mercoledì 14 novembre 2012

Colloquio 'importante' ovvero la fine di un sogno...

- Guardi, voi ragazzi siete convinti di poter iniziare dall’alto. Per scalare una montagna dovete partire dal basso.
- Io questo lo so. Il problema è che non abbiamo la possibilità di partire dal basso. Se io potessi, scriverei per un giornale di provincia o per quello della mia città. Ma lei crede che abbiano bisogno di me?
- No, ma voglio dire non può pensare di partire dalla vetta. Il nostro è un giornale di serie A.
- E perché non può mettermi alla prova anche se è un giornale di serie A?
- Ma lei non ha esperienza, deve fare la gavetta.
- Ma se tutti dicono così, come faccio a fare esperienza? Io scrivo, ho scritto delle cose e continuerò a farlo. Lei non sa nemmeno come scrivo. Come fa a dire questo?
- Non so come scrive ma io, prima di arrivare qui, facevo il correttore di bozze. Mi davano pochi soldi per fare un lavoro del cavolo. Sa cosa vuol dire passare la notte a correggere cartelle? Poi diventai il più bravo correttore di bozze della città, facevo 40.000 battute all’ora. Dovevo anche correggere gli accenti e tutti facevano il solito errore di mettere l’accento grave nella parola ‘perché’, invece ci va quello acuto. Allora inventai un comando del pc che automaticamente correggeva questo errore. Videro che ero in gamba, quindi mi diedero un lavoro migliore. Oggi sono il direttore dello stabilimento di uno dei più grandi quotidiani nazionali.
- Scusi se mi permetto, ma se non avessero avuto i soldi per pagarla, non sarebbe mica rimasto lì. Anche se fosse stato il più bravo. Le voglio dire che anch’io credo di avere un minimo di talento ma non ho le stesse possibilità che ha avuto lei in passato, non posso averle perché nessuno vuole mettermi alla prova. Lei crede che io stia ferma a casa a girarmi i pollici? Ieri sono arrivata fuori città per consegnare un curriculum e non mi hanno nemmeno aperto la porta. Lei sarà stato il più bravo correttore di bozze del mondo ma ha avuto la possibilità di esserlo.
Io non credo che sia sbagliato partire dall’alto. È veramente difficile trovare qualcuno che abbia ancora un sogno. Vedo troppa rassegnazione intorno a me, quindi mi sento fortunata a credere ancora nelle mie capacità. Io credo che il talento vada premiato, che nelle redazioni dei giornali bisognerebbe introdurre gente giovane che sa gestire le nuove tecnologie, gente con idee nuove. È sbagliato quello che dice lei, è un ragionamento fin troppo ‘italiano’. Vuole dirmi che, se un giorno lavorerò per il suo quotidiano, avrò già sessant’anni? Spero proprio di no.
- Io credo che voi ragazzi dobbiate sempre e per forza prendervela con qualcuno. Avete bisogno sempre di dire ‘è colpa vostra’, credete sempre che il mondo cospiri contro di voi. Ma non è così. E poi avete un problema ancora più grande, fate confusione tra sogno e illusione. 
- Io non la vedo così come la vede lei. Credo che il problema principale sia che ci sentiamo superflui perché nessuno ha bisogno di noi. Lei come si sentirebbe? Chiunque, sentendosi superfluo, comincerebbe a dubitare di sé stesso, a porsi delle domande e inevitabilmente ad avere un calo dell’autostima. Chiunque si sentirebbe sconfitto sapendo che nessuno ha bisogno di te. E sa qual è la cosa più assurda? Che l’unica cosa che, dopo la realizzazione personale raggiunta con il lavoro, ci fa recuperare l’autostima, è l’amore, l’amore delle persone che ci stanno accanto. Circondarci di persone che ci vogliono bene ci fa recuperare un po’ di autostima. Ma è diventato sempre più complicato. Io, la sera vorrei uscire con i miei amici, ma non posso perché li ho lasciati a Roma, a Palermo, a Barcellona, a Catania, a Perugia. Io ho costruito e distrutto mille volte, sempre per lo stesso motivo: la ricerca del lavoro. Sono venuta qui perché avevo bisogno di non perdere di nuovo quello che avevo creato fino ad ora. Altrimenti io e il mio ragazzo ci saremmo lasciati. E lo sa quante persone si lasciano per ché uno va in America a cercare lavoro e l’altro non ha i soldi per farlo e resta a casa da mamma e papà? Lei crede che a trent’anni sia facile vivere con mamma e papà? 
- Lo so, lo so. Ma l’emigrazione c’è sempre stata...
- Sì, c’è sempre stata. Ma prima emigravi una volta. Trovavi un lavoro e ti ambientavi, ti facevi una casa, degli amici e così via. Questo quando? Dalla fine dell’Ottocento in poi. Ma adesso non è più così, studi in un posto, poi ti sposti in un altro, dopo tre mesi ti scade il contratto e fai le valigie, e così via. 
- Senta, l’errore più grande che abbiamo commesso dalla fine del Settecento in poi è stato quello di considerare la felicità come un diritto, e di credere che se non siamo felici è colpa di qualcun altro. Ora quello che le consiglio io è di fare qualsiasi mestiere, e di farlo al meglio. Di fare la barista, che male c’è, ma farlo nel modo migliore, fino a diventare la migliore barista di questa città. Deve farsi piacere il suo lavoro più che cercare il lavoro che le piace.
- Direi che è un bellissimo consiglio ma un po’ da paraculo, nel senso che è l’unica scelta che mi rimane. Ma... ancora una cosa. Mentre noi parliamo della situazione dell’editoria e del giornalismo in Italia, c’è un sacco di gente che manifesta in piazza, gli studenti a Torino hanno occupato la Provincia, a Roma ci sono stati scontri con la polizia, a Palermo e Napoli hanno occupato le stazioni. Oggi è la giornata della protesta mondiale. E non dica che dobbiamo per forza prendercela con qualcuno. La violenza è sbagliata, sia chiaro, la strumentalizzazione poi, figuriamoci. Ma vengono i brividi ancora quando si vedono le cariche della polizia contro studenti inermi. Vengono i brividi ora, perché ora più che mai studenti e poliziotti stanno dalla stessa parte. 
Cosa rimane da fare se non protestare? Cosa aspettiamo a cambiare le cose? Lei ha due figli e dice, scherzando, che non sa che farsene perché un lavoro non lo trovano nemmeno loro. Ma loro cosa pensano? Lo sa per cosa protestano gli studenti? Perché non solo hanno tagliato i fondi all’istruzione, ma per di più si rendono conto che tutte le persone che hanno finito la scuola e l’università da un pezzo, sono posteggiate a casa e senza un lavoro. Perché forse si chiedono che futuro potranno mai avere in questo paese. Lei dice che non se la sente di dire ai suoi figli di andare via da questo paese. Invece dovrebbe. 
Ha idea di quanto si siano arricchite le università pubbliche a spese dei nostri genitori? Perché non ci hanno insegnato niente che fosse necessario per il mondo del lavoro? Perché non serviamo a nessuno?






