mercoledì 1 maggio 2013

La morte è uno spettacolo che soddisfa

Quando frequentavo il liceo, la mia professoressa di latino era talmente ossessionata dal problema della morte nella cultura classica che non faceva altro che declamare: «Mors quid est? Aut finis aut transitus», ovvero la morte o è la fine o un passaggio da un mondo ad un altro.
Riallacciandosi alla concezione filosofica di Platone, Seneca, nelle sue famose Epistulae Morales Ad Lucilium non escludeva la possibilità di una nuova vita dell’anima, l’inizio di un nuovo ciclo vitale dopo la morte. Il filosofo stoico non fa altro che sintetizzare, in un’unica frase, anni di dibattiti alimentati da due visioni contrapposte: da un lato quella materialistica di Democrito e di Epicuro per cui la morte era la fine di tutto, e dall’altro quella spiritualistica di Pitagora, Platone e dello stoicismo per cui la morte era un passaggio o un ritorno ad altra vita. Quel passaggio implicava la liberazione dell’anima dal carcere del corpo e quindi la fine di tutte le sofferenze.
Anche per il cristianesimo la morte è un passaggio, un momento di transito necessario per una vita migliore. La morte, così intesa, fa quasi pensare a un traguardo raggiunto dopo un percorso duro e pieno di ostacoli, il punto di approdo conquistato dopo un lungo “viaggio di formazione”. La secolarizzazione ha fatto in modo che il venir meno dei valori religiosi, generasse un cambiamento nella concezione della morte all’interno della società. Se penso alla concezione che abbiamo oggi della morte, quindi alla morte nell’epoca dei mass media, mi viene in mente la sua spettacolarizza- zione. Lo sdoganamento di questo tipo di spettacolo basato sulla sofferenza – si pensi alla tragedia di Vermicino e alla diretta Rai di diciotto ore a reti unificate per raccontare la lenta agonia del bambino, precipitato due giorni prima in un pozzo – dà vita ad un pubblico che, guardando, si anestetizza e smette di provare pietà.

In ambito letterario questo paradosso è stato approfondito da Aldo Palazzeschi in una novella, ironica quanto feroce, in cui un “uomo qualunque”, assolutamente ignorato dalla gente, soffre in quanto sente l’esigenza di essere “qualcuno” all’interno della società. Per ottenere notorietà, l’unico modo possibile è compiere un efferato omicidio. La poco conosciuta novella Issimo, di Aldo Palazzeschi, raccolta nel Palio dei buffi (1937), anticipa i tempi e descrive con amara ironia le ultime ore di vita di un uomo plagiato da una società malata in cui compiere un misfatto è condizione indispensabile per diventare popolare. Il protagonista sente una smania insinuarsi tra le viscere, un sentimento insopportabile e ripugnante, una forte invidia, un malessere legato alla sua impopolarità visiva.
La nuova cultura dell’immagine prevede che la morte diventi arte, merce vendibile e spendibile, che le violenze e le storture del mondo navighino, tramite flussi invisibili, sugli schermi di tutto il mondo, montate a dovere e con la giusta colonna sonora.
Nel «periodo del superlativo» – in cui «l’urlo più alto, il salto folle, il colpo forsennato, la più strabiliante trovata o promessa» hanno la meglio – fare del bene, è fuori moda, significa essere condannati all’impopolarità e all’anonimato. Palazzeschi infatti scrive: «cantar la propria donna in paradiso contornata dagli angioli tra stelle e rose, non era a quel fine dissimile dallo spedirvela a pezzettini, mirabilmente confezionata dentro bauli o valige, o in pacchi postali come si usa adesso».
L’unico problema del nostro protagonista è la mancanza di fantasia. Pur di farsi pubblicità, i suoi concittadini hanno sperimentato tutti i modi di uccidere. «Se ammazzar la propria moglie produceva un particolare clamore, perché il clamore divenisse generale bisognava ammazzarne almeno sette. Due righe di giornale erano dovute a chi rubava poco, per chi rubava molto, invece, intere colonne».
Per questo, per riscattarsi dalla sua mediocrità, decide di suicidarsi. Ma decide di farlo in un modo non convenzionale, ovvero non da eroe ma da uomo qualunque. Vincere questa sfida è il suo obiettivo. Se la norma prevede che per diventare famosi bisogna macchiarsi dei più efferati crimini, lui deciderà di sfidare il sistema facendo il contrario. Il suo sarà visto come un gesto sovversivo e, proprio per questo, gli regalerà la gloria. Forse un’ostinata solitudine avrebbe attirato su di sé la curiosità del prossimo. «Per vincere bisognava morire senza che nessuno se ne accorgesse».
Decide di portare il suo corpo in ospedale e farsi benedire da un frate. «Fattosi al suo giaciglio un cappuccino, gli domandò con un sorriso dolce: - Sicché? - Né buono né cattivo, non ho fatto male ad alcuno, sono solo e non lascio niente. - Bene, niente – rispose il frate, e benedì il niente». Il giorno dopo, il necrologio riporta sì il suo nome, ma con due lettere sbagliate. Anche il numero degli anni da 70, per la dimenticanza dello zero, diventa 7. Inoltre, il caso vuole che quel giorno, «[...] come accade sempre in questi casi straordinari, la fortuna si aggiunge al merito: si leggeva sul giornale dell’attentato a un Re, era scoppiata una rivoluzione, quattro erano in corso e una lì per lì per scoppiare, due terremoti e un nubifragio avevano prodot- to migliaia di vittime: una moglie per vendetta aveva accecato il marito con le cesoie, e una fanciulla per dare un valido esempio, sempre con le cesoie aveva malmanomesso il proprio fidanzato; divorati sei bambini un orco. Due matches di boxe agitatissimi, [...] e un telegramma dell’ultim’ora recava la notizia ch’era stato toccato il Polo. Non uno di quei tanti lettori, vedi prodigio, lesse nel necrologio del nuovo campione il nome sbagliato».

