domenica 17 marzo 2013

Punto di partenza



Era arrivata alla fermata cinque minuti prima, aveva acceso una sigaretta inondando di fumo sciarpa e visiera del cappello, aveva guardato l’orologio al polso, gettato un’occhiata alla chiesa per vedere se gli indignados erano ancora lì nel piazzale, a morire di freddo e di sonno, a bivaccare nelle loro poltrone senza fodere e dormire con i materassini direttamente sulla pietra. No, erano andati via, non c’era più nessuno. Dopo un mese e mezzo erano andati via e questo le faceva tristezza. Lei comoda al quarto piano, sotto al piumone, con il suo uomo accanto, si sentiva rinfrancata dalla presenza, lì giù al piano terra, di quei fancazzisti e comunisti che dividevano cibo e coperte. Si guardò intorno e si accorse che era sola, nessuno aspettava alla fermata, solo fiumi di macchine le facevano vento e le schizzavano fanghiglia sugli stivali. Faceva freddo, il cielo era di un colore bianco intenso e l’aria era pulita, finalmente lavata per bene dalla pioggia. Tutta la notte aveva piovuto e adesso, a quell’ora, solo gli uomini sembravano svegli, la natura era in pausa, con quei colori smorti, quei toni pallidi, gli alberi senza uccellini, i marciapiedi senza formiche né lombrichi, l’aria senza mosche e così via. L’assenza della natura. Ed era la prima volta che ne sentiva la mancanza. Rumori soltanto di rombi di motori e clacson, camion della spazzatura.
Eccolo, appena in tempo per l’ultimo tiro alla sua Camel. Ecco il 3, direzione Thorvaldsen, ancora coperto da una fitta nebbia mattutina.
Fece segno all’autista che si fermò, facendola salire dalla porta più vicina a lui. C’era un mare di gente. Girò il volto verso il finestrino per non guardare in faccia nessuno dei passeggeri, vide le case, le macchine, gli alberi, e le sembrò tutto grigio e monotono, le facce degli automobilisti facce da imbecilli, tutti presi dalla guida, ognuno con un tic nervoso o una mania, un gesto strano, chi sbatteva le palpebre, chi strizzava gli occhi, chi contorceva le labbra, chi bestemmiava, tutti già pazzi alle sette e dieci di mattina. A Porta Maggiore l’autobus si svuotò un po’ e sembrò finalmente di respirare. Cercò un posto a sedere, lo trovò.
Si immerse nella lettura, tutta presa da quei personaggi immaginari ai quali avrebbe dedicato interamente le sue giornate. Non mollava mai il suo libro esattamente da tre giorni, da quando l’aveva iniziato. Lo portava dappertutto, in bagno, sul bus, a lavoro, in giro per negozi, a letto. Leggeva perfino mentre
camminava, troppo curiosa e impaziente. Voleva sapere come se la vivevano loro quella vita, voleva trovare coraggio nei loro gesti, voleva trovare l’amico risolutivo che le sistemasse tutto, voleva trovare consigli, conforto, un appoggio, un amore qualsiasi da condividere con loro. Ed effettivamente c’erano dei personaggi che le assomigliavano, che avevano i suoi stessi identici problemi, quel senso di impotenza costante che le rendeva la vita più pesante, quel piccolo problema della depressione che non si poteva risolvere più nemmeno con la paroxetina, quella costante sensazione di star sprecando tempo, di perdere attimi preziosi, di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, di non avere stimoli, di essere da tre interi anni in cassa integrazione, senza la possibilità di far entrare nessuno e niente a casa propria, non un film illuminante, non un libro risolutivo, non una ricetta straordinaria, non una preghiera di quelle che salvano la vita. La sensazione che l’accompagnava era quella di inadeguatezza perenne, come quella che accompagnava anche i suoi amici in quegli ultimi tempi. Tutti con gli attacchi di panico, tutti con le tonsille gonfie e l’Oki sotto il cuscino, tutti con gli svenimenti e nemmeno la forza per rivendicare i propri diritti, tutti senza un contratto e con la paura di instaurare legami, tutti con la stessa rabbia vuota, frustrante, scardinante, tutti con quella velleità che ti fa ritornare al punto di partenza, con lo stesso identico desiderio di partire perché sotto i propri piedi non è rimasto quasi nulla, tutti con lo stesso terrore di ammalarsi per paura di dover giustificare un’assenza a lavoro, tutti con la stessa consapevolezza di avere meno desideri di prima, meno figli di prima, meno parole di prima, meno lingue e meno miti, meno libri da leggere, meno voci da ascoltare, tutti con la stessa identica sensazione di vuoto attorno.
