giovedì 29 settembre 2011

Esagerazioni molto personali - La città dei porci

Caro diario,

quello che sento in questo momento è solo un traffico frastornante fatto di clacson scarichi e di gente a rischio infarto per imprecazioni moleste tipo ‘li mortacci tua’ e poi una tosse persistente della mia coinquilina che oggi ha fatto un esame con la voce completamente scarica. Questi suoni rimbombano nella stanza e sento come una dose di buonumore che mi pare veramente strana perché immotivata. Diciamo che non ho alcun problema, in cucina c’è una pentola con fagioli sedano cipolle e carote e tutto bolle. Ho solo un nodo allo stomaco che si scioglierà presto, ne sono sicura. Però va tutto bene, ho ancora un lavoro e sento che tra un po’ di tempo potrei anche riuscire ad andarmene via da questa città e mi sento veramente meglio. Il sole la mattina non è tanto caldo qui, esco presto, prestissimo e vado sempre con le scarpe più scomode, arrivo e trovo le mie colleghe al bar con un tipo molto simpatico che mi fa ridere sonoramente già alle 7 e mezza di mattina, il che non è poco, penso, mi guardo intorno, scruto la gente e hanno tutti il viso più stanco del mio, mi dico che anche i bambini sono infelici in questa città, che le mattine sono scomode per cerette e faccende estetiche di ogni tipo: tutti brutti, pelosi, con le borse sotto gli occhi, senza nemmeno i soldi per il deodorante credo, sciupati, secchi e infelici. Non è la mia città. Li lascio a voi questi rumori molesti, queste urla immotivate, questi marciapiedi fatti di topi e scarpe firmate, questa mezz’aria fatta di botulino e cocaina, questo stress morbido che fa diventare pazzi, questo fare le cose per forza, questa noia quotidiana fatta di insulti e corse per prendere il 3. Io mi accontento della mia dose di buonumore che arriva di rado e quando arriva è spiazzante anche per me ma mi rende lucida, tanto lucida da capire che non è questo il mio contorno ideale.







domenica 18 settembre 2011

Precari & precarietà

Il problema di queste giornate è che non riesco a parlare. Sono muta, non mi esce la voce. Non so perché ma è come se la mia partecipazione, seppur solo vocale, telefonica, a distanza, non avesse il minimo significato.
Muta. E mentre sto muta, e non mi esce nemmeno un filo di fiato, mi accorgo che un tempo non ero così, che prima avevo tanto da dire, e adesso niente. E non so perché. Sono muta da qualche giorno, da qualche mese, da qualche anno, un paio credo. E non sorrido facilmente, non mi viene. Non capisco perché da un giorno all’altro mi ritrovo spaesata e col culo per terra. Eppure mi avevano detto che questo lavoro sarebbe durato poco, qualche mese, sei, sette. Mi avevano anche detto che forse mi tenevano con loro, perché ero brava, certo, e puntuale, e impeccabile. Ma forse ero troppo attenta a non sbagliare, forse ero attenta al lavoro e non troppo a lasciarmi andare. Forse mi ha fottuto quella paura che avevo di restare senza lavoro da un momento all’altro. Cerchi di costruire qualcosa, e lo fai con meticolosità, pazienza e impegno per quasi una anno, ti sforzi per svegliarti presto ogni mattina, per preparare la cena e il pranzo da portare in ufficio il giorno dopo, ti allontani dai tuoi amici ancora studenti perché a volte i loro ritmi e le loro parole ti urtano; esci di meno, stai al buio in un seminterrato durante il giorno perché alla tua collega di stanza dà fastidio la luce perché non vede lo schermo del pc, le lavatrici le fai solo il fine settimana, pulisci la casa che sembra un centro sociale, diventi grande, odiosa, stupida, frivola e cogliona, pensi a cosa devi indossare il giorno dopo, pensi a quello che vorresti fare veramente e non trovi risposte, leggi il giornale online e ti viene voglia di sterminare il genere maschile, ascolti tutti i discorsi più frivoli e più squallidi del mondo, fin dalle otto di mattina, ti dispiaci per le tredicenni troie di questo paese. Mi avete fatta diventare così triste per niente? Adesso sarò triste e disoccupata.
Oggi mi ha consolato una frase della mia amica che dal nulla a tavola ha detto: ‘Non è vero che l’amore finisce. Il nostro non finirà mai’. Più banale e ridicolo di così non si può, ma mi sono commossa lo stesso, senza motivo.

giovedì 1 settembre 2011

I miei due grammi di ragione sono esauriti (cit.)