L’ironia di Palazzeschi è amara e più che attuale e fa riflettere sull’evoluzione del concetto di morte nella società contemporanea.
Anche se quello della spettacolarizzazione della morte potrebbe sembrare un fenomeno caratteristico della nostra cultura degli ultimi cinquant’anni, dovuto all’avvento della televisione e allo sviluppo delle nuove tecnologie, in realtà, ha radici ben più antiche.
Seneca, sempre nelle Lettere a Lucilio, esprimendo un giudizio riguardo la moralità della pena del sacco, ovvero una pena inflitta ai soggetti ritenuti colpevoli di parricidio, spiega che da quando la pena era entrata in vigore i casi di parricidio erano aumentati. Il fatto che la morte del parricida avvenisse in diretta – e seguendo un rito crudele per il quale veniva frustato, cucito in un sacco di cuoio insieme ad una vipera, un cane, un gallo e una scimmia e poi gettato nel Tevere – secondo l’autore, spinge l’uomo all’emulazione e per di più si collega a quell’ansia di vedere morire qualcuno come se si stesse assistendo ad uno spettacolo.
In una delle sue tragedie, Le Troiane, lo scenario spettacolare in cui l’autore colloca le morti di Polissena e Astianatte è quello di una folla di Greci e Troiani, che impreca, commenta e segue con apprensione lo spettacolo delle morti in diretta. Morti esemplari, ai limiti del tragico, denunciano la follia dell’uomo che si nutre di scene raccapriccianti. «L’uomo, creatura sacra all’uomo, viene ormai ucciso per divertimento e per gioco, e mentre prima era considerato un misfatto insegnare a un individuo a ferire e a essere ferito, ora lo si spinge fuori nudo e inerme, e la morte di un uomo è uno spettacolo che soddisfa».
I valori religiosi vengono sostituiti da valori profani, e la morte cessa di essere un momento sacro. È straordinario pensare che quest’ansia di assistere alla morte in diretta abbia radici così lontane.
Nel corso degli anni la morte, oltre ad aver perso la sua connotazione sacra, è diventata il pretesto per ottenere popolarità, un modo per fare audience. Questo è avvenuto non solo per i proprietari delle reti televisive, i conduttori dei programmi tv o per gli industriali ma, di riflesso, ha avuto conseguenze sociologiche agghiaccianti per i cittadini che hanno visto in questo sistema il modo migliore per raggiungere la notorietà attraverso un preciso atteggiamento mediatico. Si pensi allo splendido film di Sidney Lumet Quinto Potere (Network) in cui un conduttore televisivo, per risollevare l’indice di gradimento del proprio programma, annuncia il suicidio in diretta.
Le immagini dei morti diventano ovvie come quelle dei bollettini meteorologici quotidiani. Jader Jacobelli, nel 1996 scriveva: «C’è l’alta e la bassa pressione e ci sono anche i morti. Non abituiamoci alla vista dei morti per non sconfiggere definitivamente la vita».

