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mercoledì 13 marzo 2013

Palermo, città di 'straregnati'



"Mia figlia è stata scaltra! Dopo il diploma ha fatto le valigie e se n'è andata. Fuori però! ”. 
Questa frase me la disse Giuseppe, un signore palermitano che era venuto al Centro di assistenza fiscale al Borgo vecchio. Stavo compilando il suo 730 e gli chiesi se aveva figli a carico. Domande di routine, in quel luogo, diventavano motivo di dissertazione approfondita su vari temi. Primo tra tutti il lavoro.



Quell’uomo, così ingenuo nel modo di esprimersi, mi aveva fatto riflettere. Parlava della figlia come una figura lontana nel tempo e nello spazio, come un frutto lasciato a maturare fuori dal frigo anche se in frigo non c’è nulla da mangiare. Una figlia che era diventata l’orgoglio della famiglia, che aveva deciso di emigrare da Palermo per aiutare economicamente i suoi genitori. Mi era venuto in mente un racconto di Sciascia che avevo letto qualche mese prima, un racconto intitolato ‘L’esame’ e inserito nella raccolta di racconti Il mare colore del vino, pubblicata per la prima volta nel 1973. La vita di Giuseppe aveva gli stessi ingredienti del racconto di Sciascia, la delusione, la rabbia, la rassegnazione, l’impotenza. 
Palermo che vomita ventenni e trentenni al nord o all’estero perché di loro non ha bisogno, la fatica dei genitori nell’accettare e supportare la scelta, la morte dei legami amorosi o la difficoltà nel tenerli in vita, l’inserimento nel tessuto sociale del nuovo territorio e la scoperta, volenti o nolenti, di nuove realtà. 

Se dovessi identificare Palermo con un luogo, sceglierei l’aeroporto. È in aeroporto che la simbolica generazione di una crisi senza tempo si concentra e si saluta, si bacia, si anima in abbracci in partenza e in arrivo, è in aeroporto che si sente prima di tutto la nostalgia della propria terra, della propria città. Ultima boccata d’aria, si respira il mare a pieni polmoni, ultimo cannolo, e poi si parte. 

Il racconto di Sciascia parla di emigrazione, nel senso più contemporaneo del termine. Uno svizzero si reca in Sicilia per reclutare manodopera femminile per una fabbrica di prodotti elettrici. Si chiama Blaser ed è un uomo indifferente a tutto. Sciascia lo definisce ‘il soffiatore’ perché sbuffa di continuo, annoiato dalle parole del suo sicilianissimo autista, considerato semplicemente un pezzo dell’auto, che dispensa consigli sul reclutamento delle ragazze e mette una buona parola sull’una o sull’altra, in base alle richieste ricevute dai membri dei paesini siciliani visitati. Un giorno Blaser ed il suo autista si recano in un paesino dell’entroterra di cui Sciascia non fa il nome. Il paesino di V. è un paese di mafia. All’autista si avvicina un giovane timido e impacciato, chiedendogli un favore. L’autista è visibilmente nervoso. La fidanzata del giovane deve sostenere l’esame per il reclutamento in fabbrica ma lui non vuole che parta. La ama, e vorrebbe sposarla, ma non ha un lavoro e quindi non può permettersi di chiederne la mano ai genitori. Prega l’autista di convincere Blaser a non sceglierla. Rosalia Calaciura deve restare in paese.
L’autista cerca di spiegare al giovane che non sarà lui a decidere ma, data l’insistenza del ragazzo, dice che farà il possibile perché non venga scelta da Blaser. 

“Sa cos’è la mafia?”chiede l’autista a Blaser.
“Me ne infischio” risponde il signor Blaser. 
“Rifletti prima di dire me ne infischio. Tra l’infischiarsene e il non infiaschiarsene c’è la differenza tra il morire e il campare”.
Aveva spiegato la situazione al signor Blaser e l’aveva pregato di non scegliere l’unica candidata intoccabile, Rosalia Calaciura, per non dar dispiacere al ragazzo.