mercoledì 31 ottobre 2012

La generazione dell'OKI


Stamattina ho trovato sul comodino un foglio accartocciato. Era la poesia che aveva scritto mesi fa la mia ex coinquilina, una che si pagava affitto e università a Roma con i suoi bei soldini. Ogni tanto rischiava di morire di fame e per questo meditava sulla possibilità di fare marchette a Termini. Di sera lavorava come cameriera in un ristorante, uno di quei posti in cui non possono fare a meno di te ma ti pagano poco e ti sfruttano troppo. Trovi le sale sempre affollate di gente di un certo calibro come Cristian De Sica, Tonio Cartonio, Paola Cortellesi, Rex il cane (giuro!), Martina Stella. Insomma, è frequentato da personaggi famosi e quindi non puoi fare errori.


Per laurearsi in Editoria e Giornalismo, qualche mese fa, ha scoperto che aveva necessariamente bisogno di fare uno stage non retribuito in una delle aziende convenzionate con la facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza. Durante questi tirocini, ti insegnano tante cose come rispondere al telefono, usare la macchina fotocopiatrice e scrivere e-mail, insomma cose che sapevi fare anche quando eri piccola. E sapete dove lo fa questo tirocinio? In un centro scommesse. Non scherzo, giuro che è la verità. Quest’ultimo lavoro ovviamente lo fa gratuitamente, un po’ perché noi precari abbiamo sviluppato questa passione per il masochismo e un po’ perché non ci lasciano altra scelta.Dicevo che, stamattina, mi è capitata tra le mani questo foglio in cui c’era scritta una poesia ispirata, per così dire, dal maestro Ungaretti con il quale, noi precari, ci troviamo spesso d’accordo, a nostro agio, in perfetta sintonia. La poesia recitava così: Si sta come a Natale sugli alberi di Natale gli addobbi di Natale. "Ungaretti a Natale" sembrava una cosa da ridere eppure, quando io e i miei ex coinquilini ci siamo messi a ridere mentre la leggeva, lei è rimasta seria e ci ha rimproverati. Ha detto: "non c’è proprio niente da ridere".Il vero trauma dei bamboccioni choosy della nostra età è che si sentono inutili perché nessuno ha bisogno di loro. Una ragazza che ha la passione per la scrittura, invece di iniziare a lavorare per il giornale del suo paese o della sua città e ricevere una paga a fine mese, va a lavorare come cassiera in un autogrill. L'unica cosa che la soddisfa è scrivere i suoi versi sulle mattonelle del cesso di quell’autogrill, dove peraltro la sua collega della stessa età - che 'da grande' voleva insegnare - fa le pulizie giornalmente, cancellando quei versi a colpi di Chanteclair.Questa è la generazione dell’OKI, quella che si droga di Novalgina, Aulin e antidolorifici in generale. Ne abbiamo le tasche piene dei dolori, noi. Tutti perduti nel dramma delle medicine, degli psicofarmaci, della disoccupazione.

