domenica 16 ottobre 2011

IL GIOCO DEI BLACK BLOC è LO STESSO DEI POLITICI

Roma. La città sotto assedio.

Un sole che rischiara le strade. A seicento metri la nebbia, il fumo, il buio, l’aria fitta, pesante, vergognosamente ferma. Una piazza che vedi in slow motion animarsi dallo schermo di un computer, con le casse spiegate e le bombe carta che producono boati che senti anche tu in diretta e arrivano dalla finestra con una potenza terrificante. Le urla, la gente che corre, fiumi di gente, fumo e sirene spiegate. Le camionette dei carabinieri che si fermano sotto casa e decine e decine di uomini in uniforme che prendono a marciare e battere i manganelli contro gli scudi, come drogati, come fatti di coca, come a farsi coraggio, come impauriti, terrorizzati, come ad incitarsi a vicenda, come a farsi forza, per forza, senza motivo, per portare i soldi a casa, per preservare una vita che non ha nulla di speciale, senza riuscire a trovare un motivo valido nemmeno per sfamare i figli in un paese in cui questi poveri figli non hanno futuro. Cercare le motivazioni, sperare di trovarle, a ritmo di manganelli contro scudi, marciando, urlando, come in guerra, avanzando, mentre la gente a pochi passi corre spaventata.
Guardare il mondo dalla finestra, la guerriglia sotto casa e aver paura di trovarsi lì fuori.
C’erano i miei amici per strada, c’era il mio ragazzo, immersi nel corteo delle strade del centro, a sfilare con gli indignati al ritmo di tamburi, ignari di ciò che si stava consumando nelle strade del nostro quartiere.
Il panico del mio coinquilino che urlava ‘sono sotto casa, sono sotto casa!’ e un momento di sconforto, di paura, l’impotenza, il controsenso di una piazza invasa da gente morta che non vuole andare da nessuna parte, da nichilisti del cazzo, da pupini neri più piccoli di te, da ombre che non credono in nulla e che non puoi fermare. La morte che sconfigge la vita, sempre.
Un corteo colorato, vivo, migliaia di persone con gli sguardi vivi, con la luce negli occhi, con la voglia di cambiare e di riprendersi la vita, migliaia di giovani e famiglie fermati da un gruppo di finti anarchici benestanti.

La paura che ci blocca tutti, la paura che ci fa fare marcia indietro, che ci impedisce di parlare, in piazza come nella vita di tutti i giorni, la paura che ci sia sempre qualcuno armato pronto a colpirci, la strategia della tensione e del terrore costanti, il meccanismo perfetto per zittire la gente.
I pupini neri fanno lo stesso gioco dei politici.
Quella che hanno saputo creare in questi anni è la più grande rivoluzione mondiale di tutti i tempi, una rivoluzione antropologica e sociale combattuta con l’arma del terrore psicologico, è una rivoluzione che ha mutato le persone da dentro, le ha trasformate in soggetti costretti ad ascoltare le raccomandazioni dei media come genitori che mettono in guardia i figli, come ammonimenti che valgono per la nostra vita quotidiana. Il risultato è che ci sentiamo sempre meno tranquilli perché le borse crollano, la disoccupazione giovanile è a livelli mai raggiunti prima, Roma è la città italiana col maggior numero di incidenti e anche la città più violenta, i rumeni sono sempre ubriachi e violentano le donne, gli autisti sull’autobus sono sempre distratti perché giocano con l’i-pad mentre guidano, i pazzi sono dappertutto, se non offri una sigaretta al passante che te la chiede rischi di essere accoltellato, Vendola è gay e ripete discorsi fatti da altri 50 anni fa, Berlusconi va a puttane, c’è il rischio che la tua donna potrebbe essere una puttana, anche tua figlia potrebbe essere una puttana, tuo figlio potrebbe essere uno spacciatore, il lavoro degli operai nelle fabbriche e nei cantieri non è mai sicuro, meglio non partire per il rischio attentati, gli italiani che si spostano spesso muoiono come anche gli stranieri, per lo più ragazzi della tua età coinvolti in orge perugine in cui sono coinvolti uomini e donne di tutte le nazionalità, i figli sono un sacrificio degli uomini che in realtà speravano in un’altra vita e non avrebbero mai voluto un marmocchio in un paese che non dà pane nemmeno a sé stessi. E tu ormai hai paura di tutto, e inizi a pensare che dovresti parlare di meno, provocare di meno, agire di meno, uscire di meno, anche solo per limitare i rischi.
Lo stesso fanno i pupini neri, diffondere il terrore.
Ma allora quello che mi chiedo è quale spazio possiamo prenderci per esprimerci, quali spazi ci sono rimasti per non avere paura di nulla e ricominciare ad agire. Vogliono limitare l’azione oltre che il pensiero, vogliono farci credere di non avere armi, che in questo momento è meglio rassegnarsi e gettare la spugna, e noi lo facciamo e ci riuniamo la sera a casa di amici e parliamo solo di questo, di quelli che erano i nostri sogni un tempo, interrogandoci sul perché adesso non ne abbiamo più nemmeno uno, su cosa ci sta rendendo così inermi, disarmati e flessibili, su cosa ci sta succedendo e perché, cosa dobbiamo fare e dove dobbiamo andare. Non riusciamo nemmeno più a divertirci, forse solo a dimenticare, buttando giù qualche bicchiere perché sembra non ci siano parti del mondo felici, uomini felici, gente col sorriso se non i nostri politici. E anche per loro sembra che la felicità coincida con la ricchezza e questo ci rende frustrati e tristi perché anche noi vorremmo 16 puttane sempre pronte a dare il culo quando glielo chiediamo o un aereo privato che ci porti alle feste più fighe del mondo o un armadio pieno di vestiti firmati e stilisti sempre a nostro servizio e i migliori cuochi e parrucchieri, e un maggiordomo e la donna delle pulizie bona e la segretaria e il mac e l’attico e la villa e soldi da ‘spardare’ in viaggi costosi, auto costose, moto costose e barche costose eccetera eccetera.