La selezione si svolge all’interno di una chiesa, in presenza dei parenti delle ragazze e dell’arciprete.
La paura di andar via, nel racconto di Sciascia, come nella realtà, è dettata dalla difficoltà incontrata per ambientarsi in un altro luogo. Il siciliano ha un legame viscerale con la sua terra e quello che dovrebbe essere un diritto, ovvero poter scegliere di rimanere, si converte in un dovere, una partenza forzata, svuotata di affetti e luoghi e popolata di facce nordiche tristi e bianche, di volti vuoti e gelidi. 
Come dire che il siciliano ha una sola madre e fa di tutto per restarvi accanto. 
La storia di Blaser e Rosalia Calaciura mi ha fatto pensare al signor Giuseppe, mi ha risvegliato il ricordo a mosaico del suo volto: occhi fuori dalle orbite, labbra spalancate, denti marci e voce ossessiva, mi ha riportato al ricordo di sua figlia costretta a partire, al ricordo della sua pena, del suo dolore, del rammarico per non aver avuto la possibilità economica di farla rimanere accanto a lui.
Rosalia Calaciura ama il suo ragazzo, eppure, per aiutare economicamente la sua famiglia, è costretta a partire. Vuole partire e farsi una dote, per poi tornare e sposarsi. La madre di Rosalia dice all’arciprete che il suo fidanzato è un disoccupato, un perdigiorno, ma la ragazza obietta che non è un perdigiorno, semplicemente non trova lavoro. La madre convince Blaser a portare in Svizzera la figlia, per ricevere quei quattro soldi che lei le manderà. 
Il ragazzo dovrà lasciar perdere, dovrà lasciarla andare.
“Se davvero tu le vuoi bene, lasciala andare... Tornerà, è una ragazza tenace, tornerà... E vi sposerete.
“Se io trovassi lavoro...” disse il giovane.
“Lo troverai. Con tutta la gente che se ne va, il lavoro a chi resta non dovrebbe mancare”
“Il problema è  che più gente se ne va, più il paese diventa povero [...] Non è come quando si sta seduti in molti su una panca, stretti, stretti, pigiati: che uno si alza e gli altri tirano respiro e si mettono più comodi... Qui nessuno è seduto: e chi se ne va, gli altri nemmeno se ne accorgono; o si accorgono solo che il paese si va facendo vuoto”. 

Non si lotta per il lavoro in Sicilia. Sulla panca sono seduti in pochi, tutti gli altri sono in piedi, senza un lavoro. Si lotta per restare, in Sicilia. Si lotta per il diritto di rimanere in quella piazza, anche in piedi. Chi va via, lo fa sempre per necessità, qui da noi. E Palermo, durante l’anno, si riempie di persone che provengono dai paesi e di studenti universitari, ma si svuota dei suoi cittadini autoctoni, e li riversa per il mondo. 
Le mamme palermitane, al telefono, affrontano discorsi che suonano pieni di emozione:
“Tua figlia è tornata?”
“Sì, finalmente”.
“Anche mio figlio è tornato”.
Torniamo tutti, con un mare di storie da raccontare.
E anche noi, come il personaggio descritto da Sciascia, ci troviamo a fare conversazioni come queste:
[...] “Ma perché non te ne vai in Svizzera anche tu? In Svizzera, in Germania... La Germania è a due passi dalla Svizzera”.
“Ci sono già stato in Germania, per tre mesi. Ma io dico: l’uomo non è un cane... Può starsene straregnato, in un paese non suo, a soffrire perché tutto questo gli manca” accennò alla chiesa, alla piazza intorno, al cielo che si struggeva nell’oro del tramonto “ma il diritto non deve levarglielo nessuno [...] Io voglio dire il diritto di essere [...] qui, che io e lei siamo uguali, e parliamo... Con loro invece è diverso: non ci vedono, ecco, non ci vedono”.
Essere straregnati, ovvero non poter ritornare nel proprio regno. Non poter tornare quando si vuole, non poter godere del proprio paese e della propria città. Ed essere invisibili. Non ci vedono, dice il ragazzo. E non essere visti è una cosa terribile, è come non esistere.
Questo essere straregnati e questo sentirsi invisibili è ancora vero, è una sensazione antica che Sciascia conosceva almeno quanto la conosciamo noi.


