, non sappiamo tra quanto tempo potremo fare un figlio. Lavori a Milano e vivi a Torino, fai il pendolare da più di due anni, paghi quattrocento euro mensili di abbonamento Trenitalia e se non riesci a prenotare i posti per l’intero mese, ogni giorno rischi la multa sul treno, anche se hai pagato il tuo maledetto abbonamento. Hai solo ferie forzate, non puoi programmare nemmeno un giorno di ferie a tua scelta, esci da casa alle cinque e mezza e ritorni alle otto e mezza se il treno è in orario. Sei stanco e non hai tempo per te, l’altro anno hai avuto una brutta influenza e non riuscivi nemmeno a dormire, non avevi tempo per andare dal medico, il medico non può giustificare il tuo ritardo a lavoro, ritardo dovuto al fatto che dovevi fare gli esami del sangue per scoprire cosa avevi. Poi sei andato un sabato mattina presto e la settimana successiva il medico ti ha detto di fare le prove allergiche, allora hai prenotato una visita col Servizio Sanitario Nazionale, sei stato un’ora al telefono e quando, dopo sei mesi, è arrivato il giorno della visita, sei andato alle Molinette e ti hanno detto che non risultava nessuna prenotazione a tuo nome. Se non fossi stato accanto a te mentre prenotavi, avrei creduto che ti eri sbagliato e invece no, la prenotazione c’era ma per errore l’avevano cancellata e quindi niente, hai perso mezza giornata di lavoro e ti hanno scalato mezzo giorno di ferie scalato senza motivazione. Hai provato a telefonare alla CDC per fare le prove allergiche da privato ma costava troppo e hai rinunciato, i soldi ti servono per pagare affitto, bollette, riscaldamento, abbonamento, parcheggio, ti servono per le spese quotidiane. Il parcheggio lo paghi 45 euro all’anno ma dal mese prossimo l’Appendino ha deciso che per i residenti in zona ztl costerà  centottanta euro, manco fosse una colpa vivere in centro. 
Molti dei miei colleghi muoiono di tumore, lo sai? Ogni volta che un mio collega scopre di avere un tumore mi viene in mente il tempo che sprechiamo tutti i giorni, a quanti malumori assorbiamo, riempiamo testa e pancia solo di malumore perché siamo sempre a contatto con gente più incazzata di noi che fa di tutto per sopravvivere. 
Il mio cliente ha cinquant’anni ed è un precario, un educatore che lavora con i minori e rischia la vita ogni giorno, non ha mai un cazzo di soldo sul conto, ha un finanziamento per l’auto e un fondo pensione. L’ho chiamato perché è un cliente del mio portafoglio, noi dobbiamo fare cassa e anche se non ha soldi, qualcosa la deve fare perché deve essere fidelizzato, deve assicurarci che rimarrà con noi anche se non ha soldi per fare un cazzo. Prima avevo in portafoglio i clienti ricchi, i pensionati papponi che si lamentavano pure se per sbaglio gli venivano addebitati dieci centesimi in più, venivano a piantar certe grane in ufficio, e avevano duecento, trecentomila euro sul conto e una pensione di tutto rispetto. Non lo sanno che la giornata tipo di un trentenne, se lavora, è: ore cinque e mezza latte scremato con fette biscottate integrali, marmellata senza zucchero perché tra colesterolo alto e gastrite meglio mantenersi leggeri, ore sei e mezza treno o autobus, ore otto e trenta lavoro fino alle sei o sette o otto o mezzanotte dipende cosa chiede l’azienda, ritorno a casa, cena veloce, cacca e a letto, cinque o sei ore di sonno se tutto va bene. 
Ma tornando al cinquantenne precario, lui dice che lavora solo con volontari perché hanno tagliato il personale ed è rimasto il solo ad avere un contratto vero, e pochi altri. I volontari sono bravi ma a volte sono anziani e restano a casa perché non stanno bene oppure sono giovani che hanno appena finito la scuola di specializzazione e non hanno esperienza. Due volontarie sono state massacrate di botte da alcuni pazienti e una ragazza di ventidue anni è stata uccisa, specializzata in psicologia criminale senza esperienza, uccisa barbaramente da un paziente. Lo Stato deve risparmiare, dice. Lui ha un viso stanco, non ha niente nella vita, non ha figli, nemmeno un cane può permettersi, i suoi risparmi li versa sul fondo pensione,  che è vincolato fino alla pensione quindi fino alla sua morte. Noi non avremo pensione e questo si sa, Tito Boeri dice che le nostre pensioni saranno ridotte, rispetto a quelle attuali, almeno del 35%, e non è vero, sa di mentire, e poi noi non ci arriveremo proprio alla pensione.