Quello che ci manca è la coscienza di noi stessi, la consapevolezza di ciò che ci sta succedendo, una pausa caffè a tu per tu con il proprio barista di fiducia, un momento in cui ci guardiamo veramente dentro, un black out, un nuovo inizio, raccogliendo i pezzi e rimettendoli insieme, una terapia collettiva fatta di outing non solo col proprio psicologo ma soprattutto con noi stessi, guardandoci allo specchio per vedere come siamo adesso, cosa ci piace e cosa non ci piace. Perché non ce lo chiedono mai e ormai non lo sappiamo più. Ci serve un attimo di pausa, guardare la gente negli occhi senza avere paura, fidarsi di più degli altri.

Solo senza paura riusciremo ad agire, a concludere qualcosa. Fino a quando la paura e il terrore saranno il nostro pane quotidiano, saremo immobilizzati, troppo impauriti per aprire il portone di casa e uscire    fuori.


giovedì 29 settembre 2011

Esagerazioni molto personali - La città dei porci

Caro diario,

quello che sento in questo momento è solo un traffico frastornante fatto di clacson scarichi e di gente a rischio infarto per imprecazioni moleste tipo ‘li mortacci tua’ e poi una tosse persistente della mia coinquilina che oggi ha fatto un esame con la voce completamente scarica. Questi suoni rimbombano nella stanza e sento come una dose di buonumore che mi pare veramente strana perché immotivata. Diciamo che non ho alcun problema, in cucina c’è una pentola con fagioli sedano cipolle e carote e tutto bolle. Ho solo un nodo allo stomaco che si scioglierà presto, ne sono sicura. Però va tutto bene, ho ancora un lavoro e sento che tra un po’ di tempo potrei anche riuscire ad andarmene via da questa città e mi sento veramente meglio. Il sole la mattina non è tanto caldo qui, esco presto, prestissimo e vado sempre con le scarpe più scomode, arrivo e trovo le mie colleghe al bar con un tipo molto simpatico che mi fa ridere sonoramente già alle 7 e mezza di mattina, il che non è poco, penso, mi guardo intorno, scruto la gente e hanno tutti il viso più stanco del mio, mi dico che anche i bambini sono infelici in questa città, che le mattine sono scomode per cerette e faccende estetiche di ogni tipo: tutti brutti, pelosi, con le borse sotto gli occhi, senza nemmeno i soldi per il deodorante credo, sciupati, secchi e infelici. Non è la mia città. Li lascio a voi questi rumori molesti, queste urla immotivate, questi marciapiedi fatti di topi e scarpe firmate, questa mezz’aria fatta di botulino e cocaina, questo stress morbido che fa diventare pazzi, questo fare le cose per forza, questa noia quotidiana fatta di insulti e corse per prendere il 3. Io mi accontento della mia dose di buonumore che arriva di rado e quando arriva è spiazzante anche per me ma mi rende lucida, tanto lucida da capire che non è questo il mio contorno ideale.