'E vissero infelici perché costava meno'


Hanno licenziato tutti i tuoi colleghi. Ho il magone da quando l’ho saputo. Tu hai paura. Ti è venuta la febbre per il dispiacere. Ti sei ammalato e per tre giorni non sei andato a lavoro. Non avevi mai fatto un’assenza, ma avevi paura che avrebbero licenziato anche te. La mattina, ancora sotto le coperte, con le gote rosse e la fronte bollente, mi hai chiesto: «Ma secondo te devo andarci a lavoro?». «Certo che no, hai la febbre alta».
Tu allora hai detto: «E se mi licenziano?»
Non sono riuscita a rassicurarti perché non capisco cosa stia succedendo. Una guerra. Eravate cinque e ne è rimasto uno, a guardarsi le spalle, studiare ogni singolo movimento, temere per il proprio futuro, farsi domande.

Li hanno licenziati perché non c’era abbastanza lavoro e non servivano più. Così, senza preavviso. Mi dispiace tanto per quel tuo collega coreano, ha due lauree, è in gamba. Ha due figli piccoli e una moglie da mantenere. Mi dispiace anche per quello più giovane. Lui ama il suo lavoro, ma presto comincerà ad odiarlo. Mi dispiace per l’altro ancora, quello che per lunghi periodi soffre di depressione e per tre giorni al mese rischia di farsi venire un infarto perché deve completare un lavoro commissionato il giorno prima.
Mi dispiace per tutti, a dire il vero.
Sei tornato a lavoro ed eri solo, non c’era più nessuno accanto a te. In otto ore non un sorriso, non una parola o una battuta. A ora di pranzo hai comprato un panino e l’hai mangiato davanti al computer. Non c’era nemmeno il tuo capo. 
«Non possono licenziarmi - hai detto - sono io che mando avanti questo studio, sono io che lavoro. Se me ne vado come fanno?»
«Ne trovano un altro», ti ho risposto.

Non ci hai creduto. Hai detto che era impossibile. Quando sei stato assunto ti hanno detto che, scaduto il contratto, ti avrebbero dato un aumento. Il contratto sta per scadere, mancano pochi giorni, ma non ci riesci a chiedere l’aumento, non ce la fai, non ti sembra il caso né il momento. Hai paura. Però dici che non puoi vivere con questo stipendio. Dici che non vuoi solo sopravvivere ma vivere pienamente la tua vita. Dici che è sempre stata tutta una prova generale, che lavori da quattro anni e ti trattano sempre peggio. Dici che vuoi andare via da questo Paese, che ti fa schifo, che a Palermo a Roma o a Torino è uguale, una vita di soli sacrifici, una vita di discount, di monolocali senza forno, senza freezer, una vita di bollette e di ansia. Dici che non abbiamo futuro.

«Ci pensi che non avremo mai un futuro? Ci pensi che vivremo sempre sulla soglia della povertà?
«Non è vero»
«Sì che è vero. Io gli chiedo l’aumento»
«E se non te lo concede, l’aumento?»
«Ma erano questi i patti»
«E se non li rispetta?»
«Me ne vado»
«E che fai dopo?»
«Non lo so, ma io ho una dignità. Non posso farmi sfruttare sempre» 
«Tu hai ragione, ma non so se troverai un altro lavoro, adesso. E se lo trovi devi ricominciare da zero. Periodo di prova, quattrocento euro, straordinari non pagati, poi seicento e poi, finita la prova, scaduto il contratto a progetto, ne prendono uno nuovo perché non possono permettersi di darti un aumento».
«È proprio questo il problema. Continuano a offrirci stipendi da fame e noi accettiamo sempre. Se rifiutassimo queste condizioni, sarebbero costretti a pagarci di più. Non capisco perché anche i migliori in questo paese non riescono. Ci siamo accontentati un po’ troppo. Noi dovremmo rifiutarci tutti. In questo paese le aziende riescono a mantenersi perché noi siamo a costo zero!»