Sono andata dal medico, dice che il mal di gola dipende dalla gastrite e dagli acidi dello stomaco che risalgono per colpa della valvola cardiale e così adesso non ho solo la gastrite ma mi sveglio anche con il mal di gola tutti i giorni. Il medico non può prescrivere più tanti esami, dice che è colpa della Lorenzin, non mi sento più tanto stupida ad essere ipocondriaca, mi sento autorizzata, davvero. È merito dei miei clienti. Il mondo va avanti a Xanax e paroxetina e tutti i miei clienti, rumeni soprattutto, ne fanno uso. Gli stranieri non ce la fanno più a vivere in Italia, molti stanno pensando di trasferirsi altrove, ho il polso del paese grazie a loro. I vecchi dicono che i giovani spendono tutto quello che guadagnano, non sono in grado di risparmiare nulla, dicono che i giovani non sanno più fare sacrifici, non ne sanno un cazzo delle storie a distanza e della frustrazione, dell’impossibilità di avere figli, del fatto che i sacrifici non si possono fare se non si guadagna e non si lavora dodici ore al giorno e non possono risparmiare se non arrivano nemmeno a fine mese, l’economia non può girare, Mario Draghi, ascolta, l’economia non girerà mai in questa condizione, i liberi professionisti, gli imprenditori sono tutti ladri, per forza, perché tassati ingiustamente fino al fallimento, gli statali diventano privati e i privati diventano schiavi, il capo del governo che si dimette e invece di pensare alla legge elettorale e andare alle elezioni si riforma un governo uguale a quello di prima, non me ne frega un cazzo degli altri paesi e di cosa succede nel mondo, di Trump e Macron, di Duterte, di Kim Jong-un e di Bashar al-Assad, mi interessa di quello che succede qui, sono individualista come mi hanno insegnato, devo essere consapevole del mio presente e del mio futuro se non voglio morire di tumore devo cercare di fuggire da questa città prima di tutto, che è la più inquinata d’Italia e poi da questa nazione anche se non voglio. Devo trovare un rimedio per i miei clienti, la maggior parte badanti o colf, lenire i malumori, farmi una risata, tutti i giorni, trasformare gli sfoghi e le  urla in sorrisi, altrimenti non ne uscirò viva.

giovedì 10 novembre 2016

Vomitare sui grissini

La signora sul tram si avvicina ad una ragazza e sussurra, chiede sottovoce se quello sia il suo autobus, sorride e chiede scusa per il disturbo, sta bisbigliando cazzo, che hai detto? non ti sento parla più forte, meno male che dall’altra parte sua madre sta urlando ed è molto più reale: ‘è il 5 questo’? Attira l’attenzione di tutti ed è affaticata per la corsa, ha le mani piene di buste della spesa. Paonazza sorride, contenta di essere riuscita a prenderlo quell’autobus. 
Le ragazze dietro di me hanno saltato la scuola, una dice all’altra che lo stupro proprio non lo concepisce, che gusto c'è a stuprare qualcuno che non ti desidera?, l’altra risponde che invece le piacerebbe essere stuprata, certo dipende da chi. Il signore rumeno che arriva in ufficio mi chiede di chiudere il conto, ci sono troppi addebiti che lui non riconosce, facendo una ricerca scopriamo che il figlio gli sta prosciugando il conto corrente per comprare giochi su google play e per sfogare le sue perversioni sessuali. Il tizio in metro blocca le porte, lui è riuscito ad entrare ma i parenti no, i siciliani venuti dall’Africa che danno scandalo e la gente è sconvolta, lui dice ‘ma chi fa’, vi lassava dda, normale c’avia a ddapiri’! La metro si ferma per cinque minuti ed è l'emozione più forte di oggi.

Io sto viaggiando in autostrada, il vento è quello di giù, fa malissimo, chissà quanti chilometri percorro, sono distesa sulla spiaggia, ho una calzamaglia azzurra e le pinne, al posto della testa un acquario pieno solo di acqua, cerco i pesci ma non li trovo, ho una sigaretta in bocca e mi sto riposando, sotto il piumone stavo meglio, con il mio piumone ho molta più confidenza che con questi torinesi che mi sorridono per finta ogni tanto. Sto attenta alla gente che abita qui, parlano piano, mai sopra le righe, solo pochi pazzi che seguono le persone per fargli il verso, mi fanno addormentare quelli che abitano qui, hanno la pressione a due, sono morti, stanno morendo tutti, hanno l’agenda piena da qui a tre mesi, non li puoi invitare a casa dopo il lavoro, hanno da fare, parlano con la bocca stretta a culo di gallina, sono tristi, ballano in ordine, si ubriacano con classe, male del male sono, morte cerebrale, assenza di emozioni, non giocano, non vivono, non ridono, sorridono cortesi, non ci si può nemmeno avvicinare, non accettano il contatto fisico, ti concedono solo pochi minuti del loro tempo. L’estate non c’è, sto in un videogioco.
Mi sento sola, faccio avanti e indietro dentro la carrozza della metro e gioco a spingere i passeggeri, li urto per provocare una reazione, nessuna reazione, non so che cosa fare, le porte si aprono e si chiudono, non cambia nulla, urlo ‘viva Trump, viva Trump’ agitando le chiavi, sculetto e derido la mia vicina, è di colore, sta lì muta e subisce, loro tifano per lei, in silenzio, devono lavorare fino alla morte, si fanno sfruttare, sfottere, deridere, non mangiano, non cacano, non bevono. Viva Trump, viva la gente che si fa i cazzi suoi, viva la gente che odia i terroni e i negri. La democrazia è una cosa sbagliata, alcuni non dovrebbero avere il diritto di votare. 
Salgo le scale mobili correndo, mi fermo al bar-panificio, quello nuovo, solo due teglie di pizzettine fatte con la posta sfoglia, ben separate tra loro, almeno 5 centimetri di distanza tra una pizzettina e l’altra, un bancone riempito così, che vergogna, non sapete che cazzo vendete, come mi offendete con il vostro cibo, tutto in miniatura, non sapete godervi la vita, e mangiare pastasfoglia surgelata. Ordino solo una bottiglia d’acqua e me ne vado, parlano tutti con voce stridula, la mattina la falsità non la reggo, un euro e due centesimi dice la barista bestia al cliente che ha appena ordinato i grissini, quello gli porge un euro e due centesimi ‘sì, guardi che sono brava, li ho contati’ e l’altra dice ‘che meraviglia grazie, perfetto, grazie, davvero grazie grazie’. Mi viene da vomitare.

