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mercoledì 11 novembre 2020

Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale


Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale, a Torino, in zona rossa, dove non si poteva uscire e nemmeno entrare. Ero circondata da pareti, nessuna presa d’aria e una coda umana appoggiata alla porta automatica chiusa a chiave e aperta a singhiozzo, a centellinare esseri umani per vedere chi e cosa avevano da maledire questa volta, ad ascoltare il lamento e il dolore di tutti, imitarne per empatia i silenzi e le urla. 

Ero nel mio gabbiotto a  rispondere alle domande dei clienti, immobile sulla sedia a guardare uno spettacolo di disumanità e tristezza, persone invalide, donne incinte e anziani aggrediti perché saltavano la fila. Iniziava così il lockdown, con una rabbia generale che si sfogava contro i pensionati. Iniziava con l’odio per l’altro, perché c’erano le file da fare per comprare il pane, le medicine e le sigarette, c’era la disoccupazione, la cassa integrazione che non arrivava dall’INPS, l’affitto  e il mutuo da pagare, le tasse, l’asilo, la macchina, lo SPID, moduli da compilare online, codici e PIN.

I bar erano chiusi, come anche le palestre, i cinema, i teatri e gli stadi, il coprifuoco iniziava alle 22 ed era proibito ogni  contatto fisico non strettamente necessario. Iniziava con la paura, con il senso di colpa per essere andati a trovare i genitori o aver preso un caffè con un amico. Il lockdown iniziava con l’odio per l’altro, continuava con il senso di colpa.

Proseguiva con la malattia, il lutto. Le distanze enormi e un medico che chiamava una volta al giorno per informare i parenti sullo stato del paziente. Negata la possibilità di parlarci, di salutarlo, di avvicinarsi per una carezza, negati i funerali.  Niente di più difficile da sopportare, separati per sempre col cuore strozzato, senza un colpevole da prendere a pugni. 

Bambini robot che si lavavano le mani in continuazione, che a due anni urlavano 'lockdown!' dal balcone , che quando suonava il citofono si spaventavano e che non capivano perché per mesi non potessero vedere i nonni. Bambini che crescevano con traumi terribili, i cui genitori litigavano perché i papà li portavano a casa dei compagni di classe per giocare, all’insaputa delle mamme che diventavano isteriche e paranoiche quando lo scoprivano. 

Fiumi di antidepressivi e ansiolitici in gocce prescritti dai medici di base, incubi notturni, ansia diffusa e da limbo, come la chiamavano.

Aziende che non facevano i tamponi ai dipendenti, che ignoravano i positivi per paura di chiudere e fare meno profitti, liberi professionisti che inveivano contro i dipendenti pubblici, dipendenti pubblici che inveivano contro gli utenti, giovani che inveivano contro anziani, ricchi contro poveri che percepivano il reddito di cittadinanza. Queste erano solo alcune delle conseguenze della risonanza mediatica che aveva avuto la pandemia, letale per i sani prima ancora che per i malati. 

Nessuno spazio per liberarsi dalla paura, nessun luogo. Non solo non bastavano gli infermieri e i medici per curare i malati, ma nemmeno le forze dell’ordine e i vigili del fuoco per sedare rivolte, risse e fermare atti di suicidio.

Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale e vedevo i carabinieri a giorni alterni dal mio gabbiotto. Di fronte alle persone esasperate che urlavano perché avevano perso tutto,  le forze dell’ordine mostravano un atteggiamento comprensivo, avevano gli occhi lucidi e sorvolavano anche su fatti sui quali qualche tempo prima avrebbero sicuramente fatto rapporto. Io vedevo esplodere gente per nulla, vedevo micce dappertutto, vedevo paura e rabbia dappertutto.

Avevamo perso il contatto con la vita e la morte, avevamo perso non solo quelle poche vere consolazioni della vita ma anche le poche vere consolazione della morte.