Si era appassionata per questo ai romanzi di Ammaniti, così semplici da leggere, così scorrevoli e un po’ ipocriti, velati da una sottile amarezza, frutto della mente di uno che l’amarezza forse non la conosceva poi così bene, di uno che diceva di sentire le stesse cose che sentono gli altri ma che sembrava sguazzarci dentro nei giorni vuoti di questa generazione. Le sembrava che anche le ‘voci contrarie’, in quel paese, fossero solo finzione, come se conoscendo bene la merda che deprecavano, questi scrittori, l’avessero sfruttata come una risorsa. Ma quegli antidepressivi di cui parlava lo scrittore romano erano la verità e anche i rapporti interpersonali che descriveva erano la verità. Qui nessuno sopportava più nessuno.
I suoi pensieri furono interrotti dalle urla di una signora anziana, avvolta in un mantello di lana lercio, lacerato sui bordi, grigio, in tinta con occhi e chioma. Urlava una serie di versi sconnessi, un insieme di ‘aooo’ e ‘dajeee’ e la sua vittima era una ragazza di colore con le treccine, molto più alta e molto più giovane di lei. Diceva di essere stata spinta in avanti, diceva che non ne poteva più di questi extracomunitari che affollano gli autobus. Poi disse che non ne poteva più e basta. Il tutto si concluse con un ‘mavedidiannatteneaffanculote’ e finalmente tornò la calma.
Lei, che era rimasta fredda, estranea agli eventi che avevano agitato i passeggeri e turbato l’apparente serenità che regnava nella vettura, si immerse nuovamente nelle vite di Quattro Formaggi e degli altri personaggi. Le restava poco tempo prima di scendere dal 3 e le dava noia interrompere la lettura sul più bello. Le veniva spesso da piangere quando leggeva quel libro, tutta presa dall’immaginazione delle giornate di Cristiano e Rino, abbracciati, avvinghiati mentre il mondo continuava a girare. Loro inermi, diffidenti e indifesi. Immaginava la loro cucina e la vedeva color senape, di un legno sbiadito mangiato dalle tarme, qualche stoviglia qua e là a colorare gli spazi, mattonelle spezzate, limate dal tempo e dalla rabbia di Rino, bottiglie vuote e lattine semivuote. E si immaginava lì dentro, tutta presa dalla sua voglia di fare ordine nelle case degli altri. Si immaginava nella scena, a mettere a posto i plaid lasciati sulla poltrona del soggiorno, a lavare le stoviglie, riempire i secchi della spazzatura e preparare qualcosa da mangiare. Stava pensando a quale ricetta potesse andar bene per quei due poveretti, lasciati soli senza una donna. Aveva pensato a qualcosa di caldo, qualcosa di buono e nutriente. Le venne in mente un piatto che cucinava sua nonna, quando stava ancora bene e usava la cucina come un teatro, tutti i nipoti seduti ad ammirare lo spettacolo e una nube di vapore che le veniva fuori dal grembiule. Aveva deciso: avrebbe preparato la zuppa di fagioli e castagne, una nota di dolcezza che batteva ancora nelle sue narici come fosse proprio lì sotto il suo naso. Avrebbe preso due scalogni, li avrebbe spellati, tritati e avrebbe aggiunto fagioli e castagne precedentemente lessati; il tutto condito da un filo d’olio e da una spolverata di pepe nero. Li avrebbe stupiti. Si ricordò di aver lasciato il suo ricettario sul tavolo, aperto alla voce ‘zuppe’ e si rammaricò per non averlo messo in borsa prima di scendere. Lei che portava sempre con sé una borsa piena di roba per affrontare viaggi lunghi mesi. Accavallò le gambe, tolse il cappello di lana, allentò la sciarpa e tirò indietro il ciuffo che le copriva gli occhi.
