martedì 19 marzo 2013

"Il secondo tempo", dove sono finiti i palermitani del '92?


Vent’anni dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio, Il secondo tempo ci invita a riflettere su come è cambiata, dopo quei tragici eventi, la nostra città. Il docufilm di Piero Li Donni, giovane regista palermitano, mi ha emozionato perché mi ha costretta a pormi delle domande che non mi ponevo da anni.
Dove sono finite tutte quelle persone che scesero in piazza a protestare quando Palermo toccò il fondo? Dove sono quelli che dopo la morte di Falcone e Borsellino si indignarono  e protestarono, urlarono, si sgolarono, chiedendo una città diversa? Dove sono i ragazzi che nel ’92 avevano 8 anni (proprio come Piero)? Dove quei volti arrabbiati che volevano difendere a tutti i costi la propria città? 

Li Donni è un ragazzo palermitano che ha studiato e vive a Roma. E credo sia un paradosso interessante vivere a Roma ma non riuscire a vivere senza Palermo. Piero al liceo parlava sempre di Falcone e Borsellino. Tutti noi eravamo intrisi di cultura dell’antimafia, avevamo degli eroi dai quali prendere esempio, eroi che ci avevano spianato la strada. Piero al liceo era bravo, faceva il rappresentante e noi lo ascoltavamo. Tutti noi sapevamo bene chi a Palermo aveva ragione e chi no, sapevamo, dopo Falcone e Borsellino, cos’era la mafia e come sconfiggerla. Ma poi lo abbiamo dimenticato.
Dove sono quei ragazzi che rimasero impietriti quando Palermo saltò in aria? Molti di loro se ne sono andati. Piero se n’è andato, e anch’io me ne sono andata.
Ma avevamo un promemoria al momento della partenza e sapevamo cosa avremmo dovuto ricordare una volta fuori.
“L’orrore di quel momento - continuò il Re- non lo dimenticherò mai, mai!” 
“Sì, invece - disse la Regina - se non prenderai nota”. 
Così inizia il documentario, con una citazione molto significativa di Lewis Carrol.

Abbiamo preso nota, infatti. E quella città disgraziata che abbiamo lasciato, vorremmo cambiarla anche da lontano. Abbiamo deciso di spostarci per vedere le cose in modo più oggettivo, abbiamo dovuto capire cosa c’era di diverso nella nostra città rispetto alle altre, cosa volevamo migliorasse e come. Palermo l’abbiamo sempre messa al primo posto. Ce ne andiamo per tornare, noi.

La musica del film è parte di questa strategia del ricordo, dell’ammonimento. Una musica angosciante, forte e dolorosa, che ci costringe a rivivere il lutto. 
Come in un gioco di opposti, alla musica fanno da contraltare le immagini e i personaggi. I tre ragazzi palermitani che scandiscono i tre tempi del film - funzionali a circoscrivere la storia nel tempo e nello spazio contemporaneo - rappresentano infatti la perdita della memoria, sono ragazzi ignari della storia della nostra città, sono l’esempio di ciò che siamo diventati. All’interno della sala giochi i ragazzi sparano, l’occhio della telecamera entra dentro il mirino che inquadra l’autostrada distrutta del 23 maggio. Un’inquadratura  che urla: ‘ti ricordi’?

Il secondo tempo è denso di immagini metaforiche, colmo di volti che esprimono sentimenti contrastanti. Immagini e video d’archivio si alternano ad interviste e racconti del cantastorie palermitano Salvo Piparo, attore di una forza comunicativa impareggiabile. E proprio Salvo Piparo chiude il film con il racconto dell’attentato del 23 maggio. La tragedia è raccontata da una prospettiva diversa, quella di due uomini che viaggiano in automobile qualche centinaio di metri più avanti rispetto all’auto di Falcone. Il boato, la strada che esplode, le altre auto distrutte e, pochi minuti dopo, il silenzio. Poi ambulanza, polizia, serene spiegate e la sensazione di felicità per essere rimasti vivi. Come mai? Perché sono ancora vivi? Forse perché, racconta Salvo in un crescendo di parole, emozione e commozione, nella vita non avevano ‘parlato assai’. E si erano salvati. Invece quelli che erano morti avevano parlato troppo, e forse avevano pestato i piedi a qualche mafioso.
Come ci si può salvare? 
Per farlo bisogna sconfiggere il mafioso che c’è in ognuno di noi, dice un ragazzo palermitano intervistato in occasione del ventennale delle stragi. La mafia ha cambiato forma e aspetto in questi venti anni. Quella che non è mai cambiata è la cultura mafiosa che, volontariamente o involontariamente, ogni giorno, viviamo ed esprimiamo.