domenica 18 settembre 2011

Precari & precarietà

Il problema di queste giornate è che non riesco a parlare. Sono muta, non mi esce la voce. Non so perché ma è come se la mia partecipazione, seppur solo vocale, telefonica, a distanza, non avesse il minimo significato.
Muta. E mentre sto muta, e non mi esce nemmeno un filo di fiato, mi accorgo che un tempo non ero così, che prima avevo tanto da dire, e adesso niente. E non so perché. Sono muta da qualche giorno, da qualche mese, da qualche anno, un paio credo. E non sorrido facilmente, non mi viene. Non capisco perché da un giorno all’altro mi ritrovo spaesata e col culo per terra. Eppure mi avevano detto che questo lavoro sarebbe durato poco, qualche mese, sei, sette. Mi avevano anche detto che forse mi tenevano con loro, perché ero brava, certo, e puntuale, e impeccabile. Ma forse ero troppo attenta a non sbagliare, forse ero attenta al lavoro e non troppo a lasciarmi andare. Forse mi ha fottuto quella paura che avevo di restare senza lavoro da un momento all’altro. Cerchi di costruire qualcosa, e lo fai con meticolosità, pazienza e impegno per quasi una anno, ti sforzi per svegliarti presto ogni mattina, per preparare la cena e il pranzo da portare in ufficio il giorno dopo, ti allontani dai tuoi amici ancora studenti perché a volte i loro ritmi e le loro parole ti urtano; esci di meno, stai al buio in un seminterrato durante il giorno perché alla tua collega di stanza dà fastidio la luce perché non vede lo schermo del pc, le lavatrici le fai solo il fine settimana, pulisci la casa che sembra un centro sociale, diventi grande, odiosa, stupida, frivola e cogliona, pensi a cosa devi indossare il giorno dopo, pensi a quello che vorresti fare veramente e non trovi risposte, leggi il giornale online e ti viene voglia di sterminare il genere maschile, ascolti tutti i discorsi più frivoli e più squallidi del mondo, fin dalle otto di mattina, ti dispiaci per le tredicenni troie di questo paese. Mi avete fatta diventare così triste per niente? Adesso sarò triste e disoccupata.
Oggi mi ha consolato una frase della mia amica che dal nulla a tavola ha detto: ‘Non è vero che l’amore finisce. Il nostro non finirà mai’. Più banale e ridicolo di così non si può, ma mi sono commossa lo stesso, senza motivo.

giovedì 1 settembre 2011

I miei due grammi di ragione sono esauriti (cit.)

Non sai quanto ti adoro quando mi dici che vivere è la cosa più facile del mondo. Mi si tinge lo stomaco di arancione quando sei così ottimista, mi sento subito avvolta nel più stupido paio di braccia, mi sembra veramente tutto così facile, e la paura di svegliarmi viene risucchiata dagli alberi di fronte alla finestra. Il mondo facile e la vita facile, e una bocca che ti sveglia la mattina e un pene in erezione quando stai per aprire la porta di casa per andare a lavoro e il cibo che chiede di essere scongelato, e la spazzatura di essere divorata da formiche imbecilli e mute.
Mi è bastato un giorno di lavoro per riprendere contatto con la realtà, quella realtà che non vorrei mai diventasse tale, fatta di contatti , di e-mail, di voci finte, di mauromaurizio e nomi stupidi come questi, di bambini deficienti e calendari con culi e tette, una vita fatta di soldi ma spesa con umiltà e umanità, un mondo che seppur un tantino squallido ti fa stare bene a livello umano mentre prima vivevi di rispetto comprato a forza e un paio di bottiglie di vino a sera ripetendo versi di Rimbaud. Quando il lavoro faceva schifo e la vita era meravigliosa e si poteva viaggiare solo con una lezione del professore più presuntuoso dell’ateneo e ridere delle sue cazzate che in fondo erano il tuo pane quotidiano, essere solidali a tutti i lavoratori che faticavano per portare la spesa a casa, non comprenderli e non invidiarli, dire di loro ‘io non sarò mai così’.
Ci sono tantissime cose positive in questa città di merda, tantissime, puoi passeggiare senza essere fissato, puoi ignorare il mondo che ti passa davanti, fare amicizia con mezza Roma nel giro di 12 ore, puoi vedere la gente cadere e rialzarsi da sola, puoi scrivere di lei senza essere visto, godere dei privilegi legati alla finta civiltà, visitare parchi e ville, lavorare, prendere il 3 vuoto la mattina, mangiare dal Greco al Pigneto, dormire con manfredi, godere dei consigli di Daniela e delle tue colleghe, farti la doccia calda, comprarti delle casse e ascoltare la musica da sola nella tua stanza, comprare i colori acrilici per imbrattare tutto il bianco che vuoi, goderti questo cazzo di computer senza nemmeno internet, goderti la vista di una chiesa meravigliosa da sola alla finestra e non sai com’è fatta dentro, vivere di farro bollito e mare dimenticato, amare tante persone lontane, sentire il significato della parola ‘malinconia’, leggere il giornale, semplicemente amare l’indipendenza e odiarla nello stesso tempo perché è fatta di parti buie e persone che chissà come stanno.
Non lo so se vivere qui mi piace, so solo che questa città fa emergere la parte più amabile e anche la più detestabile di me. Gli eccessi che ti uccidono e ti danno la vita, quel bianco che ti si svela per essere odiato e per essere riempito, quella serenità che trovi o in un fondo di bottiglia o in un marciapiede dove facce come la tua sorridono e ti stimolano a forza, quella voglia di parlare che rende inutili i discorsi ma che riempie silenzi lunghissimi.
Grazie e vaffanculo, Roma mia.