Guardò fuori, cercando un’immagine familiare, un punto di riferimento e si accorse di essere alla fermata Policlinico. L’autobus si svuotò di nuovo e anche lei, che era seduta, si trovò coinvolta in un groviglio di gomiti e mani che si agitavano e annaspavano per uscire fuori da quella gabbia. Scesero quasi tutti, sputati fuori come palline del flipper, esplosi sul marciapiede come proiettili di piombo pronti a colpire, tutti con le espressioni cupe e i visi contratti. Dentro l’autobus un’improvviso silenzio le permise di concentrarsi ancora meglio, le sgomberò la mente da fastidi olfattivi e visuali, le permise di pensare solo a lei, a Cristiano, a Rino e alla biondina.
Quattro Formaggi cantò una ninna nanna, il paesaggio si fece sfumato, gli occhi morbidi e le palpebre di colla, inchinò il capo, i capelli le fecero da cuscino e il vetro iniziò a profumare di ghiaccio. Varrano si fece presente, il suo gelo tangibile. Il Nord Italia non sembrava poi così male, tutti con i guanti e gli sguardi vitrei ma un vapore caldo soffiato dalle bocche, alito nebulizzato e alcolico così rincuorante e familiare.
La pentola bolliva e l’odore delle castagne deliziava le ultime mosche rimaste in cucina. Aveva spazzato per terra, pulito bagno e pavimenti con la candeggina, fatto ordine e sbattuto i tappeti, spolverato gli unici due mobili del soggiorno, lavato i piatti e apparecchiato la tavola.
Cristiano e Rino aspettavano il pranzo, il primo seduto sulla sedia, con la schiena chinata e le braccia che sorreggevano la testa, il secondo tutto sbracato sulla sua poltrona, pronto a cambiare canale con la mazza da baseball non appena il telecronista vomitava i primi fatti di cronaca della giornata. La casa si faceva piano piano più abitabile e la sua vita acquistava un senso. Era finalmente lontana da Roma, lontana dal caos e dal nonsense, in un posto sicuro dove a un certo numero di ingredienti, aggregati in un determinato modo, corrispondeva una ricetta sicura.
Gridò ‘a tavola!’ e il corridoio si trasformò per pochi secondi in una pista di gara dei centro metri in cui padre e figlio si spingevano per arrivare primi; ridevano e sembravano cavalli impazziti, così sgraziati e degni di una stalla. Assegnò i posti e a Cristiano spettò quello davanti alla finestra, da dove poteva vedere i tronchi gelati, i rami innevati e la luce abbagliante dei fiocchi di neve. Rino sorrise a Cristiano, impugnò il cucchiaio e divorò la zuppa. Lei stava a guardare, godendosi la scena, con il sorriso stampato in viso e l’ansia di sapere se il piatto era riuscito. In meno di cinque minuti, seppure la zuppa fosse ancora bollente, i piatti erano vuoti. Rino emise un rutto fragoroso e la guardò con gratitudine. Poi si alzò da tavola e prese il vino dal frigo. Ne bevve un sorso e ruttò di nuovo, soddisfatto.
Cristiano, pienissimo e con la lingua bruciata, aveva la testa pesante e un sonno della madonna. Bevve un sorso d’acqua e, guardando suo padre soddisfatto, disse: ‘ti è piaciuto?’. Lui rispose con un ghigno, gli afferrò i capelli con quegli artigli che si ritrovava, e gli grattuggiò la testa con le nocche delle mani. Cristiano si liberò dalla sua presa e, ridendo e urlando, afferrò la maniglia della porta e in attimo fu fuori, nel campo ghiacciato. Rino lo raggiunse e prese a tirare palle di neve a mani nude.