domenica 17 marzo 2013

Punto di partenza



Era arrivata alla fermata cinque minuti prima, aveva acceso una sigaretta inondando di fumo sciarpa e visiera del cappello, aveva guardato l’orologio al polso, gettato un’occhiata alla chiesa per vedere se gli indignados erano ancora lì nel piazzale, a morire di freddo e di sonno, a bivaccare nelle loro poltrone senza fodere e dormire con i materassini direttamente sulla pietra. No, erano andati via, non c’era più nessuno. Dopo un mese e mezzo erano andati via e questo le faceva tristezza. Lei comoda al quarto piano, sotto al piumone, con il suo uomo accanto, si sentiva rinfrancata dalla presenza, lì giù al piano terra, di quei fancazzisti e comunisti che dividevano cibo e coperte. Si guardò intorno e si accorse che era sola, nessuno aspettava alla fermata, solo fiumi di macchine le facevano vento e le schizzavano fanghiglia sugli stivali. Faceva freddo, il cielo era di un colore bianco intenso e l’aria era pulita, finalmente lavata per bene dalla pioggia. Tutta la notte aveva piovuto e adesso, a quell’ora, solo gli uomini sembravano svegli, la natura era in pausa, con quei colori smorti, quei toni pallidi, gli alberi senza uccellini, i marciapiedi senza formiche né lombrichi, l’aria senza mosche e così via. L’assenza della natura. Ed era la prima volta che ne sentiva la mancanza. Rumori soltanto di rombi di motori e clacson, camion della spazzatura.
Eccolo, appena in tempo per l’ultimo tiro alla sua Camel. Ecco il 3, direzione Thorvaldsen, ancora coperto da una fitta nebbia mattutina.
Fece segno all’autista che si fermò, facendola salire dalla porta più vicina a lui. C’era un mare di gente. Girò il volto verso il finestrino per non guardare in faccia nessuno dei passeggeri, vide le case, le macchine, gli alberi, e le sembrò tutto grigio e monotono, le facce degli automobilisti facce da imbecilli, tutti presi dalla guida, ognuno con un tic nervoso o una mania, un gesto strano, chi sbatteva le palpebre, chi strizzava gli occhi, chi contorceva le labbra, chi bestemmiava, tutti già pazzi alle sette e dieci di mattina. A Porta Maggiore l’autobus si svuotò un po’ e sembrò finalmente di respirare. Cercò un posto a sedere, lo trovò.
Si immerse nella lettura, tutta presa da quei personaggi immaginari ai quali avrebbe dedicato interamente le sue giornate. Non mollava mai il suo libro esattamente da tre giorni, da quando l’aveva iniziato. Lo portava dappertutto, in bagno, sul bus, a lavoro, in giro per negozi, a letto. Leggeva perfino mentre
camminava, troppo curiosa e impaziente. Voleva sapere come se la vivevano loro quella vita, voleva trovare coraggio nei loro gesti, voleva trovare l’amico risolutivo che le sistemasse tutto, voleva trovare consigli, conforto, un appoggio, un amore qualsiasi da condividere con loro. Ed effettivamente c’erano dei personaggi che le assomigliavano, che avevano i suoi stessi identici problemi, quel senso di impotenza costante che le rendeva la vita più pesante, quel piccolo problema della depressione che non si poteva risolvere più nemmeno con la paroxetina, quella costante sensazione di star sprecando tempo, di perdere attimi preziosi, di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, di non avere stimoli, di essere da tre interi anni in cassa integrazione, senza la possibilità di far entrare nessuno e niente a casa propria, non un film illuminante, non un libro risolutivo, non una ricetta straordinaria, non una preghiera di quelle che salvano la vita. La sensazione che l’accompagnava era quella di inadeguatezza perenne, come quella che accompagnava anche i suoi amici in quegli ultimi tempi. Tutti con gli attacchi di panico, tutti con le tonsille gonfie e l’Oki sotto il cuscino, tutti con gli svenimenti e nemmeno la forza per rivendicare i propri diritti, tutti senza un contratto e con la paura di instaurare legami, tutti con la stessa rabbia vuota, frustrante, scardinante, tutti con quella velleità che ti fa ritornare al punto di partenza, con lo stesso identico desiderio di partire perché sotto i propri piedi non è rimasto quasi nulla, tutti con lo stesso terrore di ammalarsi per paura di dover giustificare un’assenza a lavoro, tutti con la stessa consapevolezza di avere meno desideri di prima, meno figli di prima, meno parole di prima, meno lingue e meno miti, meno libri da leggere, meno voci da ascoltare, tutti con la stessa identica sensazione di vuoto attorno.
Si era appassionata per questo ai romanzi di Ammaniti, così semplici da leggere, così scorrevoli e un po’ ipocriti, velati da una sottile amarezza, frutto della mente di uno che l’amarezza forse non la conosceva poi così bene, di uno che diceva di sentire le stesse cose che sentono gli altri ma che sembrava sguazzarci dentro nei giorni vuoti di questa generazione. Le sembrava che anche le ‘voci contrarie’, in quel paese, fossero solo finzione, come se conoscendo bene la merda che deprecavano, questi scrittori, l’avessero sfruttata come una risorsa. Ma quegli antidepressivi di cui parlava lo scrittore romano erano la verità e anche i rapporti interpersonali che descriveva erano la verità. Qui nessuno sopportava più nessuno.
I suoi pensieri furono interrotti dalle urla di una signora anziana, avvolta in un mantello di lana lercio, lacerato sui bordi, grigio, in tinta con occhi e chioma. Urlava una serie di versi sconnessi, un insieme di ‘aooo’ e ‘dajeee’ e la sua vittima era una ragazza di colore con le treccine, molto più alta e molto più giovane di lei. Diceva di essere stata spinta in avanti, diceva che non ne poteva più di questi extracomunitari che affollano gli autobus. Poi disse che non ne poteva più e basta. Il tutto si concluse con un ‘mavedidiannatteneaffanculote’ e finalmente tornò la calma.
Lei, che era rimasta fredda, estranea agli eventi che avevano agitato i passeggeri e turbato l’apparente serenità che regnava nella vettura, si immerse nuovamente nelle vite di Quattro Formaggi e degli altri personaggi. Le restava poco tempo prima di scendere dal 3 e le dava noia interrompere la lettura sul più bello. Le veniva spesso da piangere quando leggeva quel libro, tutta presa dall’immaginazione delle giornate di Cristiano e Rino, abbracciati, avvinghiati mentre il mondo continuava a girare. Loro inermi, diffidenti e indifesi. Immaginava la loro cucina e la vedeva color senape, di un legno sbiadito mangiato dalle tarme, qualche stoviglia qua e là a colorare gli spazi, mattonelle spezzate, limate dal tempo e dalla rabbia di Rino, bottiglie vuote e lattine semivuote. E si immaginava lì dentro, tutta presa dalla sua voglia di fare ordine nelle case degli altri. Si immaginava nella scena, a mettere a posto i plaid lasciati sulla poltrona del soggiorno, a lavare le stoviglie, riempire i secchi della spazzatura e preparare qualcosa da mangiare. Stava pensando a quale ricetta potesse andar bene per quei due poveretti, lasciati soli senza una donna. Aveva pensato a qualcosa di caldo, qualcosa di buono e nutriente. Le venne in mente un piatto che cucinava sua nonna, quando stava ancora bene e usava la cucina come un teatro, tutti i nipoti seduti ad ammirare lo spettacolo e una nube di vapore che le veniva fuori dal grembiule. Aveva deciso: avrebbe preparato la zuppa di fagioli e castagne, una nota di dolcezza che batteva ancora nelle sue narici come fosse proprio lì sotto il suo naso. Avrebbe preso due scalogni, li avrebbe spellati, tritati e avrebbe aggiunto fagioli e castagne precedentemente lessati; il tutto condito da un filo d’olio e da una spolverata di pepe nero. Li avrebbe stupiti. Si ricordò di aver lasciato il suo ricettario sul tavolo, aperto alla voce ‘zuppe’ e si rammaricò per non averlo messo in borsa prima di scendere. Lei che portava sempre con sé una borsa piena di roba per affrontare viaggi lunghi mesi. Accavallò le gambe, tolse il cappello di lana, allentò la sciarpa e tirò indietro il ciuffo che le copriva gli occhi.
