sabato 20 aprile 2024

Depressione e narcisismo

 

Sono 300 milioni nel mondo le persone che hanno sofferto almeno una volta di disturbi depressivi. Le donne adulte sono il doppio degli uomini. I bambini no, i bambini sono depressi uguali, maschi e femmine. Questo il dato evidenziato dalla psicoterapeuta Morelli nel podcast Sigmund del Post. Cos’hanno le donne che non va, mi chiedo?

Il carico emotivo ed emozionale, il carico cognitivo, gestionale e logistico.

Quali i sintomi? Tristezza, la perdita di memoria, un basso livello di concentrazione, rallentamento psicomotorio, affaticamento, mal di testa, disturbi gastro intestinali. E la rabbia. La rabbia è un’emozione importante, mi sembra mi caratterizzi da quando ho compiuto 10 anni. Prima c’era una parità di disagio tra bambini, prima dei 10 anni non ci si imbarazzava per niente, non ci si autosvalutava, non esistevano problemi di autostima, il senso di colpa non era un macigno che pesava tanto e i dolori emotivi non arrivavano ancora da tutte le parti.

Non siamo deboli se assumiamo psicofarmaci. Oggi nessuno basta più a sé stesso.

Noi della generazione degli anni 80 abbiamo un trauma che non accomuna tutte le altre generazioni: l’aspettativa, un’aspettativa violenta  che riguarda noi e i nostri possibili fallimenti. Un’eccessiva aspettativa da parte dei nostri genitori, un ipervalutazione e un iperinvestimento su di noi che alla fine non siamo poi così speciali.

Avevo già scritto in passato di questo tema ma non l’avevo collegato alla depressione. Invece questa sembra la sua più evidente causa.

Il tratto che caratterizza un giovane della mia generazione che poi in alcuni casi sviluppa questa patologia è quello del narcisismo. La ‘generazione Narciso’ è quella che non può sbagliare, che non accetta il fallimento e corre ai ripari proteggendosi per non sviluppare ansia, ipocondria e depressione.

La struttura narcisistica ci protegge da un potenziale fallimento che potrebbe essere fatale, dalle critiche che evitiamo attraverso post in cui giustifichiamo chi siamo, cosa facciamo e cosa mangiamo cosicché nessuno possa considerarci dei falliti.

Il fallimento però fa parte della storia evolutiva e pedagogica dell’essere umano e rifiutarlo è pericoloso per la nostra mente oltre che per il nostro corpo. Sono bastati 20 like per dormire sereno, è bastato scrivere su Linkedin che sono diventato account manager e ricevere i complimenti di tre o quattro persone per dare un senso alla mia giornata, è bastata una vendita in cui ho fatto leva sui punti deboli dei miei clienti, una foto in cui cito Proust o semplicemente lo sfoggio di qualche mia abilità fosse anche usare bene Instagram.

Nessuna condanna, non scrivo questo post per  puntare il dito contro qualcuno. Semplicemente dobbiamo esserne consapevoli, perdonare le nostre bugie, le nostre cadute, il nostro non arrivare mai.



domenica 21 gennaio 2024

Lavanderia

Scopa!
- Questa si chiama 'fortuna del principiante' bello mio...
- Intanto sto vincendo io, disse spostandosi il ciuffo nero dagli occhi.
Il vecchio abbozzò un sorriso forzato. La bocca si inarcava a fatica, era come se il suo viso a contatto con l'aria si fosse solidificato fino a mantenere un'espressione sempre uguale. Adesso però, forse per il calore che avvertiva in quella sala, aveva preso a sciogliersi, era più modellabile.
- 11 a 6, ho vinto!
Non erano i panni che giravano, non era nemmeno il rimbombare dei motori delle lavatrici e delle asciugatrici. Non era quel roteare che gli confondeva i pensieri. Era stata l'attesa che aveva preceduto l'arrivo di Giorgio, un bambino calabrese di circa 8 anni con un mazzo di carte in mano e il padre al seguito. In quel tempo lungo di attesa Antonio aveva visto tutto, sua moglie che indossava il vestito di pizzo nero con lo scollo a V, sentito suo padre che lo picchiava per aver usato il banco di scuola come slittino, la maestra Licata gli occhi sgranati di rimprovero, i suoi collant color carne e gli occhiali dalla montatura metallica. Aveva visto suo figlio appena nato e il fasciatoio con la nuvoletta che pendeva dal soffitto sul suo volto sereno. Aveva visto il gres grigio della camera da letto e la galleria Umberto I illuminata a festa, il negozio di saponi e quello dei legumi. Aveva visto le trasferte in Olanda e in Francia, il giorno della sua promozione, i suoi dipendenti inchinarsi ai suoi successi, la sua carriera 'illuminata' e le famiglie che aveva tenuto in vita nonostante la crisi. Infine, aveva visto se stesso, solo e senza una casa, dentro una lavanderia  con le luci al neon e un calore che svanisce quando qualcuno apre la porta.
Mentre pensava sentiva le lacrime, le sentiva sguazzariare dentro, ondeggiare alla ricerca di uno sfogo, le sentiva scontrarsi contro un viso marmoreo che non aveva più fori.
Da quando Laura non era più in casa la sua vita aveva fatto marcia indietro. Suo figlio aveva vinto. Non aveva tempo di occuparsi di loro, diceva. Si era sostituito alla legge, alla famiglia, alla vita di coppia. 
'Tu non mandi tua mamma in ospizio!'
'E perché? Ormai non siete in grado di gestirvi. Tu non sai fare niente e la mamma è andata fuori di testa'
 Antonio quel figlio l'aveva desiderato eppure adesso lo odiava. E non poteva parlare, né contraddire i suoi ragionamenti perché aveva un unico modo di esprimersi, quello della rabbia e della violenza.