mercoledì 24 ottobre 2012

Choosy


Ho sempre qualche problema con i telegiornali, mio caro. Non capisco mai se ci prendono per il culo o dicono sul serio. Ci sono sempre un sacco di notizie di cronaca, ci vogliono mettere paura e ci riescono pure. Per ora si parla dell'Ilva, di che fine farà il Pdl, di Renzi, del tipo ucciso a Napoli e della ragazza accoltellata a Palermo. Ma ieri ho sentito il discorso della Fornero. Ero davanti alla tv con mio padre e ho sentito che diceva che noi non dobbiamo essere 'choosy'. Forse voleva dire 'Giusy', ho pensato. Mi sono persa qualcosa? Chi è Giusy? Poi ho capito che aveva detto veramente 'choosy'. Ora, aldilà di quello che ha detto, ma ti sembra un discorso da fare in un paese come l'Italia? Perché la Fornero non parla come mangia? Ma ti pare che un signore di un qualsiasi quartiere popolare di qualsiasi città, possa capire cosa intenda? Nanni Moretti forse l'avrebbe schiaffeggiata. Le parole sono importanti! 
Poi, mi sono soffermata sul significato. Dicono che significhi 'schizzinosi. Tu non farci caso. Tu non lo guardare nemmeno il telegiornale. Noi ce la mettiamo tutta. 
Ti alzi presto e vai a lavoro. Sei a Torino adesso e io spero di raggiungerti presto. Esci dallo studio alle nove, ogni giorno. Non hai firmato alcun contratto. Lavori pure il sabato e negli ultimi tempi ti hanno chiesto di lavorare anche la domenica. Sei distrutto e non hai tempo nemmeno per mettere i panni in lavatrice. Io non trovo nulla per ora, sto vendendo le mie collane e i miei orecchini ma, come sai, tutto di nascosto. Dovrei farmi la partita Iva. Sugli annunci trovo offerte di lavoro assurde, c'è chi cerca una barista formosa e tatuata, chi per lavorare ti propone un corso di formazione iniziale a pagamento, chi chiede stagisti per la raccolta dei rifiuti con un 'piccolo' rimborso spese e chi cerca una cameriera ma poi, rispondendo sulla mail privata, spiega che in realtà ha bisogno di una spogliarellista per un locale di Torino. Che culo! 
Ieri sera ho mandato un curriculum ad una redazione on line. Mi hanno risposto oggi, ed è già una vittoria. Mi hanno scritto: 'scusa ma non ho ben capito cosa intendi per collaborazione. Noi non paghiamo la gente che scrive per noi'. Ho risposto:  'ma figurati se volevo essere pagata. Io non sono così 'choosy'.

martedì 2 ottobre 2012

Una comune mattinata da precari


Quella mattina avevo bisogno di soldi. Per andare a Torino avevo comprato un biglietto da Roma andata e ritorno Trenitalia ed era costato cento euro. 
Non lavoravo, facevo collane e orecchini e, soltanto in due occasioni avevo avuto il coraggio di allestire alla meno peggio una bancarella per strada. La prima volta era andata abbastanza bene perché ero in un luogo sperduto, la seconda ero in regola perché alla festa di Liberazione bastava versare una piccola quota ad un’associazione di artigiani. 

A Roma, c’è un posto dove è più facile vendere: davanti all’univerisità. C’è un viavai di ragazzi e ragazze che ciondolano per le strade. Mi ero portata tutto in uno zaino, avevo qualche paio di orecchini e un bel po’ di collane. Avevo approfittato della compagnia di una mia amica che doveva vendere un libro.
- Domani vado all’università.
  • Vengo con te!
  • Tu che devi fare?
  • Io devo vendere la mia bigiotteria, e tu?
  • Io devo vendere un libro ad una ragazza.
  • Brava, ti dai da fare. E quanto lo vendi?
  • Cinque euro, perché sono fotocopie.
  • Ah. Ma ti conviene spendere tre euro di biglietto Atac per guadagnare solo 5 euro. In pratica così ne guadagni solo due!
  • Vabbè, mi ci compro gli assorbenti.
Così era andata la conversazione.

Ci eravamo svegliate presto perché la ragazza del libro era in facoltà fino alle dieci. 
Se i giorni precedenti, a Roma, si erano sfiorati i 40 gradi e avevamo dovuto tenere le persiane chiuse per quanto era accecante il sole, quel giorno non solo le nuvole si affollavano nel cielo, ma si era messo a piovere di brutto. 
Arrivate sul posto, avevamo deciso di allestire il tutto vicino ad un bar, coperte da una siepe sia per non farci rimproverare sia per appoggiare l’ombrello da qualche parte, in modo tale da poter riparare la merce. Ne avevamo solo uno, quindi noi l’acqua ce la prendevamo, e come!
Avevo appena finito di posizionare la bigiotteria su una bacheca di sughero, incastrato i miei bigliettini da visita tra una collana e l’altra, trovato un modo per non bagnarmi e vinto la timidezza, quando si avvicinava un tipo con il pizzetto bianco, un uomo di mezza età.
- Qui non potete stare, è pericoloso!
  • Come pericoloso?
  • Si vede che siete nuove tu e la tua amica. Qui nun se po’ sta’.
  • E perché ‘nun se po’ sta’?
  • Perché quelli del bar non vogliono. Ma voi ce l’avete la partita IVA?
  • La partita che? Secondo te c’ho la partita IVA? Sto cercando di vendere quattro cazzate perché sono disoccupata da mesi. Per aprirmi la partita IVA mi servirebbe un mutuo!
  • Vabbè, vabbè, ho capito. Ma da qui ve ne dovete annà.
  • Mi scusi ma lei chi è?
  • Io sono un artigiano, mi metto sempre qui a vendere, faccio ‘sto lavoro da ‘na vita.