Guardò fuori, cercando un’immagine familiare, un punto di riferimento e si accorse di essere alla fermata Policlinico. L’autobus si svuotò di nuovo e anche lei, che era seduta, si trovò coinvolta in un groviglio di gomiti e mani che si agitavano e annaspavano per uscire fuori da quella gabbia. Scesero quasi tutti, sputati fuori come palline del flipper, esplosi sul marciapiede come proiettili di piombo pronti a colpire, tutti con le espressioni cupe e i visi contratti. Dentro l’autobus un’improvviso silenzio le permise di concentrarsi ancora meglio, le sgomberò la mente da fastidi olfattivi e visuali, le permise di pensare solo a lei, a Cristiano, a Rino e alla biondina.
Quattro Formaggi cantò una ninna nanna, il paesaggio si fece sfumato, gli occhi morbidi e le palpebre di colla, inchinò il capo, i capelli le fecero da cuscino e il vetro iniziò a profumare di ghiaccio. Varrano si fece presente, il suo gelo tangibile. Il Nord Italia non sembrava poi così male, tutti con i guanti e gli sguardi vitrei ma un vapore caldo soffiato dalle bocche, alito nebulizzato e alcolico così rincuorante e familiare.
La pentola bolliva e l’odore delle castagne deliziava le ultime mosche rimaste in cucina. Aveva spazzato per terra, pulito bagno e pavimenti con la candeggina, fatto ordine e sbattuto i tappeti, spolverato gli unici due mobili del soggiorno, lavato i piatti e apparecchiato la tavola.
Cristiano e Rino aspettavano il pranzo, il primo seduto sulla sedia, con la schiena chinata e le braccia che sorreggevano la testa, il secondo tutto sbracato sulla sua poltrona, pronto a cambiare canale con la mazza da baseball non appena il telecronista vomitava i primi fatti di cronaca della giornata. La casa si faceva piano piano più abitabile e la sua vita acquistava un senso. Era finalmente lontana da Roma, lontana dal caos e dal nonsense, in un posto sicuro dove a un certo numero di ingredienti, aggregati in un determinato modo, corrispondeva una ricetta sicura.
Gridò ‘a tavola!’ e il corridoio si trasformò per pochi secondi in una pista di gara dei centro metri in cui padre e figlio si spingevano per arrivare primi; ridevano e sembravano cavalli impazziti, così sgraziati e degni di una stalla. Assegnò i posti e a Cristiano spettò quello davanti alla finestra, da dove poteva vedere i tronchi gelati, i rami innevati e la luce abbagliante dei fiocchi di neve. Rino sorrise a Cristiano, impugnò il cucchiaio e divorò la zuppa. Lei stava a guardare, godendosi la scena, con il sorriso stampato in viso e l’ansia di sapere se il piatto era riuscito. In meno di cinque minuti, seppure la zuppa fosse ancora bollente, i piatti erano vuoti. Rino emise un rutto fragoroso e la guardò con gratitudine. Poi si alzò da tavola e prese il vino dal frigo. Ne bevve un sorso e ruttò di nuovo, soddisfatto.
Cristiano, pienissimo e con la lingua bruciata, aveva la testa pesante e un sonno della madonna. Bevve un sorso d’acqua e, guardando suo padre soddisfatto, disse: ‘ti è piaciuto?’. Lui rispose con un ghigno, gli afferrò i capelli con quegli artigli che si ritrovava, e gli grattuggiò la testa con le nocche delle mani. Cristiano si liberò dalla sua presa e, ridendo e urlando, afferrò la maniglia della porta e in attimo fu fuori, nel campo ghiacciato. Rino lo raggiunse e prese a tirare palle di neve a mani nude.
Lei li guardava dal vetro della finestra senza dire una parola. Annusò intensamente l’aria. Prese il cucchiaio, chiuse gli occhi e assaggiò la zuppa, sorrise e andò subito in soggiorno a telefonare a sua madre. Doveva dirglielo, doveva spiegarle che era identica a quella di sua nonna. Dopo il pranzo, finirono tutti a letto e in un lampo si addormentarono.
Fu una brusca frenata a riportarla alla realtà, nel più banale dei mondi fatto di uomini e donne che ti guardano in cagnesco, le strade ancora piene, i clacson ancora accesi e qualche goccia di pioggia che lucidava l’asfalto. Si rese conto che le sue narici non funzionavano più tanto bene, ora c’era solo odore di piscio e grappa, unito allo smog e al tipico odore degli autobus. Era ancora all’incrocio con la Nomentana, c’era un traffico pazzesco e l’ansia stava raggiungendo livelli mai visti. Tutti nervosi, pure il cucciolo di cane, un bastardino che una punkabbestia portava in grembo, era impaziente e stava diventando aggressivo. Aveva pisciato per metà sul pantalone della padrona, che però non ci aveva fatto quasi caso, e per metà sul sedile, rendendo l’aria irrespirabile e sollevando un coro di critiche a mezza bocca della gente stanca di quei gesti incivili. Mormoravano che gli africani sono più civili di noi e che noi eravamo un popolo di merda, chi diceva che era colpa dei padri e chi della televisione. Una signora si intromise dicendo che quegli esemplari andavano spediti in galera o in una comunità se non altro. Un signore anziano intervenne e disse che ai suoi tempi non esisteva questa maleducazione e così via.
Lei, decisa a non spazientirsi, fece uno sforzo per estraniarsi nuovamente e riprendere la lettura. Mancavano le ultime pagine e non voleva perder tempo. Gli occhi impazziti vibravano di curiosità e la mano destra era pronta per sfogliare una nuova pagina. Voleva capire perché Quattro Formaggi aveva compiuto quel gesto, se il padre si sarebbe risvegliato e come si sentiva Cristiano. Voleva sapere.
Era finalmente arrivata a pagina 425. Le ultime righe recitavano:
‘Cristiano Zena aprì gli occhi. Tutti erano in piedi e applaudivano al passaggio della bara bianca. Si alzò e urlo: Non è stato mio padre! Ma nessuno lo sentì’.
Lei chiuse il libro e lo mise in borsa. Alzò gli occhi e si accorse subito di essersi persa qualcosa. Era al punto di partenza, proprio a pochi metri dalla fermata iniziale, quella dalla quale era partita. Come aveva fatto? Tornare indietro? Tornare da dove era partita, non accorgendosi nemmeno della sosta al capolinea? Si sentiva pazza, estraniata, confusa. Era mai possibile una cosa del genere?
Si alzò, si diresse verso l’autista e vide che era lo stesso uomo di prima, quello che l’aveva raccolta 50 minuti prima alla stessa fermata. Aveva solo qualcosa di diverso. Lo scrutò per un istante e si rese conto che il suo viso era solo più stanco, un po’ diverso rispetto all’inizio, quasi invecchiato. Le sembrava addirittura che i capelli prima fossero neri, e invece adesso erano brizzolati; lo sguardo vispo dell’inizio aveva perso colore ed era diventato grigio e inespressivo. La sua testa andava avanti e indietro al ritmo del motore e dei clacson e un’espressione stupida si insinuava negli occhi.
Le automobili impazzite avevano formato code lunghe chilometri di mura aureliane. Si chiese se non stesse iniziando a trasfigurare la realtà, se leggere tutti quei libri in una volta non le avesse fatto male.
Prenotò la fermata, decisa a tornarsene a casa. Mentre scendeva dall’autobus rivolse un saluto all’autista. Gli disse ‘buona giornata’, ma non ricevette risposta.