Forse avevamo sbagliato tutto.

lunedì 22 febbraio 2016

Fin de siècle

Sono in quattro milioni e mezzo fuori dall’Italia, la seconda diaspora al mondo dopo quella cinese, a quanto pare. Sono tutti più o meno felici, a dispetto di quello che succedeva nel XIX secolo, più o meno soli e parlano perlopiù inglese. Se ne sono andati alla fine dell’Ottocento e poi ancora nel Novecento e poi ancora adesso, tutti fuorisede con il medico provvisorio e le pareti tappezzate di foto e le tariffe economiche migliori per chiamare il proprio paese, gli scatoloni spediti per posta, i discount, uno o due libri, un vagone di medicine e l’apparecchio per l’aerosol, tutti numeri italiani sul cellulare e una vita fatta di sveglia, lavoro, kebab e letto. Dobbiamo lavorare, dobbiamo guadagnarcelo il futuro, così, facendo almeno qualche sacrificio. Cambiano le geografie sentimentali e dopo un po’ abbiamo la certezza che alcune persone meritavano più tempo, che è un peccato lasciar tutto così, lasciar perdere, rapporti a distanza, skype e stronzate varie, amori che sono ombre, senza corpo. E quando ci ritroviamo siamo già diventati altro, possibilmente siamo diventati nebbia, rabbia, aridi e così abituati alla solitudine da non riuscire nemmeno a sorridere.
Ce ne andiamo in massa e invadiamo gli altri paesi ma non accettiamo che nessuno venga a romperci il cazzo a casa nostra. Siamo razzisti, siamo un paese di stronzi, non vogliamo nessuno e rispediamo in Libia gli immigrati eritrei ed etiopi. Lo faceva il nostro vecchio Presidente del Consiglio nel 2010. Non aveva capito nulla evidentemente perché adesso gli immigrati arrivano da tutte le parti e questo vuol dire solo che è tempo di accoglierli e rispettare i patti. L’Europa si sfalda e si scanna e mentre si scanna e non rispetta gli accordi la gente muore e annega, Sicilia e Africa sono collegate da un ponte fatto da una miriade di cadaveri africani che non ce l’hanno fatta ad arrivare sani e salvi a casa nostra.
Dagmawi dice che una delle poche cose che ricorda sono quei sette secondi, gli unici che non dimenticherà mai, di quando è sbarcato in Italia e la sua intervista è andata in tv. Il resto l’ha rimosso. E noi abbiamo guardato la fine del secolo compressa in un piccolo schermo e non ci è sembrata un’opportunità, piuttosto una condanna. Non ci è sembrata un’opportunità quella di impedire il collasso dell’Europa grazie agli emigranti. Da noi figli non ce ne sono più, tutti morti, vittime della crisi, della disoccupazione, del malgoverno e del nostro egoismo. Solo loro possono garantire i livelli attuali di produzione e welfare e, quando a metà del secolo ci sarà meno forza lavoro, saranno loro a sputarci in faccia e a guardarci dall’alto in basso. Pensa ai siriani e alla Germania che ne accoglierà 500.000 nei prossimi anni. I siriani sono quasi tutti professionisti, medici o professori o imprenditori e mirano al ricongiungimento del nucleo familiare, non accettano l’idea di vivere lontani dai loro padri e dalle loro madri, presto diventeranno tedeschi, e allora sì che la Germania sarà un paese di ferro.
Il signor Giovanni il pesce non lo mangia più da qualche anno, dice che i nostri mari ormai sono inquinati, sono imbrattati da quei corpi che annegano, i corpi dei negretti che sporcano e inquinano. Il pesce non è più buono, dice. E mentre lo dice centinaia di negretti affollano il mio ufficio e sono a un palmo di naso da lui che li disprezza e dice che prima Torino non era così, era diversa, è cambiata in peggio. Lo dice con la faccia disgustata e io lo guardo, lo osservo attentamente e non dico nulla, sto zitta. La signora Anna invece dice che per lei il cambiamento è fondamentale, restare fermi è pericoloso.
E il cambiamento è una nuova Europa di immigrati, in cui le culture si mescolano e la paura viene esorcizzata, in cui finalmente non ci saranno più alieni e l’integrazione sarà la normalità.


Nell’Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non hanno il senso della proprietà.
E su quest’ultima cosa avevano ragione, perché come può un uomo senza proprietà conoscere l’ansia della proprietà? E i difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli?
Gli indigeni si suggestionarono fino a crearsi una corazza di crudeltà. Formarono drappelli, squadre, e li armarono: li armarono di manici di piccone, di fucili, di gas. Il paese è nostro, non possiamo lasciare che questi Okie facciano i loro comodi. [...]
Le grosse imprese non capivano che il confine tra fame e rabbia è un confine sottile. E i soldi che potevano servire per le paghe servivano per fucili e gas, per spie e liste nere, per addestrare e reprimere. Sulle grandi arterie gli uomini sciamavano come formiche, in cerca di lavoro, in cerca di cibo. E la rabbia cominciò a fermentare.

Furore, J. Steinbeck







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