mercoledì 13 marzo 2013

'E vissero infelici perché costava meno'


Hanno licenziato tutti i tuoi colleghi. Ho il magone da quando l’ho saputo. Tu hai paura. Ti è venuta la febbre per il dispiacere. Ti sei ammalato e per tre giorni non sei andato a lavoro. Non avevi mai fatto un’assenza, ma avevi paura che avrebbero licenziato anche te. La mattina, ancora sotto le coperte, con le gote rosse e la fronte bollente, mi hai chiesto: «Ma secondo te devo andarci a lavoro?». «Certo che no, hai la febbre alta».
Tu allora hai detto: «E se mi licenziano?»
Non sono riuscita a rassicurarti perché non capisco cosa stia succedendo. Una guerra. Eravate cinque e ne è rimasto uno, a guardarsi le spalle, studiare ogni singolo movimento, temere per il proprio futuro, farsi domande.

Li hanno licenziati perché non c’era abbastanza lavoro e non servivano più. Così, senza preavviso. Mi dispiace tanto per quel tuo collega coreano, ha due lauree, è in gamba. Ha due figli piccoli e una moglie da mantenere. Mi dispiace anche per quello più giovane. Lui ama il suo lavoro, ma presto comincerà ad odiarlo. Mi dispiace per l’altro ancora, quello che per lunghi periodi soffre di depressione e per tre giorni al mese rischia di farsi venire un infarto perché deve completare un lavoro commissionato il giorno prima.
Mi dispiace per tutti, a dire il vero.
Sei tornato a lavoro ed eri solo, non c’era più nessuno accanto a te. In otto ore non un sorriso, non una parola o una battuta. A ora di pranzo hai comprato un panino e l’hai mangiato davanti al computer. Non c’era nemmeno il tuo capo. 
«Non possono licenziarmi - hai detto - sono io che mando avanti questo studio, sono io che lavoro. Se me ne vado come fanno?»
«Ne trovano un altro», ti ho risposto.

Non ci hai creduto. Hai detto che era impossibile. Quando sei stato assunto ti hanno detto che, scaduto il contratto, ti avrebbero dato un aumento. Il contratto sta per scadere, mancano pochi giorni, ma non ci riesci a chiedere l’aumento, non ce la fai, non ti sembra il caso né il momento. Hai paura. Però dici che non puoi vivere con questo stipendio. Dici che non vuoi solo sopravvivere ma vivere pienamente la tua vita. Dici che è sempre stata tutta una prova generale, che lavori da quattro anni e ti trattano sempre peggio. Dici che vuoi andare via da questo Paese, che ti fa schifo, che a Palermo a Roma o a Torino è uguale, una vita di soli sacrifici, una vita di discount, di monolocali senza forno, senza freezer, una vita di bollette e di ansia. Dici che non abbiamo futuro.

«Ci pensi che non avremo mai un futuro? Ci pensi che vivremo sempre sulla soglia della povertà?
«Non è vero»
«Sì che è vero. Io gli chiedo l’aumento»
«E se non te lo concede, l’aumento?»
«Ma erano questi i patti»
«E se non li rispetta?»
«Me ne vado»
«E che fai dopo?»
«Non lo so, ma io ho una dignità. Non posso farmi sfruttare sempre» 
«Tu hai ragione, ma non so se troverai un altro lavoro, adesso. E se lo trovi devi ricominciare da zero. Periodo di prova, quattrocento euro, straordinari non pagati, poi seicento e poi, finita la prova, scaduto il contratto a progetto, ne prendono uno nuovo perché non possono permettersi di darti un aumento».
«È proprio questo il problema. Continuano a offrirci stipendi da fame e noi accettiamo sempre. Se rifiutassimo queste condizioni, sarebbero costretti a pagarci di più. Non capisco perché anche i migliori in questo paese non riescono. Ci siamo accontentati un po’ troppo. Noi dovremmo rifiutarci tutti. In questo paese le aziende riescono a mantenersi perché noi siamo a costo zero!»

Hai chiamato i tuoi amici, tua madre, tuo padre. Hai chiesto a loro. Alcuni ti dicono di aprire la partita Iva che per ora non costa nulla, altri di tornare a Palermo, altri di restare e chiedere l’aumento. Altri ancora ti dicono di aspettare. Io non so veramente cosa consigliarti. So solo che non vorrei cambiare di nuovo città. Vorrei stabilità, vorrei equilibrio. Invece adesso la nostra serenità dura solo il periodo di un contratto a progetto
«Quando penso al nostro futuro sai cosa mi viene in mente?, mi hai detto»
«Cosa?»
«Quella frase di Leo Longanesi: E vissero infelici perché costava meno».



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