Hai chiamato i tuoi amici, tua madre, tuo padre. Hai chiesto a loro. Alcuni ti dicono di aprire la partita Iva che per ora non costa nulla, altri di tornare a Palermo, altri di restare e chiedere l’aumento. Altri ancora ti dicono di aspettare. Io non so veramente cosa consigliarti. So solo che non vorrei cambiare di nuovo città. Vorrei stabilità, vorrei equilibrio. Invece adesso la nostra serenità dura solo il periodo di un contratto a progetto
«Quando penso al nostro futuro sai cosa mi viene in mente?, mi hai detto»
«Cosa?»
«Quella frase di Leo Longanesi: E vissero infelici perché costava meno».



Non avere più voglia di inviare il curriculim

 La città, disperazione organizzata, muoveva membra, articolava parole, accoglieva alcuni come un grembo, altri li sputava fuori, come semi d’uva. (Wu Ming, Previsioni del tempo)

-Ritorneremo nella nostra città? 

-Non lo so, ma sarebbe bello avere la possibilità di tornare a farne parte. A Palermo ci siamo nati ma a Palermo non contiamo niente. 

La sensazione che abbiamo è quella di vivere in un luogo gestito solo da altri, mai da noi. 

L’asfalto è liscio qui. Si scivola, in questa città. E noi siamo come tanti incidentati che negli anni hanno imparato a mantenere l’equilibrio. 

*

Da un po’ di tempo a questa parte, ci siamo stancati anche di inviare il curriculum. In questi ultimi mesi, è mia zia che mi sostituisce nella ricerca di nuovi stimoli e nuove realtà lavorative, è lei che cerca nuovi 'indirizzi' per conto mio. Puntualmente, mi invia dei messaggi pieni di nomi e indirizzi di posta elettronica. Allora, dato che non devo fare alcuno sforzo, faccio un copia incolla della mia lettera di presentazione alle aziende, scrivo due righe e tac!, invio. 

In tanti si sono stancati. E credo che nessuno possa fargliene una colpa. Nel profondo, penso che noi tutti della generazione precaria, nutriamo un forte desiderio di rivalsa, una voglia implacabile di prenderci ciò che ci spetta, un bisogno legittimo di contare qualcosa. Non è auto-indulgenza, ma solo la rivendicazione di un diritto, un forte impulso a non reprimere la sete di ambizione, lavoro, riconoscimento professionale e autostima. Quest'ultima, poi, cade a pezzi di questi tempi. Non avere più voglia di inviare un curriculum è l'ultimo stadio di questa ricerca ossessiva di lavoro alla quale siamo dediti quotidianamente.

Non diamo la colpa a nessuno, noi. Lo sappiamo che aziende non possono permettersi assunzioni e che, a dirla tutta, stanno lottando per non licenziare il personale interno. Ma potrebbero almeno rispondere alle e-mail. Se nessuno risponde non sapremo mai se e come dobbiamo migliorarci, quali sono i requisiti che dobbiamo possedere per ottenere quel lavoro. Non sapremo mai cosa dobbiamo fare. Abbiamo forse sprecato tempo. Un mare di tempo a scrivere, un mare di tempo a iscriverci a siti e agenzie interinali, un mare di tempo a memorizzare password per accedere a questi siti.

*

Ritorneremo nella nostra città? Non lo so. E quando mi poni questa domanda mi viene in mente un film visto tempo fa, un film di Antonioni del 1960, "L’Avventura", ambientato in Sicilia. Mi ricordo della sensazione che ho provato dopo averlo visto, ricordo perfettamente la descrizione, da parte di un grande regista, di una terra che non era "sua". Antonioni l’aveva descritta come una terra chiusa, ostile agli stranieri, ai turisti, una terra gelosa di sé stessa, una terra in cui è facile perdersi. E forse aveva ragione. In Sicilia non li vogliamo i turisti, non li abbiamo mai voluti qui i turisti. Questa terra è nostra, e ne siamo gelosi. Qui la gente vuole restare così com’è, vuole continuare ad occuparsi della madre, del padre e dell’amore. Noi viviamo di cose essenziali, ed essenziale è il nostro modo di parlare e di esprimerci. La Sicilia è bella perché è circondata per intero dal mare. Lei è bella perché è sola, e soli sono quelli che la abitano