Ho pensato subito che mi voleva fottere. Ho pensato che ce l’avesse con me perché pioveva e io avevo sfidato la pioggia e lui no, ho pensato che mi voleva fottere il lavoro, che mi voleva cacciare per evitare la concorrenza. Poi però ho detto, ‘e anche se fosse’? Davvero devo rischiare che mi facciano la multa o che mi sequestrino la merce?

  • E dove ci dovremmo mettere, allora?
  • Potete provare lì, sulla strada.

Sulla strada. Bah.
Comunque ci eravamo guardate negli occhi e avevamo deciso di spostare tutto, tutto precario, la roba avvolta in un telo, gli immigrati che facevano lo stesso lavoro erano lì a deriderci e io pensavo che non era il lavoro per me. Ci eravamo piegate in due dalle risate tanto era buffa la situazione, eravamo impacciate, per non bagnarci coprivamo la merce con i nostri corpi, non avremmo fatto un soldo nemmeno pregando la gente. Se avessimo chiesto l’elemosina sarebbe andata meglio. 
Avevamo allestito di nuovo il pannello di sughero, la gente passava e ci scansava come la peste. Avevo provato a porgere un bigliettino da visita ad una signora dicendole ‘Signora posso lasciarla il mio bigl...’ ma non mi aveva fatto finire la frase. Mi aveva liquidato con un  ‘no no no grazie’ ed era scappata. Aveva preso a piovere forte e ormai non vedevo più. Allora ho tolto gli occhiali. 
Potevo vendere solo quel giorno, il giorno successivo sarei partita per Torino e avevo bisogno di soldi.
Niente. Non si era avvicinato nessuno. Anzi, uno si era avvicinato, quello di prima. Quello col pizzetto bianco. Aveva detto:
- ragazze, qui tra poco, appena smette di piovere, arrivano gli sbirri in borghese e vi sequestrano la merce.
  • Addirittura, è una cospirazione allora?
  • No davvero ragazze, qui hanno tutti la licenza per vendere.
  • Ma se ci sono solo immigrati, e magari pure senza permesso di soggiorno!
  • No, non è così. Io questo lavoro lo faccio da sempre.
  • Vabbè, ora andiamo, noi volevamo stare solo due ore, vendere qualcosa. Io sono disoccupata, e che devo fare? Ho cercato di inventarmi ‘sto lavoro. Ho una laurea specialistica in Editoria e Giornalismo, e lo sai che ci faccio con quella? Lo puoi intuire da solo.
  • Avete ragione ma da qui ve ne dovete anna’.


La ragazza straniera era arrivata. Era slava o turca, non so. Parlava strano. Voleva il libro, quello che costava cinque euro, le fotocopie insomma. La mia amica le aveva spiegato il programma, le aveva detto quali erano gli argomenti più importanti. Avevano parlato per venti minuti circa. Io nel frattempo avevo smontato tutto. Tutto. Avevo deciso di mollare.


Il ritorno lo abbiamo fatto a piedi, non volevamo dare nemmeno un centesimo a quelli dell’Atac. 
Siamo arrivati a San Lorenzo. La mia amica aveva visto su Internet un annuncio, un’offerta di lavoro in una caffetteria. 
Entrate nella caffetteria di Piazza dei Siculi, la mia amica ha detto:
- Salve, ho visto che avete bisogno di una barista.
  • Sì (tono scazzato)
  • Volevo qualche informazione perché sono interessata a questo lavoro.
  • Ah, ma tu lo sai fare questo lavoro?
  • Sì, lo faccio da quattro anni.
  • Ah
  • Volevo sapere quali sono i turni e quant’è la paga mensile.
  • Tutti i giorni, compresi sabato e domenica
  • Ok, e la paga?
  • No, torna un altro giorno. Per ora c’è confusione.

Ho pensato: ‘ma mica gli sta chiedendo un favore! Perché questo stronzo se la tira così tanto?’

Non abbiamo mai saputo quanto le avrebbero dato se avesse accettato di lavorare per questi figli di puttana.

Ci eravamo fermate in edicola per comprare il ‘Porta Portese’. Nel frattempo si era avvicinato un tipo e aveva chiesto:
- Scusate ragazze, per caso avete una sigaretta per un mio amico che oggi è senza un piede?
  • Eh? 
  • per caso avete una sigaretta per un mio amico che oggi è senza un piede?

Avevamo sentito bene.

  • No
  • Sicuro?
  • SICURISSIMO!

Arrivate a casa, abbiamo preso a sfogliare il Porta Portese. Non c’era l’inserto ‘Lavoro’.

- Ma non c’è l’inserto del lavoro! Ma come mai?
  • Che ne so, forse non c’è lavoro!
  • Assurdo, solo immobili e motorini, immobili e motorini!!! E niente lavoro! Solo due pagine di offerte di lavoro, all’interno.