Non ci vado a lavorare, me ne ritorno indietro, vado a casa, a Porta Palazzo conosco un signore che ride sempre, sta in mezzo alla strada a vendere spugnette per lavare i piatti ma ride sempre, ci facciamo una bella chiacchierata, mi sento a casa.

Adesso ho bisogno di parlare con un essere umano.

martedì 30 agosto 2016

Il mio programma è andare al bar


La differenza più grande sta nella gestione del tempo perché i miei clienti torinesi accettano appuntamenti, agenda in mano, solo dal mese prossimo, sia ad agosto che ad ottobre. Hanno programmato i prossimi trenta giorni e sanno già che tempo farà, se andranno a lavoro in macchina o in bici, cosa mangeranno, quando faranno il cambio di stagione. Hanno sempre l’ombrello in borsa, organizzano le gite per le offerte da Esselunga e mandano un collega a fare la spesa per tutti. Sanno cosa è successo esattamente un mese fa. 
Il livello di umidità, la palestra il martedì e il giovedì, la mamma una volta al mese, il viaggio tra un anno esatto, albergo già prenotato e lista della roba da portare in valigia, la colf il lunedì e il parrucchiere il sabato mattina, il 30 agosto alle quattro all’Ikea, a memoria gli orari di treni e pullman. 
Sanno a memoria tutta la loro vita. Questo mi mette profondamente a disagio, io ho preparato alla fine del liceo solo una mappa concettuale della mia vita, io sono abituata ad improvvisare, a fare i compiti nell’ora di religione, a fermarmi in un posto perché mi colpisce la luce, a dare appuntamenti approssimativi, ad imboccare una strada che fa odore del sugo di mia nonna, a fermarmi solo quando sono stanca, sedermi al bar e seguire le vite degli altri, immaginarle con precisione.

Mi sono seduta al bar di piazzetta IV marzo a Torino per bere una birra. I proprietari sono una coppia di sessantenni alla mano. Ho ordinato una Menabrea, avevano solo quella. Lei è di Carini, abbiamo parlato l’altro giorno. 
Stavolta è lui a presentarsi al tavolo per prendere l’ordine. Gli chiedo se anche lui è siciliano. Lui risponde di no, ma mi spiega che ha vissuto a Messina per quindici anni. 
Poi si mette a piangere. Sì, si mette a piangere, e io mi sento terribilmente in colpa. Chiedo scusa, lui torna dentro al locale. Poi torna e mi dice che ha lasciato la Sicilia per colpa della mafia, ‘prima degli anni Settanta a Messina la mafia non c’era, si stava bene. Io adoro la Sicilia, io sarei rimasto lì per sempre, io ero felice’. Piange di nuovo. ‘Ho dovuto fare una scelta, partire o restare. Se fossi rimasto lì mi avrebbero fatto la pelle, sarei morto’. Gli chiedo di nuovo scusa. ‘Io sono romagnolo, io sono orgoglioso tanto quanto i siciliani, il pizzo non l’avrei mai pagato. E non l’ho fatto, nemmeno dopo le minacce e una pistola puntata alla tempia’. 
Qui a Torino noi siamo più liberi, programmiamo tutto ora per ora, è vero, ma siamo comunque più liberi. La libertà di programmare in Sicilia voi non ce l’avete. 
Non vi piace programmare tutto, ma anche se vi piacesse non lo potreste fare. Voi non siete liberi, per niente. Laddove avete la possibilità vi inoltrate in vicoli che non portano da nessuna parte, perché lo decidete voi, e nessun altro, fate quello che vi passa per la testa quando potete. Voi siete sempre stati abituati a farvi fare i programmi dagli altri, a far decidere gli altri. Voi siete a Statuto Speciale, voi andate al bar a raccontarvi i segreti, ad ubriacarvi, siete abituati a farvi comandare, a ricevere ordini. 