Saggio pubblicato sul numero 9 della rivista Il Palindromo

sabato 13 aprile 2013

Paura nelle città. Lo spazio urbano secondo Bauman.

Viviamo con la consapevolezza di essere vittime della paura, della violenza, dell’impotenza sociale. Quest’uomo ci dimostra che il potere è nelle nostre mani
(Frank Miller, Batman: il ritorno del cavaliere oscuro, DC Comics, 1986)

Qualche tempo fa, alla stazione Termini, a Roma, capii cosa significa sentirsi veramente a disagio in un luogo. Ero arrivata in anticipo. Volevo fumare una sigaretta fuori ma mi accorsi subito che non c’era nemmeno una panchina. Da una parte c’era un gruppo di ragazzi africani ubriachi, dall’altra sfilavano le persone perbene, sgomitando per la fretta. Io stavo in mezzo e sentivo crescere un nervosismo forte. Sono entrata dentro la stazione. Mi sono fatta largo tra i corpi e sono arrivata al binario. 


Lì ho notato una valigia sospetta. Forse qualcuno l’aveva dimenticata oppure, forse, c’era una bomba dentro. Mi accorsi che un ragazzo, forse indiano, guardava la valigia. Aveva gli occhi strani. Accanto a lui c’era un altro tipo, grasso, con l’impermeabile stretto. Sembrava che sotto l’impermeabile avesse qualcosa, forse... No, non poteva essere imbottito di esplosivo. Mi ero sentita angosciata tutto il tempo, fino a quando non ero salita sul treno. Stavo forse diventando paranoica?Dal finestrino, poi, avevo visto quelle facce che si allontanavano e avevo ripreso a respirare.
Ci sono dei luoghi che, nonostante siano pubblici e affollati ogni giorno da centinaia e centinaia di persone, infondono un senso di paura e angoscia.
Non sono riuscita a capire il motivo di questa angoscia fino a quando non ho letto Fiducia e paura nelle città (Mondadori, 2005) del sociologo polacco Zygmunt Bauman, testo che, con parole molto chiare, analizza il tema dell’insicurezza dei cittadini in rapporto al luogo in cui vivono. 
Da quando il mondo si è ‘allargato’ e si sono moltiplicati i messaggi di pericolo provenienti dai mezzi di comunicazione di massa, da quando l’incertezza determinata dalla crisi economica si è insinuata nelle nostre vite, bisogna far fronte a problemi che coinvolgono non solo la sfera locale ma anche quella globale. La concezione dello spazio urbano è cambiata e, da luogo di inclusione, la città diventa luogo di esclusione. 
Bauman ci spiega come è avvenuto questo cambiamento e quali sono gli elementi che caratterizzano la nuova organizzazione dello spazio all’interno della città.
Un elemento di trasformazione si individua nella chiusura sempre crescente degli spazi, nell’isolamento che si esplicita in una vera e propria ‘architettura della paura’, un’architettura di ‘spazi preclusi’ che segnano la disintegrazione della vita comunitaria che proprio lì veniva consumata e condivisa. L’intento degli ‘spazi preclusi’ è piuttosto quello di dividere, escludere e non creare luoghi di incontro. L’architetto americano Steven Flusty spiega che questi stratagemmi architettonico-urbanistici sono l’equivalente delle antiche mura della città; ma invece di difendere gli abitanti da un nemico esterno, tendono a tenere divisi gli abitanti stessi. Ovunque, all’interno di una città, troviamo delle barriere fisiche, intorno alle case, ai condomini, agli uffici. La presenza di telecamere o di guardie armate che sorvegliano il movimento dei passanti e l’assenza di panchine davanti alle stazioni per allontanare i vagabondi - costringendo i passeggeri in attesa ad accomodarsi sul pavimento, come dimostra il caso della stazione centrale di Copenhagen - sono alcuni esempi di riduzione dell’uso dello spazio.
Un altro esempio palese è quello di Palermo, una città in cui gli spazi sono preclusi ai pedoni e in cui edifici, alberi, cespugli o fontane sono recintati o delimitati da cancelli. Il rapporto del palermitano con la sua città è un rapporto di preclusione totale con i luoghi.  La nuova architettura della vigilanza e della distanza ha dismesso i luoghi deputati alla comunione, per ridurli in spazi chiusi. Da ‘luoghi’, dunque, i centri di condivisione, si trasformano in ‘spazi’ privi di qualsiasi significato collettivo. Da qui, afferma Bauman, la paura degli stranieri, diventati le vittime perfette sulle quali scaricare l’ansia generata dall’incertezza. E da qui la volontà di ritirasi all’interno di una ‘comunità di eguali’. 