giovedì 14 marzo 2013

Le parole hanno un grande potere. Efficaci regole per una buona scrittura

Emily Dickinson dice che le parole hanno un grande potere e aggiunge: "Ogni tanto ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere". 
 Riporto le efficaci regole per una buona scrittura sul web di Rachel McAlpine, scrittrice neozelandese esperta di web content, tradotti da Carla Lattanzi, copywriter.






Stile
  • Sii conciso: mira a ridurre il testo di almeno il 50%
  • Usa un italiano semplice e piano
  • Usa la tecnica del frontload (to front-load significa “inserire per prime le parole con il contenuto principale”) per titoli, paragrafi, link e liste
  • Usa frasi brevi (21 parole al massimo)
  • Usa paragrafi brevi (65 parole al massimo)
  • Usa “tu” e “noi” quando è appropriato

Format
  • Non sottolineare il testo per dare enfasi (la sottolineatura è riservata ai link)
  • Non usare maiuscole, lettere in 3D, corsivo o grassetto per dare enfasi
  • Usa le lettere maiuscole solo per:
    • lettera iniziale di frase o titolo
    • nome o titolo di una specifica persona o ente (vedi alla sezione come usare le maiuscole)
    • acronimi o abbreviazioni, come UNICEF
  • Non scrivere in maiuscolo altre parole
Struttura
  • Inizia ogni pagina con un’unica, precisa headline esplicativa
  • Prosegui con un breve riassunto, descrizione okey message della pagina
  • Limita la dimensione della pagina all’equivalente di 5 fogli A4
  • Se la pagina è lunga, metti in testa una lista degli argomenti e fai che ogni voce della lista sia un link
  • Se la pagina è lunga, inserisci di frequente dei link per tornare all’inizio della pagina
ROT: redundant, outdated or trivial content 