Ieri era l’anniversario della morte di Libero Grassi. 
Te lo ricordi Libero Grassi? 
Lui voleva insegnarci ad imboccare altre strade, a conservare la possibilità di scelta, di dire no a qualsiasi programma, a scegliere, andare a zig zag in una strada dritta dritta.

giovedì 3 marzo 2016

Anarchia mestruale a Porta Palazzo

Ho sognato l’esplosione di questa città, Superga, la Gran Madre, piazza Vittorio, i portici di via Po, piazza Castello, il palazzo reale, piazza San Carlo e la stazione di Porta Nuova, tutto schizzato in aria, tutto avvolto dal fumo e dalla polvere, tutto a soqquadro, nessun appiglio di umanità, nessuna logica, niente ordine, niente di niente, solo pezzi di tutto in aria, niente più cielo né pavé, Marco che mi porge lo zaino e mi intima di andare via, un paio di scarpe da tennis slacciate e un curriculum in mano, identico a sempre, una felpa a righe e lo sguardo sereno di chi non ha fretta.
Mi sento ferita dall’ordine becero di queste strade e mentre si frantumano sotto i miei piedi provo un senso di liberazione, un miracolo, mi sembra un miracolo che qualcosa si muova, le persone iniziano a correre e noi fermi lì, io immobile e Marco che sorride e ha già posato lo zaino per terra, non abbiamo fretta, non abbiamo dove andare, il posto è quello giusto e quando finirà il terremoto allora questa sarà la città giusta per tutti noi. 

Ale vive in due città diverse, la mattina può permettersi anche di rivolgere la parola agli sconosciuti ma la sera, non appena approda nella vasca di Porta Susa sa che deve rimanere muto e passeggiare in silenzio fino a casa dove io esplodo insieme a lui in un eccesso di vitalità che mi è mancata nelle ultime ore. Per me sono quattordici ore di tabula rasa, di elettroencefalogramma piatto e quattro ore di sfogo, di rabbia e allegria, di follia e urla, di risate sonore e occhi finalmente accesi, l’indifferenza se ne va insieme a questa città e i portici di piazza Statuto si trasformano nella curva del San Paolo.

Stefy mi guarda attenta e mi chiede cosa c’è. Non riesco a respirare bene. Mi dice ‘rilassati’, puoi amare chi vuoi, puoi parlare con chi vuoi, è così che ti conosco e così devi rimanere, mi strappa un sorriso e ci abbracciamo, l’amicizia ci viene naturale ed è una cosa troppo bella. Ogni tanto piange. L’ha fatto anche al nostro primo appuntamento. Non è fatta della stessa pasta delle persone che fanno da sfondo a questa città. Al Valentino, sotto un albero quasi più piccolo di lei mi ha fatto bene guardarla indifesa avvolta da quella natura finta, ordinata e composta. Lei era più forte.

Scompongo le mie giornate e mi sento meglio, agire qui è difficile, serve un sacco di coraggio e sono diventata timida, inadatta, inopportuna. 
Che strano effetto mi ha fatto vedere quella ragazza che ho conosciuto una sera qualche mese fa, mi ha abbracciata e mi ha sorriso di cuore, dicendomi che le faceva davvero piacere incontrarmi per caso, non ha esitato, ha smesso di parlare con la sportellista della Posta, optando per un eccesso di calore e attirando tutti gli occhi della sala su di sé. Sai perché sono qui? Lo sai?
Stefy, Marco e Ale continuano ad abbracciarmi e a farmi divagare, a farmi andare fuori strada, a tagliare in diagonale i viali e non rispettare i semafori.
Marco torna a Napoli senza un lavoro, Porta Palazzo crolla, le bancarelle alle sei di mattina sono ancora smontate, nessuno ha più voglia di lavorare e quelle cazzo di molle che mi ritrovo sotto i piedi non saltano più come prima. Adesso che la foto di Maradona ci arreda la casa mi sento come se la leggerezza fosse un po’ più lontana dalle mie giornate, come se sei ore per la preparazione di un buon piatto fossero perfettamente inutili, come se il Torino Film Festival fosse solo uno squallido ritrovo per gente che non ha un cazzo da fare, come se l’hip hop non fosse mai esistito, come se il trash fosse davvero solo immondizia, come se tutte le bici del ToBike non funzionassero più, tutte rotte o col sellino storto o con la ruota bucata o senza freni. 