In fondo, si possono ottenere importanti profitti commerciali sfruttando l’insicurezza e la paura dei cittadini. Si pensi al boom delle vendite dei Suv, intesi come capsule difensive o all’adozione massiccia di allarmi, porte blindate e telecamere di sorveglianza anche all’interno delle abitazioni. Tutto fa pensare che abbiamo bisogno di isolarci in gusci protettivi, di evitare il contatto con gli altri.

Ma perché tracciare continuamente confini invece di intendere lo spazio come luogo di aggregazione? Probabilmente perché abbiamo bisogno di ritagliarci un posto sicuro in un mondo che si presenta minaccioso e pieno di rischi. 
Le istituzioni politiche, d’altra parte, non riescono a far fronte alle esigenze di tutti i cittadini  in quanto non possono trovare soluzioni locali a problemi globali.
Allora come possiamo far fronte a questi problemi, alla paura che caratterizza la vita urbana contemporanea? Bauman propone di servirci delle differenze per combattere il senso di insicurezza all’interno della città, di non rifugiarci in ‘isole di uniformità’ ed esporci agli spazi pubblici per confrontarci con gli altri, per riallacciare il legame con i nostri concittadini  e con il nostro territorio perché più è svalutato lo spazio, più la gente traccia confini in modo ossessivo. 
Fare in modo che le nostre città diventino dei laboratori adatti ad un esperimento di integrazione può convincerci a mettere da parte la paura e vivere lo spazio con più consapevolezza, far sì che lo spazio diventi ‘luogo’, perché è nei luoghi che l’esperienza umana si forma e si condivide.

Forse, però, questo luogo esiste già. Se il centro di condivisione all’interno di una città era la piazza, oggi è il web. Leggendo La città delle reti (Marsilio, 2004) del sociologo catalano Manuel Castells, ho capito che viviamo il paradosso di un contesto prevalentemente urbano anche in assenza di città, cioè senza un sistema di condivisione di luoghi e di significati culturali. Qual è questo contesto urbano? È proprio quello della rete, in cui idee e pensieri vengono divulgati e condivisi con un solo click. Il meccanismo creato dai social network colma il vuoto che le amministrazioni locali delle città contemporanee non possono e non riescono a colmare. Laddove la politica non arriva, intervengono i social network. 
Quello virtuale non è solo un mondo ‘condiviso’, al pari di una piazza urbana, ma è anche un luogo in cui ogni cittadino può ricavarsi il suo spazio. 
Viene da chiedersi, leggendo Castells, se abbiamo smesso di considerare la città come un luogo di scambio e di interazione quando abbiamo capito che la sua gestione non era compito nostro. Se le politiche locali sono inadatte a risolvere problemi di natura globale, lo spazio all’interno delle città assume una nuova forma.
Se si cercasse, suggerisce Castells, di sfruttare i trend di mercato per costruire o ‘ristrutturare’ una città, ci sarebbero buone probabilità di ottenere la ‘città perfetta’. Tutto quello di cui noi cittadini abbiamo bisogno traspare dalla rete e, se le aziende possono sfruttare le indagini di mercato per vendere un prodotto, la stessa cosa può essere fatta per concedere ai cittadini ciò di cui hanno realmente bisogno. In politica, esiste la figura dello spin doctor, il cosiddetto ‘dottore del raggiro’, una sorta di consulente talmente esperto di marketing da creare personaggi la cui immagine pubblica possa fare presa sui gusti della gente. Perché i trend di mercato, utilizzati per invogliare i cittadini ad acquistare un prodotto, non vengono utilizzati per soddisfarli? ‘Accontentare’  i cittadini, diventerebbe fin troppo facile. 
L’eccesso di stimoli, di spazi condivisi e di idee che si trovano nel web costituiscono una risorsa fondamentale. Mettere la rete al servizio della città, potrebbe essere un’idea interessante per ricreare dei luoghi di condivisione all’interno di essa. Quando aumenteranno i luoghi di condivisione, dovremo necessariamente affrontare le nostre insicurezze e, forse, non avremo più paura di essere in tanti ad occupare lo spazio cittadino.