'Vuoi la rivincita'?
Antonio riemerse dall'apnea e guardò Giorgio. Aveva la faccia paffuta e un'espressione buona. 
'Si è fatto tardi e i vestiti sono pronti da un pezzo'
'Sì ma non vorresti vincere?'
Antonio guardò il padre di Giorgio e vide che sorrideva. Anche il suo sorriso si sciolse e la sua bocca disegnò spigoli più armoniosi.
-I bambini vogliono vincere, mi disse. Anche i grandi dovrebbero voler vincere un po' di più in effetti.
Antonio rimase in silenzio mentre l'odore di bucato si mischiava alla puzza di scarpe vecchie, le centrifughe giravano e il sapone formava grappoli di bolle che non scoppiavano mai. Vincere... Chissà cosa poteva voler dire per un bambino, pensò. Nella sua vita quelle che aveva reputato le più grandi vittorie si erano poi rivelate le più grandi sconfitte. 
Si tolse la giacca, la poggiò sulla sedia e fece  a Giorgio cenno di dare le carte.

Forse hai ragione, voglio la rivincita.



mercoledì 3 gennaio 2024

Sala d'attesa

Il muro è bianco, come a marcare l’assenza di qualsiasi cosa. Solo punte di stucco che nascondono vecchi quadri o poster.
Il sole spento fa scintillare questo bianco e ne accentua la presenza. La luce della stanza rimarca la pazienza che ci metto a star qui, seduta immobile privata dai sogni della vita vera.
Nella mia sala d’aspetto non ho scelto io di entrare, eppure ci sono finita dentro insieme a queste ombre che non respirano quasi, chiuse in un silenzio di abitudine. Su questi muri anonimi posso proiettare qualsiasi cosa.
Nessuno mi accompagna, sento solo te che ti muovi dentro la mia pancia, facendomi il solletico. Non sopporti che io stia ferma e io non sopporto che tu stia fermo. Ti vedo già a schizzare acqua di mare sui bagnanti asciutti, ti vedo mentre te ne vai in giro con il tuo ciuffo spavaldo in cerca di vita. Io ti vedo fuori da qui, fuori da questo silenzio, ti vedo piangere, arrabbiarti, prendere decisioni impulsive, girare il mondo in cerca di un posto tuo. Io ti voglio, ti chiamo, ti sento. Ti vedo tutte le notti che mi soffi nel grembo e mi spieghi che sarai dispettoso e gioioso, che sarai la versione migliore di te.

Ti copro con le mani, ti abbraccio e sento un brivido nel ventre che mi fa sorridere. Una donna sulla trentina entra nella sala, nessun tratto distintivo, piatta come il bianco dei muri, capelli colorati di un marrone sbiadito e gambe magrissime per il peso che trascina. Io la fisso mentre sfila e lei distoglie subito lo sguardo. Un'altra ombra che non saluta nemmeno, non un'espressione né un accenno di umanità, solo una pancia tonda e gonfia che la precede. Il rumore dei tacchi sul pavimento mi fa pensare che in verità suo figlio stia bussando, stia picchiando sulla pancia per fuggire. La donna si siede e prende in mano il cellulare, usando un'indifferenza innaturale. Indossa degli stivaletti scamosciati marroni e un vestito elegante bianco con strass sul colletto, è giovane inutilmente perché è pallida e inespressiva come queste mura che ho davanti. Il pavimento è di mattoni lisci vellutati, sfibrati dal tempo. Prima qui c'era vita, c'erano cose semplici che restavano nella memoria, forse delle feste, dei valzer, delle gare contro il tempo, forse c'era una luce migliore, c'erano sogni in queste fughe sfocate, c'erano persone, c'era vita. Adesso cosa aspettiamo in questa sala?
Vieni qui bambino farfalla, bambino leggero, limpido, libero. Ti copro io da questo bianco abbagliante, da questo mondo insolito fatto di formalità e convenevoli. Tu non ti prendi sul serio, non tentenni perché sai cosa vuoi. Perditi se vuoi, qui dentro ci siamo finiti ma stiamo solo aspettando. Una volta fuori sarai libero di perderti e andare ovunque tu voglia, dove ti sentirai te stesso e potrai sentirti libero, non sentirti in colpa perché devi per forza essere. Potrai godere delle meraviglie del mondo, dei luoghi incantanti e delle persone che splendono di amore, potrai nutrirti di te stesso e degli altri nel modo più sincero che puoi.
La dottoressa viene fuori insieme alla 'famiglia ombra' che si trascina sul pavimento lasciando i segni di scarpe liquefatte, tutte uguali, vicine nella forma e nel peso.

Ti guardo e ti dico 'finalmente'.

Adesso ci siamo noi, regaliamoci questa ecografia. Voglio vederti, sì, voglio vederti.
"Dottoressa, adesso tocca a noi. Siamo pronti!"