mercoledì 31 ottobre 2012

La generazione dell'OKI


Stamattina ho trovato sul comodino un foglio accartocciato. Era la poesia che aveva scritto mesi fa la mia ex coinquilina, una che si pagava affitto e università a Roma con i suoi bei soldini. Ogni tanto rischiava di morire di fame e per questo meditava sulla possibilità di fare marchette a Termini. Di sera lavorava come cameriera in un ristorante, uno di quei posti in cui non possono fare a meno di te ma ti pagano poco e ti sfruttano troppo. Trovi le sale sempre affollate di gente di un certo calibro come Cristian De Sica, Tonio Cartonio, Paola Cortellesi, Rex il cane (giuro!), Martina Stella. Insomma, è frequentato da personaggi famosi e quindi non puoi fare errori.


Per laurearsi in Editoria e Giornalismo, qualche mese fa, ha scoperto che aveva necessariamente bisogno di fare uno stage non retribuito in una delle aziende convenzionate con la facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza. Durante questi tirocini, ti insegnano tante cose come rispondere al telefono, usare la macchina fotocopiatrice e scrivere e-mail, insomma cose che sapevi fare anche quando eri piccola. E sapete dove lo fa questo tirocinio? In un centro scommesse. Non scherzo, giuro che è la verità. Quest’ultimo lavoro ovviamente lo fa gratuitamente, un po’ perché noi precari abbiamo sviluppato questa passione per il masochismo e un po’ perché non ci lasciano altra scelta.Dicevo che, stamattina, mi è capitata tra le mani questo foglio in cui c’era scritta una poesia ispirata, per così dire, dal maestro Ungaretti con il quale, noi precari, ci troviamo spesso d’accordo, a nostro agio, in perfetta sintonia. La poesia recitava così: Si sta come a Natale sugli alberi di Natale gli addobbi di Natale. "Ungaretti a Natale" sembrava una cosa da ridere eppure, quando io e i miei ex coinquilini ci siamo messi a ridere mentre la leggeva, lei è rimasta seria e ci ha rimproverati. Ha detto: "non c’è proprio niente da ridere".Il vero trauma dei bamboccioni choosy della nostra età è che si sentono inutili perché nessuno ha bisogno di loro. Una ragazza che ha la passione per la scrittura, invece di iniziare a lavorare per il giornale del suo paese o della sua città e ricevere una paga a fine mese, va a lavorare come cassiera in un autogrill. L'unica cosa che la soddisfa è scrivere i suoi versi sulle mattonelle del cesso di quell’autogrill, dove peraltro la sua collega della stessa età - che 'da grande' voleva insegnare - fa le pulizie giornalmente, cancellando quei versi a colpi di Chanteclair.Questa è la generazione dell’OKI, quella che si droga di Novalgina, Aulin e antidolorifici in generale. Ne abbiamo le tasche piene dei dolori, noi. Tutti perduti nel dramma delle medicine, degli psicofarmaci, della disoccupazione.