Sincerely,

lunedì 22 agosto 2011

Roma dai capelli bianchi



La mattina mi sveglio, in questo nuovo posto, circondata da alberi e clacson, e sono inondata da una luce irreale, quasi finta. Il letto balla e fa strani rumori il pavimento color mattone e le pareti troppo bianche il disordine mentale e fisico odore di detersivo alla lavanda il bagno dello stesso colore delle coperte delle navi. Ci entro, mi ci tuffo ed esco venti minuti dopo con il viso restaurato, vado in cucina, mangio uno yogurt e bevo il caffè seguito a tappo dalla prima sigaretta della giornata.
Lancio un’occhiata alla strada, alla chiesa, alle vite che sgambettano di sotto, e mi sento grande; grande come gli operai, come le colf, come i nonni che non riescono a dormire per più di quattro ore a notte. Mi blocco a guardare le cose più futili, studio la cucina e le posate, il bigliettino caduto per sbaglio in corridoio, le foglie del mio basilico, il ghiaccio che si è formato in freezer. La mattina impiego circa un’oretta per prepararmi perché mi fisso sulle cose inutili.

Poi inizia il giro sull’autobus. Una signora di cinquant’anni circa, affetta da nanismo, urla ‘quanto sono stata scema a pensare che potesse lasciare sua moglie per me, quanto sono stata stupida! Ma adesso, adesso voglio tutto nero su bianco’. Grida con una voce che non è la sua, fissando un punto indefinito davanti a sé. Gli altri passeggeri non la guardano nemmeno, continuano a fissare i finestrini e leggere libri, affetti dal mutismo delle sette.
L’autista, inespressivo, guida piano, appagato dal suo kit portafortuna sulla consolle: telefonini, i-pod e tabloid.
Un signore di settant’anni, seduto nei posti sull’ultima fila, se la prende con la lingua dei conquistadores e, fissando un ragazzo sudamericano inizia ad imprecare: ‘siete delle bestie. La vostra lingua, la lingua dei conquistadores, ci ha rovinati tutti!’.
Scendo sulla Nomentana e sono già esausta, pronta a fumare un’altra camel.