La prima scritta della pagina delle offerte di lavoro diceva:
IMMIGRATI. COME DIVENTARE IMPRENDITORI.
Abbiamo riso.

lunedì 1 ottobre 2012

Offerte


Il supermercato detta la tua dieta. 
Se il riso è in offerta cucini riso con verdure, se la pancetta è in offerta fai la carbonara, se il vino è in offerta fai un mega aperitivo, se per caso la pasta è in offerta inviti anche qualcuno a cena. Roba da intenditori. 
Nessuno meglio di noi precari degli anni ottanta sa fare la spesa. Noi sappiamo cosa mangiare perché ci passano i volantini dei supermercati nella buca delle lettere. Noi, al pari delle signore casalinghe, anche se adesso le abbiamo superate in quanto a ingegno, prendiamo tutti i depliant di tutti i supermercati e sappiamo sempre cosa e dove comprare. 

A volte le offerte diventano modi per collocare gli eventi nel tempo. 
‘Ti ricordi quella sera in cui abbiamo cucinato la parmigiana perché svendevano le melanzane?’ 
‘Si, bella serata. Quella sera sono venuti Peppe e Silvia a cena. Ancora me ne parlano, di quella serata’. 
‘È stata la stessa sera che siamo andati a Piazza Sant’Anna’.
‘Si, quella sera in cui hai conosciuto quel tipo’.
‘Che ridere’.

Così sono le offerte, foriere di buone cose. Utili, provvidenziali, essenziali. 
Se non ci fossero le offerte, noi precari vivremmo ancora con i nostri genitori.

martedì 25 settembre 2012

È STATO IL FIGLIO

Stasera ho visto un film che mi ha sconvolta. Si chiama ʻÈ stato il figlioʼ ed è la storia di una famiglia del quartiere Zen di Palermo. Daniele Ciprì descrive un luogo che esiste realmente, un luogo dove la gente spara per regolare i conti, un luogo strano, dove vivono persone povere, talmente povere da diventare irreali. Strano che il film di Ciprì sia prodotto in un periodo del genere, un periodo in cui solo la classe borghese fa la rivoluzione, un periodo in cui i poveri stanno in silenzio e, apparentemente, non si accorgono di nulla. E non se ne accorgono perché per loro non è cambiato niente.
Si rimane spiazzati di fronte a questa 'pseudo tragedia greca', incapaci di credere come la fame conduca a fare certi gesti, un film toccante, senza dubbio, ma anche un poʼ fine a se stesso. Non serviva a rivalutare il quartiere Zen di Palermo, presentato in modo a dir poco squallido, anche se molto realistico, non serviva a dar voce alle classi meno abbienti. Serviva, forse, da monito.
Il progresso, il benessere apparente ci ha portati a dare più importanza agli oggetti di consumo che ai valori morali. Il prete che benedice la Mercedes e intasca la mazzetta subito dopo, lo zio Pino che ʻmpresta picciuliʼ a condizioni improbabili e la nonna che si rivela senza cuore, decidendo - seguendo la logica matriarcale della famiglia siciliana, con una razionalità invidiabile ma pietosa - di mandare in carcere un innocente, sono figure che servono a denunciare un grave problema sociale. Queste non sono figure nuove, esistono dai tempi in cui lʼuomo deve ʻfaticareʼ per vivere, sono personaggi di una città arcaica che ha bisogno di unʼalternativa plausibile.
Da quando una Mercedes è diventata più importante di una vita umana? Da quando una moto è più importante di un legame di sangue? Il consumismo coatto, dagli anni Cinquanta in poi, ha cambiato la nostra fisionomia. Il padre con una Mercedes può comprarsi il rispetto dei residenti della sua zona. Il ragazzo con una moto costosa e, oltre a comprarsi il rispetto di tutti, diventa crudele.
Forse ci basta davvero poco per essere felici, per stare tranquilli. Forse noi, che abbiamo sbagliato i tempi dellʼevoluzione, ancora possiamo ricordare cosa cʼera prima e se ci piaceva di più. Gli oggetti come status symbol sono un concetto che non ci appartiene. La nostra più grande risorsa, oggi, dovrebbe essere quella di accontentarci di quei beni necessari che rendono necessaria la vita.



martedì 18 settembre 2012

Palermo: l'eterno dilemma. Restare o andare via?

Quando hai chiuso il telefono abbiamo brindato. Ti aveva detto che eri assunto. Contratto a progetto per sei mesi per poche centinaia di euro. Che opportunità, abbiamo pensato. Torino è una città stupenda.

‘Ci sei mai stata?’

‘No, però lo dicono tutti’.
Un attimo dopo ti sei seduto, i gomiti sul tavolo e l’espressione triste. 
‘Che c’è?’ ti ho chiesto.
‘Non so se sono felice o no’.