Lei li guardava dal vetro della finestra senza dire una parola. Annusò intensamente l’aria. Prese il cucchiaio, chiuse gli occhi e assaggiò la zuppa, sorrise e andò subito in soggiorno a telefonare a sua madre. Doveva dirglielo, doveva spiegarle che era identica a quella di sua nonna. Dopo il pranzo, finirono tutti a letto e in un lampo si addormentarono.
Fu una brusca frenata a riportarla alla realtà, nel più banale dei mondi fatto di uomini e donne che ti guardano in cagnesco, le strade ancora piene, i clacson ancora accesi e qualche goccia di pioggia che lucidava l’asfalto. Si rese conto che le sue narici non funzionavano più tanto bene, ora c’era solo odore di piscio e grappa, unito allo smog e al tipico odore degli autobus. Era ancora all’incrocio con la Nomentana, c’era un traffico pazzesco e l’ansia stava raggiungendo livelli mai visti. Tutti nervosi, pure il cucciolo di cane, un bastardino che una punkabbestia portava in grembo, era impaziente e stava diventando aggressivo. Aveva pisciato per metà sul pantalone della padrona, che però non ci aveva fatto quasi caso, e per metà sul sedile, rendendo l’aria irrespirabile e sollevando un coro di critiche a mezza bocca della gente stanca di quei gesti incivili. Mormoravano che gli africani sono più civili di noi e che noi eravamo un popolo di merda, chi diceva che era colpa dei padri e chi della televisione. Una signora si intromise dicendo che quegli esemplari andavano spediti in galera o in una comunità se non altro. Un signore anziano intervenne e disse che ai suoi tempi non esisteva questa maleducazione e così via.
Lei, decisa a non spazientirsi, fece uno sforzo per estraniarsi nuovamente e riprendere la lettura. Mancavano le ultime pagine e non voleva perder tempo. Gli occhi impazziti vibravano di curiosità e la mano destra era pronta per sfogliare una nuova pagina. Voleva capire perché Quattro Formaggi aveva compiuto quel gesto, se il padre si sarebbe risvegliato e come si sentiva Cristiano. Voleva sapere.
Era finalmente arrivata a pagina 425. Le ultime righe recitavano:
‘Cristiano Zena aprì gli occhi. Tutti erano in piedi e applaudivano al passaggio della bara bianca. Si alzò e urlo: Non è stato mio padre! Ma nessuno lo sentì’.
Lei chiuse il libro e lo mise in borsa. Alzò gli occhi e si accorse subito di essersi persa qualcosa. Era al punto di partenza, proprio a pochi metri dalla fermata iniziale, quella dalla quale era partita. Come aveva fatto? Tornare indietro? Tornare da dove era partita, non accorgendosi nemmeno della sosta al capolinea? Si sentiva pazza, estraniata, confusa. Era mai possibile una cosa del genere?
Si alzò, si diresse verso l’autista e vide che era lo stesso uomo di prima, quello che l’aveva raccolta 50 minuti prima alla stessa fermata. Aveva solo qualcosa di diverso. Lo scrutò per un istante e si rese conto che il suo viso era solo più stanco, un po’ diverso rispetto all’inizio, quasi invecchiato. Le sembrava addirittura che i capelli prima fossero neri, e invece adesso erano brizzolati; lo sguardo vispo dell’inizio aveva perso colore ed era diventato grigio e inespressivo. La sua testa andava avanti e indietro al ritmo del motore e dei clacson e un’espressione stupida si insinuava negli occhi.
Le automobili impazzite avevano formato code lunghe chilometri di mura aureliane. Si chiese se non stesse iniziando a trasfigurare la realtà, se leggere tutti quei libri in una volta non le avesse fatto male.
Prenotò la fermata, decisa a tornarsene a casa. Mentre scendeva dall’autobus rivolse un saluto all’autista. Gli disse ‘buona giornata’, ma non ricevette risposta.

Nessun commento:

Posta un commento

Archivio blog