("Rot" è una sigla formata dalle parole redundant, outdated e trivial, ma vuol dire anche "marcio", NdT.)
  • Rimuovi tutto il contenuto ROT (marcio): ridondante, vecchio o banale
  • Non duplicare informazioni che sono già in un’altra pagina: inserisci un link
  • Includi una data su ogni pagina che lo richiede, all’interno del testo.
Link
  • Fai in modo che il testo del link sia auto-esplicativo, così le persone sapranno esattamente cosa troveranno se ci cliccano sopra
  • Se il link punta a una pagina di un altro sito, fallo presente
  • Se il link apre un tipo di file diverso, specifica il tipo e le dimensioni (esempio: PDF, 5MB, 70 pagine)
Liste
  • Metti in fila gli argomenti secondo l’ordine più logico per l’utente
  • Limita il numero di argomenti di una lista a 7
  • Suddividi le liste troppo lunghe in brevi liste di argomenti correlati
Istruzioni e procedure
  • Separa le procedure dagli altri tipi di contenuto, ad esempio le background informatione le policy(politiche) del sito
  • Colloca i link relativi ai form da compilare, vicino ai passaggi che li richiedono
Tabelle
  • Usa le tabelle solo per i dati, non per allineare il testo
  • Mantieni le tabelle abbastanza brevi da essere visualizzate su una schermata, senza bisogno di far scorrere la pagina
  • Mantieni le tabelle abbastanza strette da entrare facilmente su uno schermo medio
Metadata che sono responsabilità dell'autore
  • Predisponi un title univoco come risultato della ricerca (search result title) per ogni pagina
  • Search result title: inserisci le parole specifiche per prime, seguite da quelle generiche
  • I search result title devono spiegare alle persone esattamente che tipo di pagina troveranno
  • summary metatag devono descrivere o riassumere l’esatto contenuto della pagina web
Immagini
  • Riduci le dimensioni delle immagini
  • Fornisci un alt-text per ogni immagine (l'alt-text è quello che appare nel fumetto quando il mouse passa sopra l'immagine, NdT)
Uso di file Word, Excel e PDF
  • Pubblica tutte le informazioni importanti in HTML
  • Non usare file PDF, Excel o Word senza un motivo evidente
  • Raccogli in una lista di link tutti i PDF e rendili ricercabili
Documenti di molte pagine
  • Suddividi i documenti lunghi in pagine (linee guida per la lunghezza massima: l’equivalente di 5 fogli A4)
  • Rendi ogni pagina autosufficiente: deve avere senso anche da sola
  • Fornisci una versione stampabile dell’intero documento e di ogni sezione
  • Includi il nome dell’intero documento in ogni pagina
Front-load

To front-load significa “inserire per prime le parole con il contenuto principale”, specialmente nei title, nelle headline, nei titoli di paragrafo.

La McAlpine cita questi esempi:
Questi buoni esempi sono front-loaded:
  • “Pollo: ricette che piacciono a tutti”
  • “La scadenza per le applicazioni è il 1 luglio 2006”.
Questi cattivi esempi non sono front-loaded:
  • “Piacciono a tutti: le ricette di pollo della Nonna”
  • “Nota bene: è ormai deciso che la scadenza per le applicazioni è il 1 luglio 2006”)
Non è facile ottemperare a tutte le prescrizioni della lista. Tuttavia i suoi consigli sono veramente buoni e concreti, e seguirne anche solo alcuni migliorerà di parecchio la qualità del nostro prodotto web.



http://www.carlalattanzi.it/viewdoc.asp?co_id=16&tree=74

mercoledì 13 marzo 2013

Palermo, città di 'straregnati'



"Mia figlia è stata scaltra! Dopo il diploma ha fatto le valigie e se n'è andata. Fuori però! ”. 
Questa frase me la disse Giuseppe, un signore palermitano che era venuto al Centro di assistenza fiscale al Borgo vecchio. Stavo compilando il suo 730 e gli chiesi se aveva figli a carico. Domande di routine, in quel luogo, diventavano motivo di dissertazione approfondita su vari temi. Primo tra tutti il lavoro.



Quell’uomo, così ingenuo nel modo di esprimersi, mi aveva fatto riflettere. Parlava della figlia come una figura lontana nel tempo e nello spazio, come un frutto lasciato a maturare fuori dal frigo anche se in frigo non c’è nulla da mangiare. Una figlia che era diventata l’orgoglio della famiglia, che aveva deciso di emigrare da Palermo per aiutare economicamente i suoi genitori. Mi era venuto in mente un racconto di Sciascia che avevo letto qualche mese prima, un racconto intitolato ‘L’esame’ e inserito nella raccolta di racconti Il mare colore del vino, pubblicata per la prima volta nel 1973. La vita di Giuseppe aveva gli stessi ingredienti del racconto di Sciascia, la delusione, la rabbia, la rassegnazione, l’impotenza. 
Palermo che vomita ventenni e trentenni al nord o all’estero perché di loro non ha bisogno, la fatica dei genitori nell’accettare e supportare la scelta, la morte dei legami amorosi o la difficoltà nel tenerli in vita, l’inserimento nel tessuto sociale del nuovo territorio e la scoperta, volenti o nolenti, di nuove realtà. 

Se dovessi identificare Palermo con un luogo, sceglierei l’aeroporto. È in aeroporto che la simbolica generazione di una crisi senza tempo si concentra e si saluta, si bacia, si anima in abbracci in partenza e in arrivo, è in aeroporto che si sente prima di tutto la nostalgia della propria terra, della propria città. Ultima boccata d’aria, si respira il mare a pieni polmoni, ultimo cannolo, e poi si parte. 