Devi scegliere se partire per Torino, città giovane, dove è più semplice trovare un lavoro oppure rimanere a Palermo, chiedendo un aumento, almeno, che ti permetta di prendere in affitto una stanza tutta tua, solo tua, da gestirti come vuoi. Potrai lasciare le mutande sul tavolo, potrai arredarla come ti pare, mangiare la ciambella sotto le coperte, fare l’amore urlando, sporcare quanto vorrai. Se l’aumento te lo danno, allora ben venga. Lo sapremo domani. Anche se, come sai, questa è una città veramente difficile. Siamo noi che la rendiamo difficile. 
Tu sei fiducioso, dici che qualcosa presto cambierà, che i palermitani hanno voglia di cambiare e che adesso c’è Orlando e andrà tutto meglio. Poteva fare qualcosa, Orlando, per convincerti a restare. 
Orlando poteva fare qualcosa. Poteva far togliere dalle palle tutti i posteggiatori del cazzo che affollano le strade e che ti fanno tanto incazzare. Lo sai che ormai affollano anche i parcheggi degli ospedali? 
Poteva pedonalizzare il centro, proibire il parcheggio selvaggio, stanziare dei fondi per i giovani disoccupati come in tante città europee civili fanno già, poteva eliminare un po’ di spaccini qua e là, far arrestare chi andava arrestato. Invece lo sai che fa in questi giorni Orlando? Si occupa di quelli della Gesip. Mentre un gruppo di delinquenti tiene in pugno la città, lui ci guarda andar via senza far nulla. Io me ne fotto se questi signori, quasi tutti ex detenuti, non hanno avuto i soldi che gli spettavano. Lui, il sindaco, propone il prepensionamento per quasi tutti loro. Cioè non solo hai la fedina penale sporca ma ti regalo pure una pensione. Perché? Perché sono pericolosi. Fino a quando in questa città non ci saranno regole e fin quando avremo paura di ritorsioni da parte di gente poco onesta e scenderemo a patti con la delinquenza, non cambierà niente di niente.

Tu non sai se restare o andare.
Io odio l’idea di dover ripartire e fare di nuovo il giro delle aziende, il giro di telefonate, di e-mail, di buongiorno e buonasera, di colloqui e quant’altro. Non la voglio fare per sempre questa vita. Voglio una casa in affitto, uno stipendio che mi permetta di fare la spesa. 
Non voglio che tutti i laureati in lettere e giornalismo si ritrovino a fare gli artigiani alle feste dei comunisti. Ci sono persone veramente capaci in questo posto, che hanno studiato, persone che fino a poco tempo fa raccontavano storie meravigliose su questa città. Tantissima gente che vive fuori ha nostalgia di Palermo. Io, invece, se me ne vado, qui non ci voglio ritornare. Solo per le vacanze. 
Mi sono stancata dei raccontini melodrammatici sulla città fatiscente, il calore delle persone, l’immondizia scenografica, Ballarò, la Vucciria, Piazza Magione. Questi ormai sono solo i luoghi della criminalità, travestita da liberalizzazione  dell’alcol, della droga e chissà di che altro. 

Io qui non ho visto nulla che mi abbia convinto a restare.
Qui ci offendono, ci umiliano. Non gliene frega un cazzo a nessuno di me e te che vorremmo vivere di nuovo insieme, che nonostante tutto siamo rimasti insieme. Ci fanno litigare, ci istigano, ci provocano. Quanta gente ha lasciato perdere. 
Hai speso una fortuna per fare questo colloquio,  sei andato lì subito dopo aver ricevuto la chiamata, hai fatto due lunghissimi viaggi in nave e svariate ore in treno, non hai dormito, eri solo. Hai letto un libro, tutto d’un fiato. L’unica persona che ti ha rivolto la parola era un turista tedesco. Sei andato lì rischiando che ti dicessero: ‘grazie ma non è questa la figura professionale che stavamo cercando’. Eri stanco, esausto. Volevi solo distendere le gambe e invece hai fatto un colloquio e ti sei sforzato di sorridere, di essere socievole ed espansivo anche se sei un orso di natura, hai indossato la tua camicia migliore e hai mangiato da McDonald’s per non spendere tanti soldi. Io sono rimasta qui a fare il tifo per te ed è andata bene. Per poche centinaia di euro al mese. Capito? Ma bisogna pur iniziare. Sempre. 
Un tempo tutto questo aveva senso, iniziavi ‘una’ volta, facevi  la gavetta, la fame, poi dopo qualche anno si sistemava tutto e potevi accendere il mutuo. Adesso no, adesso si ricomincia sempre da zero, lavori per quattro ditte diverse in un anno, ti arrivano quattro CUD e per lo Stato sei ricco. Negli intervalli, i periodi di disoccupazione per intenderci, devi tornare da mamma e papà perché non puoi permetterti l’affitto, smonti casa e impacchetti tutto, spedisci con Poste Italiane i trenta scatoloni che contengono la tua vita, lasci i tuoi amici, dici addio ai tuoi sogni di gloria, addio al tagliere dell’Ikea 1mx1m, addio al mortaio di legno, al frullatore a immersione e tutti i tuoi libri di cucina, addio al tuo planisfero, a tutte le persone che ti riempivano le giornate. 
Ci vuole un po’ di tempo per riabituarsi a vivere con i propri genitori. Ci sono problemi di spazio, per esempio, di disordine che si crea in casa, di privacy. 
Poi, un giorno, dopo mesi passati a iscriversi a siti tipo cercolavoro.com e dopo aver mandato miliardi di e-mail col tuo curriculum perfino al negozio di scarpe di fronte casa (e non ti hanno nemmeno risposto ‘no grazie’), arriva una chiamata e si ricomincia. Ricominci e metti di nuovo tutto in discussione. 
Che opportunità, penserebbe chiunque. Ma io non credo sia una grande opportunità se lo fai tre-quattro volte l’anno. Ti sposti continuamente, fai traslochi, spedisci valigie, cerchi case, poi scade il contratto, strategicamente ‘a progetto’ in modo tale che non solo non hai alcun diritto, ma possono licenziarti quando, come e perché vogliono, e ritorni a casa da mamma che per la prima settimana ti cucinerà i tuoi piatti preferiti e ti rassicurerà ricordandoti ‘quanto vali’.
Domani sapremo se questo aumento te lo danno o no. Sapremo se rimarrai a Palermo o andrai a Torino. Sono le ultime ore di agonia, amore mio. 
Domani sapremo cosa fare.