Articolo pubblicato sul n. 8 della rivista Il Palindromo

giovedì 11 aprile 2013

Concreat in concerto


Ho un sacco di sogni nella vita ma sono bloccato qui.
La sensazione è quella di essere bloccati in un presente che ci spegne, una lunga giornata sempre uguale, demotivante, un loop nervoso, un grido sordo che i Concreat esprimono attraverso una musica che ci riguarda tutti. 
Il pezzo si chiama Tea in the desert ed è un colloquio a tu per tu con sè stessi, un bilancio, un resoconto del loro periodo di assenza dal panorama musicale palermitano ma anche del periodo di impotenza che viviamo quotidianamente noi palermitani.
Manfredi, Riccardo, Marco e Gaetano sono bravi, hanno delle ottime idee e fanno buona musica.
Meritano la vostra presenza il 19 aprile, Teatro Gregotti, a Palermo, dalle 19 in poi. L’evento è la seconda edizione di Palermo suona
Il paradosso c'è, ed è sempre lo stesso; Palermo è una città che ci blocca e che nello stesso tempo ci dà la vita, è una città che non ci permette di scegliere, una città che si ama e che si protegge, in cui crediamo di poter vivere per sempre. A Palermo abbiamo smesso di ascoltare parole, di correggere  errori.
Se dobbiamo restare, abbiamo bisogno di buona musica. 


Per ascoltare il pezzo clicca qui





martedì 19 marzo 2013

"Il secondo tempo", dove sono finiti i palermitani del '92?


Vent’anni dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio, Il secondo tempo ci invita a riflettere su come è cambiata, dopo quei tragici eventi, la nostra città. Il docufilm di Piero Li Donni, giovane regista palermitano, mi ha emozionato perché mi ha costretta a pormi delle domande che non mi ponevo da anni.
Dove sono finite tutte quelle persone che scesero in piazza a protestare quando Palermo toccò il fondo? Dove sono quelli che dopo la morte di Falcone e Borsellino si indignarono  e protestarono, urlarono, si sgolarono, chiedendo una città diversa? Dove sono i ragazzi che nel ’92 avevano 8 anni (proprio come Piero)? Dove quei volti arrabbiati che volevano difendere a tutti i costi la propria città? 

Li Donni è un ragazzo palermitano che ha studiato e vive a Roma. E credo sia un paradosso interessante vivere a Roma ma non riuscire a vivere senza Palermo. Piero al liceo parlava sempre di Falcone e Borsellino. Tutti noi eravamo intrisi di cultura dell’antimafia, avevamo degli eroi dai quali prendere esempio, eroi che ci avevano spianato la strada. Piero al liceo era bravo, faceva il rappresentante e noi lo ascoltavamo. Tutti noi sapevamo bene chi a Palermo aveva ragione e chi no, sapevamo, dopo Falcone e Borsellino, cos’era la mafia e come sconfiggerla. Ma poi lo abbiamo dimenticato.
Dove sono quei ragazzi che rimasero impietriti quando Palermo saltò in aria? Molti di loro se ne sono andati. Piero se n’è andato, e anch’io me ne sono andata.
Ma avevamo un promemoria al momento della partenza e sapevamo cosa avremmo dovuto ricordare una volta fuori.
“L’orrore di quel momento - continuò il Re- non lo dimenticherò mai, mai!” 
“Sì, invece - disse la Regina - se non prenderai nota”. 
Così inizia il documentario, con una citazione molto significativa di Lewis Carrol.

Abbiamo preso nota, infatti. E quella città disgraziata che abbiamo lasciato, vorremmo cambiarla anche da lontano. Abbiamo deciso di spostarci per vedere le cose in modo più oggettivo, abbiamo dovuto capire cosa c’era di diverso nella nostra città rispetto alle altre, cosa volevamo migliorasse e come. Palermo l’abbiamo sempre messa al primo posto. Ce ne andiamo per tornare, noi.