martedì 7 luglio 2015

Lauretta

Mi mancherà la possibilità di confrontarmi con te, di raccontarti quello che faccio. Mi manca già, e sono passate solo due settimane. 
È successo che tu non c’eri e io ho conosciuto questa città. Ho conosciuto un ragazzo di Roma e siamo diventati subito amici. Ti ricordi cosa dicevamo dei romani? Dimenticalo, non tutti sono come quelli che abbiamo conosciuto. E mi sono ricordata della gioia che si prova a pedalare senza meta, a stare seduti sul marciapiede a osservare la gente, a ritornare a casa all’alba o quando ti pare, a prendere meno sul serio le cose, di che gioia si prova a condividere un pasto con qualcuno, della bellezza di questa città di immigrati dove tutti fingono perché non possono fare altrimenti, dove tutti hanno paura di rompere gli equilibri. Ho visto un posto dove mettevano drum and bass, i ragazzini che si scontravano per cercare un contatto, ho visto la gentilezza delle persone, un posto dove si ballava fino all’alba e una sconosciuta che mi ha offerto da bere per tutta la sera. Ho visto ragazzi vestiti a pois che ballavano e che si divertivano, pugliesi che suonavano tamburelli e chitarre, incantati dalla voce di Vale, ho visto stranieri che cercavano oggetti smarriti sul prato del parco del Valentino, muniti di torcia e sacco, ho perso il lucchetto della bici, l’ho lasciata nel cortile interno del nostro palazzo e me l’hanno rubata. Ho visto un posto autogestito, in riva al Po, proprio dove abbiamo ascoltato il concerto del trombettista, e sono rimasta senza parole. Sedie rovesciate e stranieri che arrostivano salsicce, ragazzi che dormivano sulle sdraio piegati in due dall'alcol, con le bocche aperte, altri che ballavano Cindy Lauper alla luce del giorno e che salutavano ogni passante, ho visto l’alba tutti i giorni o quasi, un ragazzo che si tuffava nel Po e nuotava a stile libero, i suoi amici lo riprendevano col cellulare e lui, in mutande, emergeva dall’acqua e rideva, rideva bene, tipo Tony quando prende il peyote. Ho visto piazza Vittorio vuota, senza nemmeno una macchina, un bar in cui tutti i camerieri erano gentili e avevano un sacco di storie da raccontare, ho visto il Lindo Ferretti dei poveri che cantava una canzone che si intitolava “La valanga”, una bacinella blu piena di vino e vodka, una chitarra e un’armonica, ricordi? E vita. Davvero, la vita. 

Ho trovato un capo che mi chiede come sto e colleghi siciliani, e i giornali e i telegiornali, e i libri, Rimbaud e Wolff, Carver, Ammaniti, il mio Ammaniti, e Tondelli, Gatti, McCarthy, Bauman, Palahniuk, Wu Ming e Salinger, Bukowski  e la Kristof, Keret e Saunders, milioni di cose che avevo dimenticato, e Auster che non mi piace. Ho visto una casa in collina, bevuto birra polacca, mangiato anguria fresca e parlato d’amore con perfetti sconosciuti, conosciuto i cinesi del bar di Piazza Statuto e visto un trans che discuteva animatamente con un ragazzino di sentimenti, preso un Vodka Lemon alla Bicyclette, io che non bevo cocktail, e c’erano 40 gradi, conosciuto un tipo che sembrava Renato Zero che mi ha chiesto di cantare, giocato a calcio balilla con dei bambini cubani, trovato un bar di fiducia in cui un napoletano e un signore anziano mi raccontano tutto, trovato una rosticceria di fiducia in cui il rollò col wurstel si chiama Rocco, letto un libro di fotografia, iniziato un romanzo, imparato cos’è un fondo comune di investimento e letto il Sole24ore, dormito sul divano con le finestre spalancate e i ragni che mi pendevano sulla testa. 


Adesso sto cercando di imparare a gestire le emozioni, i sentimenti, a dosare quella palla d’amore che tu conosci bene, imparare a dire no a volte, a studiare di nuovo, a comprare solo ciò che è necessario, a vedere le cose dal vivo, e non immaginarle e basta, a vivere un po’ di più, da sola, all’alba. Quando gli altri dormono.

lunedì 8 giugno 2015

Hai preso la pozione?