Non sai quanto ti adoro quando mi dici che vivere è la cosa più facile del mondo. Mi si tinge lo stomaco di arancione quando sei così ottimista, mi sento subito avvolta nel più stupido paio di braccia, mi sembra veramente tutto così facile, e la paura di svegliarmi viene risucchiata dagli alberi di fronte alla finestra. Il mondo facile e la vita facile, e una bocca che ti sveglia la mattina e un pene in erezione quando stai per aprire la porta di casa per andare a lavoro e il cibo che chiede di essere scongelato, e la spazzatura di essere divorata da formiche imbecilli e mute.
Mi è bastato un giorno di lavoro per riprendere contatto con la realtà, quella realtà che non vorrei mai diventasse tale, fatta di contatti , di e-mail, di voci finte, di mauromaurizio e nomi stupidi come questi, di bambini deficienti e calendari con culi e tette, una vita fatta di soldi ma spesa con umiltà e umanità, un mondo che seppur un tantino squallido ti fa stare bene a livello umano mentre prima vivevi di rispetto comprato a forza e un paio di bottiglie di vino a sera ripetendo versi di Rimbaud. Quando il lavoro faceva schifo e la vita era meravigliosa e si poteva viaggiare solo con una lezione del professore più presuntuoso dell’ateneo e ridere delle sue cazzate che in fondo erano il tuo pane quotidiano, essere solidali a tutti i lavoratori che faticavano per portare la spesa a casa, non comprenderli e non invidiarli, dire di loro ‘io non sarò mai così’.
Ci sono tantissime cose positive in questa città di merda, tantissime, puoi passeggiare senza essere fissato, puoi ignorare il mondo che ti passa davanti, fare amicizia con mezza Roma nel giro di 12 ore, puoi vedere la gente cadere e rialzarsi da sola, puoi scrivere di lei senza essere visto, godere dei privilegi legati alla finta civiltà, visitare parchi e ville, lavorare, prendere il 3 vuoto la mattina, mangiare dal Greco al Pigneto, dormire con manfredi, godere dei consigli di Daniela e delle tue colleghe, farti la doccia calda, comprarti delle casse e ascoltare la musica da sola nella tua stanza, comprare i colori acrilici per imbrattare tutto il bianco che vuoi, goderti questo cazzo di computer senza nemmeno internet, goderti la vista di una chiesa meravigliosa da sola alla finestra e non sai com’è fatta dentro, vivere di farro bollito e mare dimenticato, amare tante persone lontane, sentire il significato della parola ‘malinconia’, leggere il giornale, semplicemente amare l’indipendenza e odiarla nello stesso tempo perché è fatta di parti buie e persone che chissà come stanno.
Non lo so se vivere qui mi piace, so solo che questa città fa emergere la parte più amabile e anche la più detestabile di me. Gli eccessi che ti uccidono e ti danno la vita, quel bianco che ti si svela per essere odiato e per essere riempito, quella serenità che trovi o in un fondo di bottiglia o in un marciapiede dove facce come la tua sorridono e ti stimolano a forza, quella voglia di parlare che rende inutili i discorsi ma che riempie silenzi lunghissimi.
Grazie e vaffanculo, Roma mia.

Sincerely,

lunedì 22 agosto 2011

Roma dai capelli bianchi



La mattina mi sveglio, in questo nuovo posto, circondata da alberi e clacson, e sono inondata da una luce irreale, quasi finta. Il letto balla e fa strani rumori il pavimento color mattone e le pareti troppo bianche il disordine mentale e fisico odore di detersivo alla lavanda il bagno dello stesso colore delle coperte delle navi. Ci entro, mi ci tuffo ed esco venti minuti dopo con il viso restaurato, vado in cucina, mangio uno yogurt e bevo il caffè seguito a tappo dalla prima sigaretta della giornata.
Lancio un’occhiata alla strada, alla chiesa, alle vite che sgambettano di sotto, e mi sento grande; grande come gli operai, come le colf, come i nonni che non riescono a dormire per più di quattro ore a notte. Mi blocco a guardare le cose più futili, studio la cucina e le posate, il bigliettino caduto per sbaglio in corridoio, le foglie del mio basilico, il ghiaccio che si è formato in freezer. La mattina impiego circa un’oretta per prepararmi perché mi fisso sulle cose inutili.