La musica del film è parte di questa strategia del ricordo, dell’ammonimento. Una musica angosciante, forte e dolorosa, che ci costringe a rivivere il lutto. 
Come in un gioco di opposti, alla musica fanno da contraltare le immagini e i personaggi. I tre ragazzi palermitani che scandiscono i tre tempi del film - funzionali a circoscrivere la storia nel tempo e nello spazio contemporaneo - rappresentano infatti la perdita della memoria, sono ragazzi ignari della storia della nostra città, sono l’esempio di ciò che siamo diventati. All’interno della sala giochi i ragazzi sparano, l’occhio della telecamera entra dentro il mirino che inquadra l’autostrada distrutta del 23 maggio. Un’inquadratura  che urla: ‘ti ricordi’?

Il secondo tempo è denso di immagini metaforiche, colmo di volti che esprimono sentimenti contrastanti. Immagini e video d’archivio si alternano ad interviste e racconti del cantastorie palermitano Salvo Piparo, attore di una forza comunicativa impareggiabile. E proprio Salvo Piparo chiude il film con il racconto dell’attentato del 23 maggio. La tragedia è raccontata da una prospettiva diversa, quella di due uomini che viaggiano in automobile qualche centinaio di metri più avanti rispetto all’auto di Falcone. Il boato, la strada che esplode, le altre auto distrutte e, pochi minuti dopo, il silenzio. Poi ambulanza, polizia, serene spiegate e la sensazione di felicità per essere rimasti vivi. Come mai? Perché sono ancora vivi? Forse perché, racconta Salvo in un crescendo di parole, emozione e commozione, nella vita non avevano ‘parlato assai’. E si erano salvati. Invece quelli che erano morti avevano parlato troppo, e forse avevano pestato i piedi a qualche mafioso.
Come ci si può salvare? 
Per farlo bisogna sconfiggere il mafioso che c’è in ognuno di noi, dice un ragazzo palermitano intervistato in occasione del ventennale delle stragi. La mafia ha cambiato forma e aspetto in questi venti anni. Quella che non è mai cambiata è la cultura mafiosa che, volontariamente o involontariamente, ogni giorno, viviamo ed esprimiamo.