Hai preso la pozione?
Non mi serve oggi, in questo mucchietto di terra arida l’energia rimane alle persone, nella terra fertile invece l’energia deve necessariamente alimentare le piante, gli alberi, i frutti. 
In riva al Po un trombettista suona e una folla di ragazzi assiste allo spettacolo, tutti giovani, più giovani di te che hai fatto trent’anni. È sabato sera e fa caldo, finalmente siamo a maniche corte e i sandali ci permettono di toccare terra, finalmente è estate. Ma mi chiedi da cosa si capisce. Da cosa si capisce che è estate. Da un mucchio di ragazzi seduti sul lungo Po, muti, in silenzio, immobili, che guardano un trombettista suonare? E quale sarebbe l’estate? ‘Un assopimento generale piuttosto’, e mi guardi perplesso. Ti senti a disagio se alzi la voce, se pronunci il mio nome, ti senti a disagio se mi chiedi una sigaretta perché la tua voce rimbomba e fa eco. Quando inizia il concerto il silenzio viene rotto da un pugno di applausi timidi che risulta tanto ordinato quanto innaturale e meccanico. Non uno slancio di vitalità, niente e nessuno sopra le righe, tutti composti e innaturalmente giovani, facce pulite e gesti misurati. Qualche tempo fa avremmo pensato ‘che meraviglia, che ordine miracoloso, che civiltà’. Ma ora la civiltà ci è venuta a noia e non troviamo più una via di mezzo che soddisfi. 
Il grottesco fa parte della nostra natura e del grottesco ci siamo nutriti per anni, dei comportamenti incivili e della follia smisurata e anarchica. Quindi oggi non mi serve alcuna pozione, qui a bere in mezzo ai trans nelle vie della Vucciria, in mezzo ai pacchioni che friggono panelle e crocché, che non si curano di nulla, in mezzo ai ragazzi ubriachi che ballano sulle panche, a sconosciuti che ti porgono l’accendino quando metti in bocca la sigaretta appena rullata, senza che tu abbia chiesto nulla. L’aria è leggera, i cuori sono aperti e le urla sono il sottofondo perfetto perché grazie alle urla anche tu riesci a gridare la tua, e la naturalezza della vita vissuta bene, senza scopo né obiettivi ma a stretto contatto con la gente, con persone uguali a te, identiche a te, che cercano esattamente quello che cerchi tu. 
Rocky riempie di milza il panino e poi aggiunge ricotta e limone, sorride e mi viene sempre voglia di chiedergli qualcosa, mi fa andare a letto contenta perché racconta sempre storie interessanti e mi fa mangiare bene con due euro. L’energia delle persone si misura in storie, le storie che qui chiunque racconta a chiunque, senza essere interpellato. Oggi mi nutro di storie, di risate e di urla, di ammuttuni, di rombi di motori, di disarmonia.

Sono arrivata con la munnizza e me ne vado col mare. L’autostrada da Puntaraisi a Palermo mostra il lato peggiore della città, con sacchi di spazzatura ovunque, ma quando percorri la strada al contrario e sei diretto in aeroporto, quando devi partire, allora sì che vedi solo mare, solo mare e un’isoletta felice, arida, perché l’energia qui è delle persone.


lunedì 3 novembre 2014

Porta Susa

Ho comprato le vongole al mercato del pesce, il prezzemolo e la frutta, i gianduiotti e le banane che piacciono a mia madre, i cereali che piacciono a mio fratello e la marmellata che mio padre spalma sulle fette biscottate a colazione. 
Inizio a cucinare e metto in ordine la casa.
Alle 13 scendo e prendo la bici. Inizio a pedalare veloce e per poco non metto sotto una signora. C’è il sole oggi e non fa freddo. 
Mi guardo intorno a scrutare la città, mi chiedo se può andar bene. Voglio che Torino faccia un’ottima impressione anche a chi arriva dal mare. Mi chiedo se è tutto perfetto e studio la strade per vedere se sono pulite e i cassonetti per assicurarmi che siano vuoti e il traffico e l’abbigliamento dei passanti. Niente deve disturbare la mia famiglia. Devono apprezzare questa città e il suo profumo, devono sentirsi a casa, cambiare idea e trasferirsi qui.
Sono le 13.20 e un gruppo di studenti gioca a rincorrersi davanti alla stazione. Il sole è caldo e mette di buonumore. Una ragazza si avvicina e mi chiede dove sia l’agenzia delle entrate. Un vecchio è in piedi davanti all’ingresso e guarda la gente passare. Le macchine si fermano per far attraversare i pedoni e la gente in bicicletta. Non c’è traccia di sporco, tutto brilla e il tabellone luminoso segna 15 gradi. Perfetto.
Scrivo un messaggio a mia madre per indicarle l’uscita giusta e aspetto. Controllo il meteo sul cellulare. Bel tempo fino a domenica. Bel tempo fino al giorno in cui ripartiranno.
Studio ancora una volta la cartina, dove ho cerchiato in rosso i posti migliori, quelli che voglio vedano assolutamente.
Poi squilla il telefono.
‘Uscita D’

È il momento più bello, quando vedo sbucare i sorrisi uno ad uno, loro avvolti da giubbotti e piumini che manco Totò a Milano, mi guardano e sono felici e pure io e ci abbracciamo e ci chiediamo tutti insieme ‘come stai’.
‘C’è il sole’, dico.
Prendo il borsone e lo metto nel portapacchi della mia bicicletta. 

Oggi è una bellissima giornata.

giovedì 5 dicembre 2013

Torino non è una città di passaggio

Volevo chiedervi di restare qui, almeno qui. Le vite che creo, le vite reali con lo sfondo del sole, quello vero, delle nuvole e i marciapiedi, le vite vere fatte di sguardi, strette di mano abbracci e bicchieri di vino, quelle vite mai virtuali che ho cercato di alimentare giorno per giorno in bici o in autobus, in metro o a piedi, quelle vite mi servono. 
Volevo chiedervi di restare, almeno qui. Di non partire perché no, vi siete sbagliati, Torino non è una città di passaggio. Invece ve ne andate anche da qui e ritornate a casa, o andate via dall’Italia e così cambia la geografia sentimentale che abbiamo costruito negli anni, fatica sprecata, gli abbracci che ci servono mediati da uno schermo, il mondo vero ma mediato sempre, e i miei amici diventano foto di profili Facebook e icone di roba varia e diventano irreali, sempre più irreali, lontani, difficili da raggiungere con lo sguardo ed è difficile trovare mani screpolate dal freddo o occhi lucidi per l’influenza. Torino non è una città di passaggio.