Il racconto di Sciascia parla di emigrazione, nel senso più contemporaneo del termine. Uno svizzero si reca in Sicilia per reclutare manodopera femminile per una fabbrica di prodotti elettrici. Si chiama Blaser ed è un uomo indifferente a tutto. Sciascia lo definisce ‘il soffiatore’ perché sbuffa di continuo, annoiato dalle parole del suo sicilianissimo autista, considerato semplicemente un pezzo dell’auto, che dispensa consigli sul reclutamento delle ragazze e mette una buona parola sull’una o sull’altra, in base alle richieste ricevute dai membri dei paesini siciliani visitati. Un giorno Blaser ed il suo autista si recano in un paesino dell’entroterra di cui Sciascia non fa il nome. Il paesino di V. è un paese di mafia. All’autista si avvicina un giovane timido e impacciato, chiedendogli un favore. L’autista è visibilmente nervoso. La fidanzata del giovane deve sostenere l’esame per il reclutamento in fabbrica ma lui non vuole che parta. La ama, e vorrebbe sposarla, ma non ha un lavoro e quindi non può permettersi di chiederne la mano ai genitori. Prega l’autista di convincere Blaser a non sceglierla. Rosalia Calaciura deve restare in paese.
L’autista cerca di spiegare al giovane che non sarà lui a decidere ma, data l’insistenza del ragazzo, dice che farà il possibile perché non venga scelta da Blaser. 

“Sa cos’è la mafia?”chiede l’autista a Blaser.
“Me ne infischio” risponde il signor Blaser. 
“Rifletti prima di dire me ne infischio. Tra l’infischiarsene e il non infiaschiarsene c’è la differenza tra il morire e il campare”.
Aveva spiegato la situazione al signor Blaser e l’aveva pregato di non scegliere l’unica candidata intoccabile, Rosalia Calaciura, per non dar dispiacere al ragazzo.

La selezione si svolge all’interno di una chiesa, in presenza dei parenti delle ragazze e dell’arciprete.
La paura di andar via, nel racconto di Sciascia, come nella realtà, è dettata dalla difficoltà incontrata per ambientarsi in un altro luogo. Il siciliano ha un legame viscerale con la sua terra e quello che dovrebbe essere un diritto, ovvero poter scegliere di rimanere, si converte in un dovere, una partenza forzata, svuotata di affetti e luoghi e popolata di facce nordiche tristi e bianche, di volti vuoti e gelidi. 
Come dire che il siciliano ha una sola madre e fa di tutto per restarvi accanto. 
La storia di Blaser e Rosalia Calaciura mi ha fatto pensare al signor Giuseppe, mi ha risvegliato il ricordo a mosaico del suo volto: occhi fuori dalle orbite, labbra spalancate, denti marci e voce ossessiva, mi ha riportato al ricordo di sua figlia costretta a partire, al ricordo della sua pena, del suo dolore, del rammarico per non aver avuto la possibilità economica di farla rimanere accanto a lui.
Rosalia Calaciura ama il suo ragazzo, eppure, per aiutare economicamente la sua famiglia, è costretta a partire. Vuole partire e farsi una dote, per poi tornare e sposarsi. La madre di Rosalia dice all’arciprete che il suo fidanzato è un disoccupato, un perdigiorno, ma la ragazza obietta che non è un perdigiorno, semplicemente non trova lavoro. La madre convince Blaser a portare in Svizzera la figlia, per ricevere quei quattro soldi che lei le manderà. 
Il ragazzo dovrà lasciar perdere, dovrà lasciarla andare.
“Se davvero tu le vuoi bene, lasciala andare... Tornerà, è una ragazza tenace, tornerà... E vi sposerete.
“Se io trovassi lavoro...” disse il giovane.
“Lo troverai. Con tutta la gente che se ne va, il lavoro a chi resta non dovrebbe mancare”
“Il problema è  che più gente se ne va, più il paese diventa povero [...] Non è come quando si sta seduti in molti su una panca, stretti, stretti, pigiati: che uno si alza e gli altri tirano respiro e si mettono più comodi... Qui nessuno è seduto: e chi se ne va, gli altri nemmeno se ne accorgono; o si accorgono solo che il paese si va facendo vuoto”. 

Non si lotta per il lavoro in Sicilia. Sulla panca sono seduti in pochi, tutti gli altri sono in piedi, senza un lavoro. Si lotta per restare, in Sicilia. Si lotta per il diritto di rimanere in quella piazza, anche in piedi. Chi va via, lo fa sempre per necessità, qui da noi. E Palermo, durante l’anno, si riempie di persone che provengono dai paesi e di studenti universitari, ma si svuota dei suoi cittadini autoctoni, e li riversa per il mondo. 
Le mamme palermitane, al telefono, affrontano discorsi che suonano pieni di emozione:
“Tua figlia è tornata?”
“Sì, finalmente”.
“Anche mio figlio è tornato”.
Torniamo tutti, con un mare di storie da raccontare.
E anche noi, come il personaggio descritto da Sciascia, ci troviamo a fare conversazioni come queste:
[...] “Ma perché non te ne vai in Svizzera anche tu? In Svizzera, in Germania... La Germania è a due passi dalla Svizzera”.
“Ci sono già stato in Germania, per tre mesi. Ma io dico: l’uomo non è un cane... Può starsene straregnato, in un paese non suo, a soffrire perché tutto questo gli manca” accennò alla chiesa, alla piazza intorno, al cielo che si struggeva nell’oro del tramonto “ma il diritto non deve levarglielo nessuno [...] Io voglio dire il diritto di essere [...] qui, che io e lei siamo uguali, e parliamo... Con loro invece è diverso: non ci vedono, ecco, non ci vedono”.
Essere straregnati, ovvero non poter ritornare nel proprio regno. Non poter tornare quando si vuole, non poter godere del proprio paese e della propria città. Ed essere invisibili. Non ci vedono, dice il ragazzo. E non essere visti è una cosa terribile, è come non esistere.
Questo essere straregnati e questo sentirsi invisibili è ancora vero, è una sensazione antica che Sciascia conosceva almeno quanto la conosciamo noi.