martedì 5 luglio 2011

METRO A - DIREZIONE BATTISTINI ORE 7

Vedi quelli che ti guardano discretamente, con fare distratto, e ti hanno già studiata in un nano secondo. Ci sono quelli invece che lo fanno con insistenza, e di quelli un po’ ti spaventi perché è come se ti scopassero con lo sguardo e sperano in un tuo cenno, seppur immotivato, e vogliono tutto subito.
Io la mattina prendo quella stramaledettissima metro per Termini e mi sento osservata. L’uomo, che ho imparato a studiare in questi mesi, è un animale, come lo sono molte donne che incontro e che conosco. La tragica verità, in questa storia fatta di puzza e di sudore alle sette di mattina, è un uomo che ti scruta e che già dalle prime ore del giorno, è arrapato come un porco. Ci sono varie tipologie: c’è il gay che non guarda mai nessuno, pensa solo a sistemarsi il ciuffo e spolverare con un colpo di unghie la camicia, il palestrato che fa la stessa cosa ma guardandosi anche un po’ intorno, l’uomo d’affari che legge il ‘Corriere’ e non dà confidenza al resto del mondo, c’è l’operaio che guarda i culi di tutte le donne che entrano in metro, il ragazzino con i capelli aereodinamici, depilato possibilmente, e lo sfigato che ti sorride debolmente aspettando che ricambi la cortesia. C’è l’uomo che non ha tempo da perdere e ti guarda con sufficienza, ti sorpassa, ti scavalca. Proprio il tipo che corre la mattina, salutando di fretta figli e moglie e che di sera fa sempre tardi a lavoro.
Devo dire la verità: non c’è nessun uomo interessante in metro la mattina, solo una volta ho visto un ragazzo che mangiava una banana e che non rispondeva a nessun richiamo proveniente dall’esterno, e si faceva urtare e urtare, e spingere; ondeggiava ma continuava a fissare il vuoto con lo sguardo perso e sorridente.
Sulla metro nessuno con il quale poter scambiare due parole. Il massimo che ho sentito la mattina è: ‘scende alla prossima?’, e tu ogni volta rispondi: ‘sì’.
Poi ci sono le donne, con visi molto più tristi di quelli degli uomini, più stanche, più spaventate, più preoccupate, con ottocentomila pensieri in più. Ci sono le donne vere, quelle che devono pensare al lavoro, alla casa, alla famiglia e in particolare a marito, figli, nipoti, compleanni di nipoti e cugini e compagnetti dei figli, all’amore che è finito da tempo, al marito che ha un’altra, alla spesa, a cosa cucinare la sera, a sembrare ancora un po’ attraenti, ai tacchi che seppur scomodi si devono indossare, alla suocera, al corso di catechismo o di nuoto della figlia, al ragazzino che vuole mettere incinta la figlia, a smettere di fumare, alla voglia di fare l’amore, a tutti i libri o i film che si è persa, agli sguardi che ha evitato durante il tragitto, alle ore spese in trucco e in estetista e chissà perché dato che non se la fila nessuno, alle morbose attenzioni del fruttivendolo o del panettiere, ai viaggi che vorrebbe fare con la sua famiglia, all’uomo che la scopa senza dirle ‘ti amo’, ai fiori che vorrebbe ricevere una volta l’anno, al suo compleanno che è lontanissimo, a quando aveva un’altra età, un’altra sicurezza di sé, altre opportunità, al suo capo che la vedrà sempre come un oggetto sessuale e raramente come un essere pensante, al suo stipendio sudato, alla sua ex voglia di vivere e di fare, alle gonne fricchettone del liceo quando anche lei voleva solo divertirsi, alle sue visite ginecologiche, ai matrimoni dei suoi amici, al suono delle risate di prima, alla sua voglia di stare da sola per un po’, ai panni da stirare, alla sua megalomania di una volta, ai panni da stendere, all’affitto troppo caro, al condominio, alla spazzatura e alle pulizie.

Questo scenario metropolitano alle sette di mattina rende isterici, urta, fa male.

Vi auguro vite campagnole, fatte di pensieri legati al ‘che tempo fa’, preoccupazioni un po’ più serie, ragionamenti più semplici e sorrisi mattutini fatti non solo col trucco, sorrisi meno larghi e più sinceri, e una buona dose di povertà materiale.

lunedì 28 marzo 2011

Noi e la Libia

Quindi c’è una videoconferenza a quattro paesi, e l’Italia, si scrive sul ‘Corriere’, non è stata invitata. Ci sono Germania, Usa, Inghilterra e Francia. Ovvio. Giusto, giustissimo.
Leggo che a Lampedusa è la rivolta e questa volta ce lo siamo veramente meritati. Abbiamo dei problemi più grossi noi a cui pensare, e tutti incentrati su di lui, tutti problemi che riguardano lui.
Nel frattempo ho mandato curricula tutto il santo giorno, sperando che qualcuno risponda. Nel frattempo c’è chi dice che è meglio tornare a Palermo e chi da Palermo non se ne può proprio andare e chissà come fa. C’è chi non se ne vuole andare e chi invece è andato troppo lontano ma alla sua terra ci pensa sempre. C’è chi, un po’ per nostalgia e un po’ no, da Bruxelles è tornato a Mazara del Vallo e chi non ci crede più nemmeno per sogno nell’isola nera. 
La mia terra, caro Napolitano, è un’isola, e le isole sono abitate di isolani isolati per scelta. Da noi è rimasto solo chi voleva rimanere isolato e quelle facce che chiedono pietà, per noi non sono altro che disturbatori, fonti potenziali di pericolo, bianchi travestiti che ti tolgono lavoro. Non li vogliono questi immigrati, non li hanno mai voluti. Questo, caro Napolitano, è un fatto nuovo nella storia, perché ora non sono più cento o duecento, ora è il mare che si ribella e vomita nero. Fosse per me prenderei in casa tutti quelli che ci entrano, ma loro non sono ospitali con chi la casa se la vuole prendere con la forza. Non tutti sanno quello che hanno passato, da dove vengono, cosa succede nel loro paese. 
Caro Napolitano, la causa prima di questa situazione tu la conosci bene, e si chiama Berlusconi. A lui si devono gli accordi con la Libia per il gas e il petrolio. È sua la colpa, e di Frattini, e di Amato. 
Non giudicarci Napolitano, noi siamo gli abitanti della regione più regredita dell’Italia, e a Linosa hanno addirittura la luce e il gas ma lì il progresso è arrivato a stento. 
Noi, se non abbiamo uno zio o un parente che conta siamo costretti a sparire, a lasciare genitori, famiglia e tutto; noi se vogliamo lavorare dobbiamo pagare il pizzo; noi ne abbiamo tanti di problemi. 
Li abbiamo viziati questi libici, ecco qua, perché ci faceva comodo e ora ci sostituiranno. Ma noi abbiamo anche altri problemi. Non ci avevamo mai pensato, è vero. Ci pensiamo solo ora, grazie agli egiziani, ai tunisini, ai marocchini, ai libici e a tutti gli africani.