Foto di Valeria Taccone

Non emigrate più, scegliete un posto e fermatevi lì, lasciate che la gente si affezioni, trovatevi un bar preferito, un indiano sotto casa, un cinese per le stoviglie, andate a Porta Palazzo a fare la spesa, prendete nota degli spettacoli gratuiti che offre questa città, ma restate. Almeno qui. 

Invece partite tutti militari e le vite vere si sfaldano. Rivivono solo due tre volte all’anno, di ricordi vecchi duemila anni.

Foto di Valeria Taccone

http://www.thefacesoffacebook.com/

lunedì 11 novembre 2013

Il mio cognome è del nord

Al supermercato, davanti alla mia cassiera di fiducia, l’unico modo per non sentire un pugno allo stomaco quando mi spara a voce il totale, è quello di pensare che la cifra da pagare sarà molto più alta, almeno il doppio di ciò che spenderò realmente. Solo così riesco a non farmi venire un coccolone, solo prendendomi per il culo, lasciandomi credere che sì, anche oggi sono stata brava a risparmiare. La guardo la spesa e penso “saranno almeno 20 euro”. Invece la cassiera mi sorride e mi dice “fanno 10 euro e venticinque”. Che culo, penso. 
Arrivata a casa apro la busta per svuotarla: 3 birre, 2 kinder cereali (perché dice che fanno passare il mal di testa), una scatola di kinder cioccolato da 4, due finocchi e una confezione di patatine. Bella spesa del cazzo, penso.
Ma oggi dovevo consolarmi, era il mio primo ‘vero’ giorno di lavoro. Sono arrivata in ufficio alle 7.45, in perfetto orario. Ho legato la bici davanti all’ufficio e sono entrata dicendo: “buongiorno, oggi è il mio primo giorno di lavoro”. 
Presentazioni di rito, tutti vecchi, un po’ pelati, un po’ stanchi, con rughe disegnate qua e là, tutti sorridenti di un sorriso un po’ spento, come bambole di porcellana gentili e gradevoli ma anche un po’ inespressive. Ecco i miei colleghi di porcellana, con voi condividerò la neve, la pioggia, il freddo, i discorsi sul tempo, qui a Torino si gela, meglio da te a Palermo, chissà quanti gradi ci saranno, questa camicia l’ho pagata 70 euro e poi al mercato l’ho rivista uguale a 15, che hai oggi per pranzo, sai sono a dieta, la dieta sta funzionando, si vede che stai meglio, ma parti?, dove vai quest’anno?, hai sentito il telegiornale, questi immigrati se ne devono andare, i mezzi a Torino non funzionano, senti qua non dire scemenze perché io vengo dal sud, sai questo mese ho troppe spese, sono arrivate le bollette, è aumentato il gas, devo accompagnare mio figlio alla partita di calcetto eccetera eccetera eccetera. 
Con gli anni ci farò l’abitudine ma la mia espressione quando mi trovo nel bel bezzo di queste conversazioni tritatutto è quella di una persona estremamente diffidente. Mi trovo a dialogare con degli sconosciuti, che tra qualche tempo diventeranno figure abituali come i personaggi disegnati sui quadri di casa mia, di cose assolutamente futili. 
Da piccola mi ero riproposta di non sprecare la mia voce in discorsi troppo futili.  Di circostanza magari sì, o almeno ho imparato col tempo, ma futili e banali no. O almeno questo era quello che pensavo quando avevo costruito la mia idea di vita e il mio carattere ideale in un mondo che apparteneva solo a me, una sorta di codice etico da rispettare per volermi bene, per garantirmi un’autostima solida. Era quando avevo deciso che la mia vita sarebbe stata importante. 
In realtà, tutto quello che mi è capitato dalla fine dell’università ha soltanto smontato questo mio postulato.
La vita è fatta così, una grande palla di discorsi mediocri che ti permettono di essere ‘normale’, una grande sfilata in cui nessuno sembra o deve dar l’impressione di brillare per  astuzia. 
Tutto questo all’inizio mi offendeva, adesso non più. Possibile che io stia vivendo solo adesso il passaggio dall’adolescenza alla maturità? Sì, forse è possibile per via di una serie di questioni che bla bla bla si conoscono bene, crisi, precariato e quant’altro. 

Lavoro con i soldi, conto i soldi e li do alla gente. Conto i soldi e li incasso. Ho tutti i giorni dei soldi in mano insomma, ma non sono miei. Sono dell’azienda, o dei clienti. Ho anche uno stipendio però, e questo mi fa sentire fortunata, felice.
Mi occupo di amministrazione, di servizio al pubblico e cose così.