lunedì 21 maggio 2012

ORA MANTENETECI VOI


Palermo, 21 maggio 2012
Il sindaco di Palermo è Leoluca Orlando.
Sono qui perché il contratto di lavoro, a Roma, era scaduto. Ho cercato per un po’ un’altra occupazione, dopo quattro anni nella capitale. Non ho trovato nulla e, dopo anni di indipendenza, sono tornata nella mia città. Mi sono detta che se dovevo restarci, dovevo fare in modo che le cose cambiassero.
Vivo di nuovo con i miei genitori, ho un lavoretto per tre mesi e non posso fare progetti. Sono ingabbiata.
Oggi in ufficio è arrivato un signore, mi ha presentato i sui documenti per la dichiarazione dei redditi. Mi ha detto: -Io ho due figli. Sono tutti e due a carico mio. Uno è laureato in architettura ormai da quattro anni e l’altra in pedagogia. 
Lo sa che le hanno detto? Che la priorità, nel centro dove voleva lavorare, ce l’avevano gli ex-detenuti. Ma secondo lei che cosa può imparare un bambino da un ex-detenuto?’
Palermo città di controsensi.
La politica sociale, i piani di inserimento lavorativo, i lavori socialmente utili. Tanto di cappello, rispetto e quant’altro. Ma il problema è un altro. A Londra, per esempio, per strada non ci sono barboni, eppure è una metropoli che conta più di sette milioni di abitanti. A Londra i barboni al massimo distribuiscono i giornali per strada e vengono pagati dal governo inglese. Ma Londra è una città evoluta, funzionante, efficiente sotto tutti gli aspetti. Londra è una città servita, con un altissimo livello di civiltà e vivibilità. Anche a Berlino ci sono pochissime persone che vivono per strada e la via del barbonaggio sembra più una scelta che una condizione irreversibile. 
Mi chiedevo come mai. Mi chiedevo perché a Palermo, che non è nemmeno lontanamente paragonabile a due capitali europee della portata di Londra e Berlino, non capiamo che prima di partire dagli indigenti o dagli ex detenuti, dobbiamo pensare a salvare l’altra parte della città, quella più giovane, quella più fresca e infelice. Va bene la politica sociale, ma prima devi fare i conti con noi. Noi che prima non eravamo così tanti. 
Mi chiedevo perché siamo costretti, da anni ormai, a cambiare città, paese. Mi chiedevo perché il signore di oggi deve rimanere povero, solo e senza i suoi figli. Mi chiedevo perché dovesse rinunciare a vederli e magari morire senza avere la soddisfazione di vederli lavorare, di condividere gli stessi luoghi e lo stesso mare dopo aver investito tanto sulla loro educazione e istruzione. 
Mi chiedevo: perché lasciare scappare proprio noi? 
Il senso della vita, un tempo, era legato unicamente al lavoro. A quel lavoro che ti dava il pane, a quel lavoro che ti permetteva di costruirti una famiglia, sfamare tua moglie e i tuoi figli, di avere una casa. Il senso della felicità era legato alla realizzazione, e il concetto di realizzazione era legato profondamente al lavoro, che ti dava la vita. Adesso non si lavora più, lavoro non ce n’è più, ci scanniamo per un lavoro in un call center dopo aver passato anni dietro una scrivania a studiare. 
Il lavoro non c’è, e se c’è, è un lavoro provvisorio, un lavoro che ti tiene appeso a un filo, un lavoro che non ti lascia vivere sereno, un lavoro che non ti permetterà mai di programmare la tua vita, costruirti una famiglia o tantomeno di comprarti una casa. 
Il lavoro non c’è e col lavoro se n’è andato anche il senso della vita. 
Siamo forti noi, siamo resistenti, elastici, flessibili, incredibilmente pazienti e, ahimè, accondiscendenti. Siamo bravi a stringere i denti e vedere lontano quando lontano non si vede assolutamente nulla. 
Io ci voglio provare a vivere qui, io voglio una città in cui poter restare, in cui prima degli ex detenuti si pensi a rivalutare i luoghi, rivalutare la scuola, l’insegnamento, in cui si rivaluti il centro storico, in cui non esistano i parcheggiatori abusivi, in cui non ci siano macchine in seconda fila,in cui i giovani non abbiano paura di aprire un’attività, in cui il pizzo non esista, in cui interpellino noi, noi che abbiamo le idee, noi che sappiamo cosa fare. Voglio che non si ragioni per parentele, che Palermo diventi una cosa pubblica. Noi vorremmo semplicemente restare. 
Trovate i soldi per mantenerci qui e noi lavoreremo sodo.