sabato 26 marzo 2011

Ci vuole autonomia per perdersi

C’è un film di Michelangelo Antonioni che si chiama L’avventura. In questo film i due protagonisti sono un uomo e una donna che si amano e che vanno in vacanza con alcuni amici.
Ad un tratto, i protagonisti cambiano. Vanno in barca a vela con gli amici, e lo schermo mostra isole siciliane, tuffi, gabbiani e quant’altro. Ad un tratto la protagonista si perde sull’isola e il protagonista, insieme con gli amici, comincia a cercare la donna.
Tutti la cercano. La cerca il protagonista e la cerca la migliore amica della protagonista; entrambi si chiedono dove sia finita, urlano il suo nome, sembrano impazziti perché non la trovano più tra gli scogli, non si rendono conto di come sia potuto accadere; perdere una donna in mezzo agli scogli non è così semplice.
Non la trovano, urlano e non ricevono risposta. Inizia il giro dell’isola per cercarla, inizia il tour di Chi l’ha visto e non si trova proprio niente. Niente di niente.
Così, dal nulla lei sparisce. Ma la cosa assurda è che la migliore amica della donna scomparsa, nonché della nostra finta protagonista, si innamora del compagno di lei, ovvero del nostro protagonista. Così tra i due comincia una storia, una storia che nessuno di noi telespettatori condivide, una storia sbagliata. Lei è Monica Vitti, e non possiamo che amarla. Ma in questo film interpreta il ruolo di una gran puttana.
Questa storia non è finta, eppure fa schifo perché è comunque un tradimento, è un dimenticare il passato, un errore, una reazione sconsiderata. Questa sembra fin dall’inizio una storia noiosissima e sbagliata, fatta di dipendenze e assurdità, di scarsa autonomia e di satiriasi, per quegli uomini che sanno di averlo duro anche per le bambole, che non distinguono i corpi in una notte di estate rischiosa o ‘a rischio’, che non sanno fare differenza tra l’effimero e il durevole. Questa è la storia di tutti gli uomini, nel peggiore dei casi, che non si accorgono della luce che li illumina e del calore che li riscalda nelle serate più fredde, quando le case perdono le loro forme e diventano nuvole, quando le linee da dritte si fanno curve e le bocche si fanno così funzionali da diventare sporche, quando le orecchie diventano spugne e sentono tutto, anche i rumori delle mani prima di andare a dormire.
Questa è la storia noiosissima di fatti di carne e paranoie, quando il sole sorge e il nervosismo prende piede, e gli occhi ricordano il ghiaccio che spaccavi a mani nude in una sera di agosto.
E questa autonomia che sembra così sacra. Io ci sputo addosso. Non mi convince questa autonomia in questo mondo, non ci vedo niente. Ma dato che me l’hai chiesta me la prendo, e vivo tutto a metà, come se queste giornate fossero metà mie e metà tue e non tutte mie e tue, come se questi occhi guardassero metà tramonto e metà mare, come se vivessi da sola, come se fossi sola, e come se mi piacesse. Quella vaga punta di ingenuità che avevo visto in te era forse solo inesperienza, non voglia di fare le cose in due.
Se c’è una cosa che le nostre madri ci insegnano è di non dipendere da nessuno. Bene. Bene per loro, che non ci hanno mai provato a rendersi la vita migliore condividendola con la persona giusta. È una la vita, una e breve, e quanto valgo, invece di lasciarlo decidere ad una laurea o ad un lavoro, preferisco lasciarlo decidere a me o al mio ragazzo e alla persona che ritengo degna di stare accanto a me. Per sempre deciderò di stare qui perché da qui passano le persone che amo di più e da qui potranno passare le persone giuste per me.
Non è girare il mondo quello che desidero, ma restare, restare in questo paese di vecchi che non vogliono cambiare le cose; e non voglio restarci solo per cambiare le cose ma anche per amare le persone che fino ad ora hanno riempito queste giornate e ridere con loro e piangere con loro. Il planisfero mi serve solo a ricordare che queste persone possono arrivare da tutta la palla.