domenica 17 marzo 2013

Punto di partenza



Era arrivata alla fermata cinque minuti prima, aveva acceso una sigaretta inondando di fumo sciarpa e visiera del cappello, aveva guardato l’orologio al polso, gettato un’occhiata alla chiesa per vedere se gli indignados erano ancora lì nel piazzale, a morire di freddo e di sonno, a bivaccare nelle loro poltrone senza fodere e dormire con i materassini direttamente sulla pietra. No, erano andati via, non c’era più nessuno. Dopo un mese e mezzo erano andati via e questo le faceva tristezza. Lei comoda al quarto piano, sotto al piumone, con il suo uomo accanto, si sentiva rinfrancata dalla presenza, lì giù al piano terra, di quei fancazzisti e comunisti che dividevano cibo e coperte. Si guardò intorno e si accorse che era sola, nessuno aspettava alla fermata, solo fiumi di macchine le facevano vento e le schizzavano fanghiglia sugli stivali. Faceva freddo, il cielo era di un colore bianco intenso e l’aria era pulita, finalmente lavata per bene dalla pioggia. Tutta la notte aveva piovuto e adesso, a quell’ora, solo gli uomini sembravano svegli, la natura era in pausa, con quei colori smorti, quei toni pallidi, gli alberi senza uccellini, i marciapiedi senza formiche né lombrichi, l’aria senza mosche e così via. L’assenza della natura. Ed era la prima volta che ne sentiva la mancanza. Rumori soltanto di rombi di motori e clacson, camion della spazzatura.
Eccolo, appena in tempo per l’ultimo tiro alla sua Camel. Ecco il 3, direzione Thorvaldsen, ancora coperto da una fitta nebbia mattutina.
Fece segno all’autista che si fermò, facendola salire dalla porta più vicina a lui. C’era un mare di gente. Girò il volto verso il finestrino per non guardare in faccia nessuno dei passeggeri, vide le case, le macchine, gli alberi, e le sembrò tutto grigio e monotono, le facce degli automobilisti facce da imbecilli, tutti presi dalla guida, ognuno con un tic nervoso o una mania, un gesto strano, chi sbatteva le palpebre, chi strizzava gli occhi, chi contorceva le labbra, chi bestemmiava, tutti già pazzi alle sette e dieci di mattina. A Porta Maggiore l’autobus si svuotò un po’ e sembrò finalmente di respirare. Cercò un posto a sedere, lo trovò.
Si immerse nella lettura, tutta presa da quei personaggi immaginari ai quali avrebbe dedicato interamente le sue giornate. Non mollava mai il suo libro esattamente da tre giorni, da quando l’aveva iniziato. Lo portava dappertutto, in bagno, sul bus, a lavoro, in giro per negozi, a letto. Leggeva perfino mentre
camminava, troppo curiosa e impaziente. Voleva sapere come se la vivevano loro quella vita, voleva trovare coraggio nei loro gesti, voleva trovare l’amico risolutivo che le sistemasse tutto, voleva trovare consigli, conforto, un appoggio, un amore qualsiasi da condividere con loro. Ed effettivamente c’erano dei personaggi che le assomigliavano, che avevano i suoi stessi identici problemi, quel senso di impotenza costante che le rendeva la vita più pesante, quel piccolo problema della depressione che non si poteva risolvere più nemmeno con la paroxetina, quella costante sensazione di star sprecando tempo, di perdere attimi preziosi, di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, di non avere stimoli, di essere da tre interi anni in cassa integrazione, senza la possibilità di far entrare nessuno e niente a casa propria, non un film illuminante, non un libro risolutivo, non una ricetta straordinaria, non una preghiera di quelle che salvano la vita. La sensazione che l’accompagnava era quella di inadeguatezza perenne, come quella che accompagnava anche i suoi amici in quegli ultimi tempi. Tutti con gli attacchi di panico, tutti con le tonsille gonfie e l’Oki sotto il cuscino, tutti con gli svenimenti e nemmeno la forza per rivendicare i propri diritti, tutti senza un contratto e con la paura di instaurare legami, tutti con la stessa rabbia vuota, frustrante, scardinante, tutti con quella velleità che ti fa ritornare al punto di partenza, con lo stesso identico desiderio di partire perché sotto i propri piedi non è rimasto quasi nulla, tutti con lo stesso terrore di ammalarsi per paura di dover giustificare un’assenza a lavoro, tutti con la stessa consapevolezza di avere meno desideri di prima, meno figli di prima, meno parole di prima, meno lingue e meno miti, meno libri da leggere, meno voci da ascoltare, tutti con la stessa identica sensazione di vuoto attorno.
Si era appassionata per questo ai romanzi di Ammaniti, così semplici da leggere, così scorrevoli e un po’ ipocriti, velati da una sottile amarezza, frutto della mente di uno che l’amarezza forse non la conosceva poi così bene, di uno che diceva di sentire le stesse cose che sentono gli altri ma che sembrava sguazzarci dentro nei giorni vuoti di questa generazione. Le sembrava che anche le ‘voci contrarie’, in quel paese, fossero solo finzione, come se conoscendo bene la merda che deprecavano, questi scrittori, l’avessero sfruttata come una risorsa. Ma quegli antidepressivi di cui parlava lo scrittore romano erano la verità e anche i rapporti interpersonali che descriveva erano la verità. Qui nessuno sopportava più nessuno.