domenica 18 settembre 2011

Precari & precarietà

Il problema di queste giornate è che non riesco a parlare. Sono muta, non mi esce la voce. Non so perché ma è come se la mia partecipazione, seppur solo vocale, telefonica, a distanza, non avesse il minimo significato.
Muta. E mentre sto muta, e non mi esce nemmeno un filo di fiato, mi accorgo che un tempo non ero così, che prima avevo tanto da dire, e adesso niente. E non so perché. Sono muta da qualche giorno, da qualche mese, da qualche anno, un paio credo. E non sorrido facilmente, non mi viene. Non capisco perché da un giorno all’altro mi ritrovo spaesata e col culo per terra. Eppure mi avevano detto che questo lavoro sarebbe durato poco, qualche mese, sei, sette. Mi avevano anche detto che forse mi tenevano con loro, perché ero brava, certo, e puntuale, e impeccabile. Ma forse ero troppo attenta a non sbagliare, forse ero attenta al lavoro e non troppo a lasciarmi andare. Forse mi ha fottuto quella paura che avevo di restare senza lavoro da un momento all’altro. Cerchi di costruire qualcosa, e lo fai con meticolosità, pazienza e impegno per quasi una anno, ti sforzi per svegliarti presto ogni mattina, per preparare la cena e il pranzo da portare in ufficio il giorno dopo, ti allontani dai tuoi amici ancora studenti perché a volte i loro ritmi e le loro parole ti urtano; esci di meno, stai al buio in un seminterrato durante il giorno perché alla tua collega di stanza dà fastidio la luce perché non vede lo schermo del pc, le lavatrici le fai solo il fine settimana, pulisci la casa che sembra un centro sociale, diventi grande, odiosa, stupida, frivola e cogliona, pensi a cosa devi indossare il giorno dopo, pensi a quello che vorresti fare veramente e non trovi risposte, leggi il giornale online e ti viene voglia di sterminare il genere maschile, ascolti tutti i discorsi più frivoli e più squallidi del mondo, fin dalle otto di mattina, ti dispiaci per le tredicenni troie di questo paese. Mi avete fatta diventare così triste per niente? Adesso sarò triste e disoccupata.
Oggi mi ha consolato una frase della mia amica che dal nulla a tavola ha detto: ‘Non è vero che l’amore finisce. Il nostro non finirà mai’. Più banale e ridicolo di così non si può, ma mi sono commossa lo stesso, senza motivo.

domenica 6 giugno 2010

Scappare in Puglia

In fondo è il tema del momento, quindi parliamone ancora, ancora e ancora.
Ho trovato un articolo molto interessante sul blog di Maksim Cristan, scrittore croato (vedi "Internazionale", rubrica Italieni).

Mi permetto di pubblicare per intero il suo articolo pubblicato su "L'Unità" di maggio.

Le mie considerazioni sono un po' provocatorie. Ma solo un po'.

Andiamocene tutti in Puglia; lì c'è il mare, ci sono i campi, c'è il lavoro e c'è Nichi. Lui (Cristan) è ironico. Ma forse non dovrebbe. Il punto è: forse lavorare la terra, toccarla, stare a contatto con poche persone, senza beni superflui, tutti sotto lo stesso sole, a torso nudo, gli occhi che bruciano, i piedi doloranti, il sudore e sguardi diretti, non divisi da uno schermo, forse sì perchè no, ci farebbe bene. Non ci serve questo lavoro in banca, non ci serve questa ricchezza. Teneteveli voi questi fottutissimi soldi, a me servono acqua, pane, letto, il mare, la terra e soprattutto le persone, da guardare negli occhi e sentire al tatto.





Precario e migrante: «Sapete che vi dico? Io scappo in Puglia»
di Cristan Maksim


Caro Presidente della Repubblica sono una cittadina di questo paese, mi chiamo Igiaba Scego, classe ‘74 e volevo informarla che mi sto arrendendo. Tempo fa Lei ha rincuorato i precari, i disoccupati, i ricercatori senza affiliazione a non gettare la spugna. Ci ha detto «Coraggio non vi arrendete. Non uscite dall’Italia». Purtroppo Signor Presidente io mi sto arrendendo. Faccio parte, e non è una vuota statistica, di una generazione a cui sono state tarpate le ali. Sono una precaria della cultura. Sto diventando una precaria della vita». Il 30 aprile su "l’Unità" la scrittrice Igiaba Scego ha scritto una lettera a Napolitano. Il presidente l’ha ricevuta pochi giorni dopo al Quirinale. Ne è seguito un lungo e appassionante dibattito. Quella che segue è il messaggio che lo scrittore croato Maksim Cristan ha inviato a Igiaba.

Tutti noi intellettuali precari, immigrati e non, abbiamo letto con molta attenzione la lettera aperta della nostra collega Igiaba Scego al Presidente Napolitano, dove gli chiede aiuto per tutti. Il presidente è buono e ha invitato Igiaba ad incontrarlo. Lei gli ha detto: Faccia il garante per noi affinché questo tema (che poi sono due: 1. Immigrazione e 2. fuga dei cervelli) non esca dall’agenda politica.