venerdì 18 febbraio 2011

Animali contro natura

Dato che in questo periodo tutti si dissociano da qualcosa io mi dissocio da Benigni, dal Festival di Sanremo, dal centocinquantenario dell’Unità d’Italia, da quei minchioni di Luca e Paolo, da Masi e da tutta la merda che affolla la tv.
L’impressione è quella che, avendo loro fatto un gioco sporco di manipolazione dei cervelli, adesso chiunque tende a legittimare comportamenti che qualche tempo fa ci sarebbero sembrati assurdi e inconcepibili.
Che valore può avere il concetto di Unità d’Italia oggi? Come ci si commuove oggi con l’Inno d’Italia? Anche Benigni sembrava far fatica, sembrava sforzarsi per mostrare un briciolo di commozione. Io dico che siamo alla frutta. Siamo alla frutta perché il direttore generale della RAI telefona prima a Santoro dicendo che si dissocia dai contenuti e dalla forma del suo programma e poi, una settimana dopo, chiama la Ventura per farle i complimenti per il suo programma, L’Isola dei famosi. Perché le ragazze intervistate ad Annozero (e non erano escort) dicono che Berlusconi è affascinante e poi dicono ‘magari ci proponessero di partecipare ai festini di Arcore!’
Siamo alla frutta perché Luca e Paolo, dopo le lamentele del Direttore della RAI che esorta a fare satira sulla sinistra e non solo sulla destra, giocano e scherzano su Saviano che magari tra qualche anno sarà pure bello e sepolto e gli rimarrà sulla coscienza. Siamo alla frutta perché Benigni preferisce essere pagato per dire quattro stronzate invece di rifiutare i soldi e dissentire, venire a patti con questo potere, facendo ironia su un cavallo bianco che a detta sua ricorderà l’entrata trionfale all’Ariston (indimenticabile entrata, soprattutto per un cavallo, dice Benigni), e che lo avrebbe volentieri preso a calci in culo. Benigni che fa finta di criticare il premier e non ci riesce perché non si può, è vietato, dice prendendo in giro anche se stesso e lo fa con una maestria che quasi gli si crede e vorrebbe dissentire ma in realtà a pensarci bene era già stato tutto preparato, magari per non perdere le faccia, due o tre battutine nemmeno tanto pungenti, e la Cinquetti, non ho l’età, non è un buon momento per i Cavalieri. E allora? Che hai detto Benigni? A chi la dai a bere? Caro Benigni, guarda che Monicelli da lassù ti sta guardando.
Cosa volevi dire Benigni? Volevi dire che tu non stai né da una parte né dall’altra, che non sei né serio né poco serio, che non prendi una posizione. E, se uno spettacolo del genere lo avessi fatto un anno fa, allora potevo capirlo, e avrei pure riso. Ma oggi, Benigni, io non rido. Perché oggi una posizione va presa. Va presa perché ne abbiamo bisogno, perché stiamo male tutti e perché non c’è più nulla da ridere. Va presa perché temo che la maggior parte degli italiani, sotto sotto, sia orgogliosa di Berlusconi. Retaggio dell’antico maschilismo. Ammirazione, e quindi giustificazione. Guarda quello lì che alla sua età ancora spruzza di qua e di là. I nonni che pensano “magari avessi io la sua grinta e la sua fortuna con le donne”, uomini con problemi di erezione che lo invidiano, gente che si eccita pensando che un vecchio fa il Bunga Bunga con le minorenni, perversioni legittimate dalla politica e dalla storia d’Italia. Questa storia d’Italia.
Per questo le donne sono incazzate. Perché sembra un punto di non ritorno, perché sembra la normalità, perché si sa bene che Berlusconi sotto sotto - per molti uomini di questo paese - è un grande. O almeno non biasimabile. Chiamalo scemo. Quello sotto sotto se la ride perché, in fondo, sa benissimo che se domani si dovesse ri-votare, vincerebbe lo stesso. E direbbe che gli altri capi di Stato e i direttori dei giornali che lo criticano, tutti maschi ovviamente, sono invidiosi e che non esiste un solo uomo sulla terra che in fin dei conti non lo giustifichi.
In fondo siamo animali. Siamo animali che non si incazzano mai però. Nemmeno quando ci toccano la vita. Siamo animali indifferenti, quindi contro natura.

mercoledì 2 febbraio 2011

Raccontare è la terapia

Lungo silenzio, perché non avevo niente da dire. Ho lasciato perdere molte cose importanti, prima tra tutte la morte di Monicelli. Il significato della sua morte. Ma non importa, ho scritto di lui sul mio diario e mi è bastato. Oggi riprendo momentaneamente la terapia.