Poi inizia il giro sull’autobus. Una signora di cinquant’anni circa, affetta da nanismo, urla ‘quanto sono stata scema a pensare che potesse lasciare sua moglie per me, quanto sono stata stupida! Ma adesso, adesso voglio tutto nero su bianco’. Grida con una voce che non è la sua, fissando un punto indefinito davanti a sé. Gli altri passeggeri non la guardano nemmeno, continuano a fissare i finestrini e leggere libri, affetti dal mutismo delle sette.
L’autista, inespressivo, guida piano, appagato dal suo kit portafortuna sulla consolle: telefonini, i-pod e tabloid.
Un signore di settant’anni, seduto nei posti sull’ultima fila, se la prende con la lingua dei conquistadores e, fissando un ragazzo sudamericano inizia ad imprecare: ‘siete delle bestie. La vostra lingua, la lingua dei conquistadores, ci ha rovinati tutti!’.
Scendo sulla Nomentana e sono già esausta, pronta a fumare un’altra camel.




martedì 5 luglio 2011

METRO A - DIREZIONE BATTISTINI ORE 7

Vedi quelli che ti guardano discretamente, con fare distratto, e ti hanno già studiata in un nano secondo. Ci sono quelli invece che lo fanno con insistenza, e di quelli un po’ ti spaventi perché è come se ti scopassero con lo sguardo e sperano in un tuo cenno, seppur immotivato, e vogliono tutto subito.
Io la mattina prendo quella stramaledettissima metro per Termini e mi sento osservata. L’uomo, che ho imparato a studiare in questi mesi, è un animale, come lo sono molte donne che incontro e che conosco. La tragica verità, in questa storia fatta di puzza e di sudore alle sette di mattina, è un uomo che ti scruta e che già dalle prime ore del giorno, è arrapato come un porco. Ci sono varie tipologie: c’è il gay che non guarda mai nessuno, pensa solo a sistemarsi il ciuffo e spolverare con un colpo di unghie la camicia, il palestrato che fa la stessa cosa ma guardandosi anche un po’ intorno, l’uomo d’affari che legge il ‘Corriere’ e non dà confidenza al resto del mondo, c’è l’operaio che guarda i culi di tutte le donne che entrano in metro, il ragazzino con i capelli aereodinamici, depilato possibilmente, e lo sfigato che ti sorride debolmente aspettando che ricambi la cortesia. C’è l’uomo che non ha tempo da perdere e ti guarda con sufficienza, ti sorpassa, ti scavalca. Proprio il tipo che corre la mattina, salutando di fretta figli e moglie e che di sera fa sempre tardi a lavoro.
Devo dire la verità: non c’è nessun uomo interessante in metro la mattina, solo una volta ho visto un ragazzo che mangiava una banana e che non rispondeva a nessun richiamo proveniente dall’esterno, e si faceva urtare e urtare, e spingere; ondeggiava ma continuava a fissare il vuoto con lo sguardo perso e sorridente.
Sulla metro nessuno con il quale poter scambiare due parole. Il massimo che ho sentito la mattina è: ‘scende alla prossima?’, e tu ogni volta rispondi: ‘sì’.
Poi ci sono le donne, con visi molto più tristi di quelli degli uomini, più stanche, più spaventate, più preoccupate, con ottocentomila pensieri in più. Ci sono le donne vere, quelle che devono pensare al lavoro, alla casa, alla famiglia e in particolare a marito, figli, nipoti, compleanni di nipoti e cugini e compagnetti dei figli, all’amore che è finito da tempo, al marito che ha un’altra, alla spesa, a cosa cucinare la sera, a sembrare ancora un po’ attraenti, ai tacchi che seppur scomodi si devono indossare, alla suocera, al corso di catechismo o di nuoto della figlia, al ragazzino che vuole mettere incinta la figlia, a smettere di fumare, alla voglia di fare l’amore, a tutti i libri o i film che si è persa, agli sguardi che ha evitato durante il tragitto, alle ore spese in trucco e in estetista e chissà perché dato che non se la fila nessuno, alle morbose attenzioni del fruttivendolo o del panettiere, ai viaggi che vorrebbe fare con la sua famiglia, all’uomo che la scopa senza dirle ‘ti amo’, ai fiori che vorrebbe ricevere una volta l’anno, al suo compleanno che è lontanissimo, a quando aveva un’altra età, un’altra sicurezza di sé, altre opportunità, al suo capo che la vedrà sempre come un oggetto sessuale e raramente come un essere pensante, al suo stipendio sudato, alla sua ex voglia di vivere e di fare, alle gonne fricchettone del liceo quando anche lei voleva solo divertirsi, alle sue visite ginecologiche, ai matrimoni dei suoi amici, al suono delle risate di prima, alla sua voglia di stare da sola per un po’, ai panni da stirare, alla sua megalomania di una volta, ai panni da stendere, all’affitto troppo caro, al condominio, alla spazzatura e alle pulizie.

Questo scenario metropolitano alle sette di mattina rende isterici, urta, fa male.

Vi auguro vite campagnole, fatte di pensieri legati al ‘che tempo fa’, preoccupazioni un po’ più serie, ragionamenti più semplici e sorrisi mattutini fatti non solo col trucco, sorrisi meno larghi e più sinceri, e una buona dose di povertà materiale.

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