Personalmente ho conosciuto molti esuli culturali a Berlino, arrivati lì perché dopo aver perso la fiducia nel futuro in Italia. Ho conosciuto anche alcuni giovani bresciani, che quando nella loro città il sindaco offriva 500 euro per ogni immigrato regolare che decideva di tornare nel suo paese, dissero: magari dessero anche noi 500 euro per andarcene. Igiaba, mi chiedo come diavolo ti è venuto in mente di importunare il Presidente.

Se volevi davvero risolvere qualcosa, avresti dovuto scrivere, appunto, al Presidente del Governo. Hai già dimenticato come Egli accolse a braccia aperte la richiesta di quella ragazza, che quando lamentò la propria precarietà, il Premier le disse: «Signorina, lei è carina, sposi uno dei miei figli e ha risolto tutti i problemi». E tu, Igi, sei certamente ancor più carina di quella ragazza.
Ah già, dimenticavo che, tu, anche se italiana, sei nera come il carbone e visto che il premier non vuole un’Italia multietnica, probabilmente non ti vorrebbe a tavola in famiglia e magari finirebbe per proporti a uno dei figli del suo amico colonnello Ghedaffi.

È un casino Igi, lo ammetto, e anche se io ti voglio tanto bene, non posso nemmeno dirti sposa me! Dato che sono messo peggio di te. Che fare? Se il signor Vitor fosse ancora vivo, conoscendolo, probabilmente ci direbbe: «Ma andatevene tutti fuori dai coglioni in Puglia a pretendere una vita dignitosa per i vostri scarabocchi e i vostri volontarismi per le razze inferiori! Che lì il governatore comunista costruisce gli alberghi gratuiti pure per gli immigrati braccianti!»
Però, ridendo scherzando, potrebbe essere un’idea per noi Igi. E anche se la politica di Nichi al resto d’Italia sembra Marte, per ora sempre l’Italia è. Che fai, vieni anche tu?

26 maggio 2010

mercoledì 2 giugno 2010

«E cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?»

«Le promesse di impegno non hanno senso nel lungo periodo [...]. Come ogni altro tipo di investimento, hanno alti e bassi. E così, se desiderate instaurare relazioni, mantenete le dovute distanze; se volete che il vostro stare insieme sia appagante, non offrite o chiedete impegno. Lasciate sempre tutte le porte aperte.
I residenti di Leonia, una delle Città invisibili di Calvino, direbbero, se interrogati al riguardo, che la loro passione è ‘il godere delle cose nuove e diverse’. Infatti, ogni mattina la popolazione ‘indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dell’ultimo modello di apparecchio’. Ma ogni mattina ‘i resti della Leonia di ieri aspettano il carro della spazzaturaio’, tanto che vien da chiedersi se la vera passione dei leoniani non sia invece ‘l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità’».

Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, 2004.


La facilità e la comodità del disimpegno, penso.
Ogni volta che leggo Bauman mi viene voglia di piangere. Questo sociologo ha ottantacinque anni e un sacco di cose da insegnare.
Parla della rete e di come questa abbia trasformato i rapporti interpersonali. Ma questa è una storia vecchia e ormai esistono intere biblioteche su questo tema. Si sa che il termine ‘rete’ indica un contesto nel quale è facile entrare e facile uscire. E citando Vasco Brondi mi viene in mente una frase che dice «con me non devi essere niente». Non ti chiedo nulla, e tu, per favore, fai lo stesso.
Oltre alle ‘relazioni virtuali’, sempre più diffuse e inquietanti, c’è un altro aspetto che ha modificato enormemente i rapporti tra gli esseri umani. Si chiama precariato.
L’incertezza esistenziale ci ha resi oltre che umanamente deboli, incapaci di prendere decisioni in cui si includa l’altro. Direbbe Bauman che ci siamo «individualizzati» e dunque ognuno pensa per sé. Vogliamo tanta gente attorno, vogliamo tanti amici, tanti, troppi forse. Cento, duecento.