Questo inverno, oltre ad un amore grande, di quelli che racconti alla nonna e speri che sia la persona per te, mi sta regalando un sacco di scetticismo in più. Scrivo una tesi di giornalismo culturale col cervello che molleggia e sbanda e gli occhi che non vogliono e non possono restare fissi su un punto solo, e ballano e si confondono. E in loop questa canzone che è legata al ricordo di qualche giorno fa, quando sul letto di casa mia piangevo come una scema perché dovevo tornare a casa per pura necessità e sapevo che mi aspettavano giorni tristi. E tutta l’angoscia la ritrovo in queste note, verdena razzi arpie eccetera concentrato di angoscia per le orecchie. Io questo tempo me lo sto gestendo male.

Oggi mi è successa questa cosa, e mi sono incazzata. Mi chiama il tipo del servizio civile e mi dice che sono stata selezionata eccetera ma che deve farmi delle domande. Mi chiede se posso andare in sede domani. Io dico che non sono a Roma. –Ah, e dove sei? – A Palermo – E perché? – Guardi, ho avuto un po’ di problemi a casa – E cioè? Che stronzo, penso. –C’è mia nonna che sta male ed è in ospedale – Ah, e scusa tanto, sei scesa per tua nonna? E tua madre e tuo padre allora che ci stanno a fare? –Prego? –Dico, se scendi perché tua nonna sta male allora quando staranno male i tuoi genitori cosa farai? Se lei deve cominciare ad assentarsi me lo dica che questo posto lo diamo ad un’altra persona.
Silenzio. Che cosa si risponde in questi casi? –Mi scusi, non credo siano affari suoi. Ad ogni modo quando inizia il servizio civile? –Il primo marzo. –Bene, allora il primo marzo ci sarò. Se poi ritiene opportuno scartarmi perché immagina che farò troppe assenze faccia pure. Arrivederci.
Un romano del cazzo, uno di quelli che in punto di morte sarà solo come un cane e che nella sua vita non ha coltivato alcun rapporto, un povero disgraziato senza amici e senza senso, uno di quelli che la moglie ce l’ha ma preferisce andare a puttane. Tanto a Roma ci devo tornare.

L’ho raccontato a mia nonna che tornerò qui, le ho detto di non preoccuparsi, non voglio lasciare nessuno. Ho trovato questo ragazzo, nonna. Sai, l’ho proprio trovato, così per caso, in un giorno inutile, al bar della Sapienza. Ma è di Palermo sai? Era tutto sudato e aveva una maglia rossa. Non dava confidenza a nessuno, era timido. Un giorno alla Basilica di Massenzio ero gelosa perché lo volevo accanto durante lo spettacolo del Festival delle letterature, lo volevo vicino e lui era seduto accanto ad una mia amica. Allora ho capito che mi piaceva. Ero contenta di vederlo e chiedevo sempre di lui. Poi un giorno a Palermo ero proprio giù di morale e non volevo vedere nessuno tranne lui. Allora siamo andati al Borgo vecchio e avevano organizzato una strana cosa sull’autobus, tipo un concertino con le percussioni ma non ci piaceva tanto solo io ero emozionata e lo prendevo sempre in giro. Poi siamo andati sul prato della Magione e lui mi ha raccontato un sacco di cose. Sai nonna, prima mi parlava sempre del suo passato e io, che l’ho rielaborato insieme a lui in una serie di sedute psichiatriche ridicole, adesso il suo passato un po’ lo detesto. Vorrei che non avesse un passato. Vorrei esserci io da sempre.
Poi mi ricordo Castelbuono dove ho incontrato le persone del mio passato questa volta e ho chiuso tutti i conti. Nonna, lui mi cercava, mi chiamava e mi cercava. Lui il cinque agosto mi voleva già un sacco di bene secondo me. Sono innamorata da un po’ di mesi ormai e sono felice nonna, felice. Solo un po’ spaesata. Sono sempre io nonna, e certo che torno.
Ti racconto tutto, ma non chiudere gli occhi.
Ascoltami, sai che per il suo compleanno gli ho cucinato i calamari ripieni con la ricetta che mi hai dato tu? Nonna, hai un sacco di ricette da darmi. Nonna mi senti? Ecco, dicevo che hai ancora un sacco di ricette da darmi. Lei apre gli occhi e con gli occhi sorride.
Le racconto che a Roma ci sono Anna Ida e Dani, le racconto che ho conosciuto gente che mi fa stare bene. Sì, ma torno. Tranquilla. Lo so che mia madre è sola, che mio fratello è partito. Io torno.

Poi si addormenta, e sogna. E parla nel sonno. Farfuglia qualcosa che non si capisce. Poi scandisce chiaramente queste parole:'la salsa è pronta'. E io non posso far altro che sorridere.

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