'E vissero infelici perché costava meno'


Hanno licenziato tutti i tuoi colleghi. Ho il magone da quando l’ho saputo. Tu hai paura. Ti è venuta la febbre per il dispiacere. Ti sei ammalato e per tre giorni non sei andato a lavoro. Non avevi mai fatto un’assenza, ma avevi paura che avrebbero licenziato anche te. La mattina, ancora sotto le coperte, con le gote rosse e la fronte bollente, mi hai chiesto: «Ma secondo te devo andarci a lavoro?». «Certo che no, hai la febbre alta».
Tu allora hai detto: «E se mi licenziano?»
Non sono riuscita a rassicurarti perché non capisco cosa stia succedendo. Una guerra. Eravate cinque e ne è rimasto uno, a guardarsi le spalle, studiare ogni singolo movimento, temere per il proprio futuro, farsi domande.

Li hanno licenziati perché non c’era abbastanza lavoro e non servivano più. Così, senza preavviso. Mi dispiace tanto per quel tuo collega coreano, ha due lauree, è in gamba. Ha due figli piccoli e una moglie da mantenere. Mi dispiace anche per quello più giovane. Lui ama il suo lavoro, ma presto comincerà ad odiarlo. Mi dispiace per l’altro ancora, quello che per lunghi periodi soffre di depressione e per tre giorni al mese rischia di farsi venire un infarto perché deve completare un lavoro commissionato il giorno prima.
Mi dispiace per tutti, a dire il vero.
Sei tornato a lavoro ed eri solo, non c’era più nessuno accanto a te. In otto ore non un sorriso, non una parola o una battuta. A ora di pranzo hai comprato un panino e l’hai mangiato davanti al computer. Non c’era nemmeno il tuo capo. 
«Non possono licenziarmi - hai detto - sono io che mando avanti questo studio, sono io che lavoro. Se me ne vado come fanno?»
«Ne trovano un altro», ti ho risposto.

Non ci hai creduto. Hai detto che era impossibile. Quando sei stato assunto ti hanno detto che, scaduto il contratto, ti avrebbero dato un aumento. Il contratto sta per scadere, mancano pochi giorni, ma non ci riesci a chiedere l’aumento, non ce la fai, non ti sembra il caso né il momento. Hai paura. Però dici che non puoi vivere con questo stipendio. Dici che non vuoi solo sopravvivere ma vivere pienamente la tua vita. Dici che è sempre stata tutta una prova generale, che lavori da quattro anni e ti trattano sempre peggio. Dici che vuoi andare via da questo Paese, che ti fa schifo, che a Palermo a Roma o a Torino è uguale, una vita di soli sacrifici, una vita di discount, di monolocali senza forno, senza freezer, una vita di bollette e di ansia. Dici che non abbiamo futuro.

«Ci pensi che non avremo mai un futuro? Ci pensi che vivremo sempre sulla soglia della povertà?
«Non è vero»
«Sì che è vero. Io gli chiedo l’aumento»
«E se non te lo concede, l’aumento?»
«Ma erano questi i patti»
«E se non li rispetta?»
«Me ne vado»
«E che fai dopo?»
«Non lo so, ma io ho una dignità. Non posso farmi sfruttare sempre» 
«Tu hai ragione, ma non so se troverai un altro lavoro, adesso. E se lo trovi devi ricominciare da zero. Periodo di prova, quattrocento euro, straordinari non pagati, poi seicento e poi, finita la prova, scaduto il contratto a progetto, ne prendono uno nuovo perché non possono permettersi di darti un aumento».
«È proprio questo il problema. Continuano a offrirci stipendi da fame e noi accettiamo sempre. Se rifiutassimo queste condizioni, sarebbero costretti a pagarci di più. Non capisco perché anche i migliori in questo paese non riescono. Ci siamo accontentati un po’ troppo. Noi dovremmo rifiutarci tutti. In questo paese le aziende riescono a mantenersi perché noi siamo a costo zero!»

Hai chiamato i tuoi amici, tua madre, tuo padre. Hai chiesto a loro. Alcuni ti dicono di aprire la partita Iva che per ora non costa nulla, altri di tornare a Palermo, altri di restare e chiedere l’aumento. Altri ancora ti dicono di aspettare. Io non so veramente cosa consigliarti. So solo che non vorrei cambiare di nuovo città. Vorrei stabilità, vorrei equilibrio. Invece adesso la nostra serenità dura solo il periodo di un contratto a progetto
«Quando penso al nostro futuro sai cosa mi viene in mente?, mi hai detto»
«Cosa?»
«Quella frase di Leo Longanesi: E vissero infelici perché costava meno».



Un nuovo cinema multisala a Palermo: i pro e i contro


Un cinema multisala al  posto dell’ex stabilimento della Coca Cola, a Partanna. Un impianto con undici sale, ristoranti e negozi. Cosa ne pensano i palermitani? I lavori per la sua realizzazione al momento sono stati sospesi dal Comune a causa della protesta di alcuni proprietari di sale cinematografiche minori ma soprattutto a causa di alcune discrepanze tra il progetto approvato e quello in corso di realizzazione e una serie di varianti applicate in corso d'opera.