Per me i soldi hanno un colore preciso, sono color bordeaux lucido. Quando ero piccola, mi ricordo un’enorme parete attrezzata con una cassettiera dove i miei tenevano tutte le pratiche, i conti, le multe, i documenti di ogni tipo, divisi per carpette e riconoscibili dalle etichette bianche. 
È stata sempre mia mamma ad occuparsi di quella cassettiera, a pulirla, a selezionare i documenti, a rovistare tra la polvere delle cose passate, pagelle, lettere, multe, passaporti, libretti di assegni. Subito sotto c’era il cassetto deputato alle fotografie, il mio preferito.
Per me i soldi erano una cosa lontana, una cosa di cui ho sempre sperato di non dovermi occupare, una cosa che mia madre gestiva bene e che non mi competeva affatto. Tutte quelle pratiche, riordinate con la cura di un bibliotecario, mi hanno sempre fatto paura, mi hanno sempre fatto credere che sarei rimasta lontana da quella vita cartacea fatta solo di numeri. L’ho sempre saputo, come una certezza che ti permette di scegliere l’esatto opposto di ciò che non tolleri. 
Ingenuamente, ho sempre sperato di delegare qualcun altro per svolgere questi compiti, ho sempre pensato, fin da piccola, che qualcuno si sarebbe preso la briga di farlo per me. E invece, vuoi per un fatto genetico, vuoi per il destino, vuoi per contrappasso, adesso io svolgo questo lavoro non solo per me, ma per tutti i cittadini di Torino e in potenza, per tutti gli italiani. 
Le persone delegano me e si sentono immediatamente sollevate, assolte da ogni obbligo, sono io che rispondo delle loro tasse, sono io che ci faccio attenzione, sono io che prendo in gestione le loro vite per dieci minuti e gli permetto di fregarsene dei loro doveri. Esattamente quello che pensavo avrei fatto io per il resto della mia vita, una vita burocratica e amministrativa diretta da altri, da una fantomatica signora dei soldi, infallibile.

La vita quindi ha preso una piega strana e soltanto da qualche giorno ho cominciato a pensare al mio futuro. 
Ho cercato di rovistare tra i cavi di queste vicende, di trovare una risposta a ciò che mi stava succedendo.
Mentre bevevo un caffè al bar vicino l’ufficio, una risposta, seppur non del tutto esaustiva, è arrivata davvero. Ho preso in mano un giornale e ho letto di un tipo che aveva il mio stesso cognome. Allora mi sono ricordata che al corso di web design finanziato dalla Regione Piemonte il mio insegnante mi aveva chiesto: ‘ma sei partente di Ardito?’. 
Quella mattina, dopo il caffè, appena entrata in ufficio, dopo le presentazioni, due dei miei colleghi mi avevano chiesto, di nuovo: ‘ma sei parente di Ardito?’. No, direi di no. 

Appena tornata a casa ho cercato su Google ‘diffusione del cognome Ardito’ e ho scoperto che a Torino ci sono 60 famiglie Ardito, a Palermo solo 9. 
A quanto pare c’è anche un Ardito direttore di un ufficio come quello in cui lavoro io. 
Un motivo quindi doveva pur esserci. Non è un caso che io sia finita qui, tra piste ciclabili e strade ghiacciate, tra regole ferree e conti pubblici, tra le maglie di quella che Bianciardi chiamava ‘vita agra’. 


Sono tornata in patria, ho pensato. È qui che vivono gli Ardito. Dirò ai miei di trasferirsi  qui perché evidentemente hanno più parenti qui che in tutta la Sicilia.
Forse è qui che gli Ardito finiscono per una legge divina, ignari fin dalla nascita che nella loro vita avranno come vanto la Mole piuttosto che il Palazzo dei Normanni. 
Eppure non riesco a perdonarmi di non essere rimasta lì, tra le palme e il traffico. Nonostante nella mia terra mi sia sempre sentita un’estranea, una pedina di passaggio, resta il rimpianto di non essere rimasta.
L’illuminazione derivante dal cognome - che ha assunto un significato tutto particolare da quando ho visto Lost - poteva essere una perfetta spiegazione di ciò che mi sta capitando, ritrovare i propri parenti, i propri simili, il proprio cognome in una città del nord, una città di fabbriche e rigore, una città quasi senza errori. Però ogni tanto questa certezza forzata, si smonta  in un istante. Forse il destino forse non c’entra nulla, è solo che i siciliani se ne vanno, se ne sono andati in passato e se ne andranno sempre dalla loro terra finché le cose non miglioreranno. Per questo motivo si trovano sempre pezzi di Sicilia qui al nord, per questo  motivo quando attraverso via Garibaldi non mi stupisco se sento parlare il mio dialetto, se vedo vecchietti che gesticolano come me, che parlano a voce alta come me.

Forse perché in Sicilia, l’unico modo per non rischiare di fallire sembra quello di scegliere di andarsene via.


Archivio blog