venerdì 6 aprile 2012

Pereira mon amour


C’era un caldo afoso e la luce sbiadita del sole di agosto, il sudore che appesantiva l’aria. Un bar, un ventilatore e un bicchiere di limonata. Un uomo grasso, svogliato e riflessivo. Gentile, un po’ goffo e dall’aspetto infelice. 
antonio tabucchi mortoCredo che sia veramente difficile descrivere un personaggio come ha fatto Tabucchi. Quando ho finito di leggere Sostiene Pereira mi sono sentita un po’ più sola. Quell’uomo solo e metodico credo mi accompagnerà sempre.
Preciso,  costante, routinario. Il suo mondo è fatto solo di ricordi che riaffiorano ad ogni pasto. I dispiaceri affogati in frittate alle erbe aromatiche e un caldo alleviato da un ventilatore mal funzionante, al bar di Manuel. Dietro il bar, la dittatura, la violenza e la censura. 
Pereira non prende posizione, non si oppone al regime. Ma quando conosce Monteiro Rossi, giovane politicamente attivo e ricercato dalla polizia, inizia a muoversi, a mettersi in gioco. Pian piano il ritratto di sua moglie e la diffidenza riservata di solito alla gente vengono accantonate, le voci del passato messe a tacere e le riflessioni sulla morte diventano riflessioni sulla vita.
Prima seduto, a sorseggiare limone acqua e zucchero, un momento dopo a versare il tutto per terra, per scrivere e poi scollarsi finalmente dalla sedia. Infine partire.
Grazie Pereira, per aver dato il coraggio anche a me.


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venerdì 30 marzo 2012

Carver, 'Una cosa piccola ma buona'

Una cosa piccola ma buona è il titolo di un racconto capolavoro di Carver. 
Ecco il  LINK dove trovate la versione inserita in Cattedrale. Leggetelo.

Ann ordina una torta di compleanno per il figlio. Si reca al centro commerciale, si presenta al pasticciere, sceglie la torta e chiede di ritirarla di lunedì pomeriggio. Il figlio, il lunedì mattina, va a scuola, passeggia con il suo compagno, attraversa la strada e viene investito. Investito da un automobilista che scappa e non si ferma nemmeno. 
Il racconto è incentrato sull'attesa dei genitori del bambino in ospedale. I genitori tornano a casa a giorni alterni solo per fare una doccia. In questi brevi intervalli trascorsi a casa ricevono delle strane telefonate, di notte, chiamate mute, solo 'vi siete scordati di Scotty', il nome del figlio.
Il figlio muore, i genitori tornano a casa. Ancora chiamate, ancora il nome del figlio, ancora qualcuno che riattacca. Ann, la madre, si ricorda della torta e capisce che le telefonate sono del pasticciere. Infuriata, si reca con il marito al centro commerciale, nonostante sia mezzanotte. Ha intenzione di picchiarlo, di sfogare la sua rabbia su di lui. Il pasticciere fa entrare i due ma sussulta non appena riconosce Ann. Lei gli urla contro, lo insulta. Poi scoppia in lacrime e dice che il figlio è morto, quindi può smettere anche di torturarli con le chiamate notturne. Il pasticciere chiude gli occhi, si toglie il grembiule e prende due sedie. Li prega di accomodarsi, li guarda con commozione. 
I due si siedono, con lo sguardo perso nel vuoto, ormai sfiancanti e sgonfi di rabbia, in preda ad un dolore che li aveva lasciati digiuni per giorni. Il pasticciere li prega di mangiare qualcosa, delle paste calde appena sfornate, una tazza di caffè con un po' di panna montata. Dice: 'dovete mangiare per andare avanti. Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo'. I genitori iniziano a mangiare tutto quello che c'è.

Tutto qui. Incredibilmente semplice, privo di una trama articolata, privo di ambientazioni di spessore. Semplicemente piccole cose, piccoli sforzi, piccoli gesti di umanità. 
Carver ha cambiato il modo di scrivere perché scava nei pensieri dei personaggi pur non facendoli esprimere direttamente. Un dettaglio, un colore, un posacenere pieno di cicche o una sala d'attesa di un ospedale diventano modi non solo per descrivere luoghi ma per indicarci tutto il mondo che sta dietro. Ciò che è importante nei suoi racconti è l'immaginazione, il fuori campo, il non detto eppure sottinteso, un po' quello che faceva Hitchcock con il sonoro nei suoi film, lasciando intuire cosa accadeva fuori dalla scena. 
Così, attraverso pochissime azioni e tantissimi dettagli che le costruiscono, il lettore può più che mai cogliere lo stato d'animo dei personaggi, respirando la loro stessa angoscia. 
Leggere Carver è seguire i personaggi nei luoghi in cui si trovano, è vedere le cose alla stessa maniera dei protagonisti, studiare insieme a loro il modo per risolvere i problemi. Per questo un vassoio di paste calde, che può sembrare una magra consolazione, ha per noi un valore enorme, e ci sentiamo risollevati quando il pasticciere prende due sedie per far accomodare i due. Per questo, attraverso un gesto piccolo ma buono, possiamo dormire più tranquilli anche noi, dopo una notte trascorsa in pasticceria, dopo aver pianto le lacrime di una perdita così grande. Si spera quasi che i tre rimangano insieme, facendosi compagnia a vicenda.

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