Ma facciamo un passo oltre: quali sarebbero i lati positivi? E quali i negativi? Di lati positivi ce ne sarebbero molti. Avremmo undici sale, dunque più film. Di conseguenza più offerta. Più cultura. Più eventi. All’interno della struttura ci sarebbero ristoranti e negozi, dunque posti di lavoro e possibilità aumentare i consumi. Il multisala potrebbe diventare un luogo di incontro, un polo attrattivo per molti palermitani, un centro culturale e di aggregazione di varie tipologie di pubblico. Il lato negativo sarebbe riscontrabile nel flop dei piccoli esercenti.

Palermo ha bisogno di stimoli e di rinnovamento e, per evitare la drastica scomparsa delle vecchie sale, gli stessi gestori potrebbero tentare di ripensare la propria attività. Adattarsi al rinnovamento e costituire un’identità forte all’interno del proprio esercizio commerciale, promuovendo per esempio visioni in lingua originale, come suggerisce l'attore Paolo Briguglia a La Repubblica Palermo, potrebbe essere un primo passo per la differenziazione e la qualità dell’offerta. 

Applicare una riduzione significativa al prezzo del biglietto, un giorno a settimana, come succede in altre città d’Italia, potrebbe essere un’altra strategia per non chiudere bottega. Si potrebbero organizzare rassegne, organizzare eventi e incontri di varia natura e avvalersi di convenzioni con le scuole. Solidali alle obiezioni dei piccoli esercenti, sono invece i registi Franco Maresco Pasquale Scimeca, ancorati al cinema delle "vecchie sale", inteso come concetto culturale più che come commercializzazione di un prodotto.

Ma i palermitani hanno voglia di aggregarsi, parlare, confrontarsi. Hanno bisogno di più offerta, e hanno bisogno di stimoli dall’alto contenuto qualitativo. Lo dimostra, ad esempio, il successo del cinema comunale De Seta, ai Cantieri culturali alla Zisa. Lo dimostra anche l’occupazione del Teatro Garibaldi  e il fermento culturale che si è sviluppato al suo interno. In tutte le grandi città d’Italia esistono i cinema multisala. Il cinema, come spiega Roberta Torre, non può rimanere un lusso di esteti e cinefili ma deve rinnovarsi e adattarsi alle esigenze di un pubblico il più possibile differenziato. 
 

Non avere più voglia di inviare il curriculim

 La città, disperazione organizzata, muoveva membra, articolava parole, accoglieva alcuni come un grembo, altri li sputava fuori, come semi d’uva. (Wu Ming, Previsioni del tempo)

-Ritorneremo nella nostra città? 

-Non lo so, ma sarebbe bello avere la possibilità di tornare a farne parte. A Palermo ci siamo nati ma a Palermo non contiamo niente. 

La sensazione che abbiamo è quella di vivere in un luogo gestito solo da altri, mai da noi. 

L’asfalto è liscio qui. Si scivola, in questa città. E noi siamo come tanti incidentati che negli anni hanno imparato a mantenere l’equilibrio. 

*

Da un po’ di tempo a questa parte, ci siamo stancati anche di inviare il curriculum. In questi ultimi mesi, è mia zia che mi sostituisce nella ricerca di nuovi stimoli e nuove realtà lavorative, è lei che cerca nuovi 'indirizzi' per conto mio. Puntualmente, mi invia dei messaggi pieni di nomi e indirizzi di posta elettronica. Allora, dato che non devo fare alcuno sforzo, faccio un copia incolla della mia lettera di presentazione alle aziende, scrivo due righe e tac!, invio. 

In tanti si sono stancati. E credo che nessuno possa fargliene una colpa. Nel profondo, penso che noi tutti della generazione precaria, nutriamo un forte desiderio di rivalsa, una voglia implacabile di prenderci ciò che ci spetta, un bisogno legittimo di contare qualcosa. Non è auto-indulgenza, ma solo la rivendicazione di un diritto, un forte impulso a non reprimere la sete di ambizione, lavoro, riconoscimento professionale e autostima. Quest'ultima, poi, cade a pezzi di questi tempi. Non avere più voglia di inviare un curriculum è l'ultimo stadio di questa ricerca ossessiva di lavoro alla quale siamo dediti quotidianamente.

Non diamo la colpa a nessuno, noi. Lo sappiamo che aziende non possono permettersi assunzioni e che, a dirla tutta, stanno lottando per non licenziare il personale interno. Ma potrebbero almeno rispondere alle e-mail. Se nessuno risponde non sapremo mai se e come dobbiamo migliorarci, quali sono i requisiti che dobbiamo possedere per ottenere quel lavoro. Non sapremo mai cosa dobbiamo fare. Abbiamo forse sprecato tempo. Un mare di tempo a scrivere, un mare di tempo a iscriverci a siti e agenzie interinali, un mare di tempo a memorizzare password per accedere a questi siti.

*

Ritorneremo nella nostra città? Non lo so. E quando mi poni questa domanda mi viene in mente un film visto tempo fa, un film di Antonioni del 1960, "L’Avventura", ambientato in Sicilia. Mi ricordo della sensazione che ho provato dopo averlo visto, ricordo perfettamente la descrizione, da parte di un grande regista, di una terra che non era "sua". Antonioni l’aveva descritta come una terra chiusa, ostile agli stranieri, ai turisti, una terra gelosa di sé stessa, una terra in cui è facile perdersi. E forse aveva ragione. In Sicilia non li vogliamo i turisti, non li abbiamo mai voluti qui i turisti. Questa terra è nostra, e ne siamo gelosi. Qui la gente vuole restare così com’è, vuole continuare ad occuparsi della madre, del padre e dell’amore. Noi viviamo di cose essenziali, ed essenziale è il nostro modo di parlare e di esprimerci. La Sicilia è bella perché è circondata per intero dal mare. Lei è bella perché è sola, e soli sono quelli che la abitano




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