I rapporti sociali sembrano funzionare meglio da quando esiste Facebook. 180 milioni di individui che hanno consegnato le proprie esistenze ad un social network, che magari è solo una trovata per fotterci tutti, ridurci a cavie e studiare i nostri profili. Un enorme esperimento di marketing di cui non ci accorgiamo nemmeno.
Continuiamo ad esporci, esibirci, tutti in una grande vetrina per poi tirarci indietro e sentire l’angoscia del contatto vero, quello con persone che incontriamo corpo a corpo.
La crisi, il precariato hanno reso l’uomo incapace di intessere rapporti veri, stabili e durevoli.
Non trovo lavoro, sono laureato, giovane, mando curricula dappertutto e non trovo nulla. Nulla. Quindi forse dovrò andarmene e per andarmene devo abbandonare questa fottutissima città in cui sono nato, i miei genitori, i miei amici, la mia ragazza e questo mare. No, non ci penso nemmeno a legarmi alle persone.
Sono stato male sai, male. La mia ex mi ha lasciato e ho sofferto per anni. Da allora non mi sono più legato a nessuno. E non so dove andrò, di certo non rimarrò qui a vita, quindi perché legarsi? Nel frattempo vedo un sacco di gente, ma quando conosco una ragazza che mi piace evito di affezionarmi perché non si sa mai.

Lo squallore dei rapporti d’amore nell’epoca post-moderna. Il vuoto.

Poi mi viene in mente ancora lui, Vasco Brondi. Lui sintetizza il tutto così:
«E cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?»

venerdì 14 maggio 2010

Idealismo o Pessimismo cosmico?

Se c’è qualcosa che mi lega profondamente al Pasolini di Scritti Corsari è proprio quella resistenza al cambiamento, quell’idealismo eccessivo, quel bisogno di rimanere fermi e vivere sempre l’infanzia, l’adolescenza e quella che sembra essere la parte migliore della maturità.
Lui, che difendeva con una vis polemica impareggiabile un mondo scomparso a causa dello Sviluppo (così diverso dal Progresso), doveva fare i conti con tutti quegli “spietati” (giusto per citare i Baustelle) che invece quel mondo nemmeno se lo ricordavano oppure non ne sentivano poi tanto la mancanza.
È strano che proprio le persone che mi circondano mi rimproverino la stessa cosa che i lettori del “Corriere” rimproveravano a Pasolini. Il fatto di rimanere ancorati al passato e non accettare il cambiamento.
Quei contadini del mondo preindustriale dei quali parlava l’intellettuale bolognese si servivano di beni necessari, e questo bastava a rendere necessaria la loro vita. Adesso ci si “nutre” di beni superflui, motivo per cui la vita stessa è diventata superflua.
La teoria del “lasciamo perdere” o del “forse andrà male; in ogni caso meglio non rischiare” e cose così rientra in questo mio discorso. In fondo l’attitudine al non rischio, per prevenire le conseguenze nefaste di una qualsiasi azione è sempre stato un tratto caratteriale diffuso, per quanto ristretto ad una tipologia di persone pensate singolarmente. Oggi, invece, questa attitudine è diventata un tratto sociale.
Quella crisi che fa ormai parte integrante di questo periodo storico ha scalfito le coscienze e i caratteri sociali, determinando un impoverimento profondo dell’interiorità di un essere umano. I rapporti si sono trasformati e formalizzati e un’ondata di indifferenza, flessibilità e refrattarietà al male si è abbattuta sulle nostre coscienze fino a decretarne l’assopimento.
Non sono in molti ad accorgersi di quel tratto che oggi caratterizza questa mia generazione. Sto parlando della paura, e della totale mancanza di direttive, del vuoto cosmico che si è insediato tra noi e il mondo, di quella mancanza di obiettivi e di istruzioni che possano indicarci quale strada imboccare. Io vedo un’ansia malsana nelle persone che mi circondano, e una confusione prepotente riguardo il futuro. Ci si stanca perfino a pensarci, al futuro.

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