I suoi pensieri furono interrotti dalle urla di una signora anziana, avvolta in un mantello di lana lercio, lacerato sui bordi, grigio, in tinta con occhi e chioma. Urlava una serie di versi sconnessi, un insieme di ‘aooo’ e ‘dajeee’ e la sua vittima era una ragazza di colore con le treccine, molto più alta e molto più giovane di lei. Diceva di essere stata spinta in avanti, diceva che non ne poteva più di questi extracomunitari che affollano gli autobus. Poi disse che non ne poteva più e basta. Il tutto si concluse con un ‘mavedidiannatteneaffanculote’ e finalmente tornò la calma.
Lei, che era rimasta fredda, estranea agli eventi che avevano agitato i passeggeri e turbato l’apparente serenità che regnava nella vettura, si immerse nuovamente nelle vite di Quattro Formaggi e degli altri personaggi. Le restava poco tempo prima di scendere dal 3 e le dava noia interrompere la lettura sul più bello. Le veniva spesso da piangere quando leggeva quel libro, tutta presa dall’immaginazione delle giornate di Cristiano e Rino, abbracciati, avvinghiati mentre il mondo continuava a girare. Loro inermi, diffidenti e indifesi. Immaginava la loro cucina e la vedeva color senape, di un legno sbiadito mangiato dalle tarme, qualche stoviglia qua e là a colorare gli spazi, mattonelle spezzate, limate dal tempo e dalla rabbia di Rino, bottiglie vuote e lattine semivuote. E si immaginava lì dentro, tutta presa dalla sua voglia di fare ordine nelle case degli altri. Si immaginava nella scena, a mettere a posto i plaid lasciati sulla poltrona del soggiorno, a lavare le stoviglie, riempire i secchi della spazzatura e preparare qualcosa da mangiare. Stava pensando a quale ricetta potesse andar bene per quei due poveretti, lasciati soli senza una donna. Aveva pensato a qualcosa di caldo, qualcosa di buono e nutriente. Le venne in mente un piatto che cucinava sua nonna, quando stava ancora bene e usava la cucina come un teatro, tutti i nipoti seduti ad ammirare lo spettacolo e una nube di vapore che le veniva fuori dal grembiule. Aveva deciso: avrebbe preparato la zuppa di fagioli e castagne, una nota di dolcezza che batteva ancora nelle sue narici come fosse proprio lì sotto il suo naso. Avrebbe preso due scalogni, li avrebbe spellati, tritati e avrebbe aggiunto fagioli e castagne precedentemente lessati; il tutto condito da un filo d’olio e da una spolverata di pepe nero. Li avrebbe stupiti. Si ricordò di aver lasciato il suo ricettario sul tavolo, aperto alla voce ‘zuppe’ e si rammaricò per non averlo messo in borsa prima di scendere. Lei che portava sempre con sé una borsa piena di roba per affrontare viaggi lunghi mesi. Accavallò le gambe, tolse il cappello di lana, allentò la sciarpa e tirò indietro il ciuffo che le copriva gli occhi.
Guardò fuori, cercando un’immagine familiare, un punto di riferimento e si accorse di essere alla fermata Policlinico. L’autobus si svuotò di nuovo e anche lei, che era seduta, si trovò coinvolta in un groviglio di gomiti e mani che si agitavano e annaspavano per uscire fuori da quella gabbia. Scesero quasi tutti, sputati fuori come palline del flipper, esplosi sul marciapiede come proiettili di piombo pronti a colpire, tutti con le espressioni cupe e i visi contratti. Dentro l’autobus un’improvviso silenzio le permise di concentrarsi ancora meglio, le sgomberò la mente da fastidi olfattivi e visuali, le permise di pensare solo a lei, a Cristiano, a Rino e alla biondina.
Quattro Formaggi cantò una ninna nanna, il paesaggio si fece sfumato, gli occhi morbidi e le palpebre di colla, inchinò il capo, i capelli le fecero da cuscino e il vetro iniziò a profumare di ghiaccio. Varrano si fece presente, il suo gelo tangibile. Il Nord Italia non sembrava poi così male, tutti con i guanti e gli sguardi vitrei ma un vapore caldo soffiato dalle bocche, alito nebulizzato e alcolico così rincuorante e familiare.
La pentola bolliva e l’odore delle castagne deliziava le ultime mosche rimaste in cucina. Aveva spazzato per terra, pulito bagno e pavimenti con la candeggina, fatto ordine e sbattuto i tappeti, spolverato gli unici due mobili del soggiorno, lavato i piatti e apparecchiato la tavola.
Cristiano e Rino aspettavano il pranzo, il primo seduto sulla sedia, con la schiena chinata e le braccia che sorreggevano la testa, il secondo tutto sbracato sulla sua poltrona, pronto a cambiare canale con la mazza da baseball non appena il telecronista vomitava i primi fatti di cronaca della giornata. La casa si faceva piano piano più abitabile e la sua vita acquistava un senso. Era finalmente lontana da Roma, lontana dal caos e dal nonsense, in un posto sicuro dove a un certo numero di ingredienti, aggregati in un determinato modo, corrispondeva una ricetta sicura.
Gridò ‘a tavola!’ e il corridoio si trasformò per pochi secondi in una pista di gara dei centro metri in cui padre e figlio si spingevano per arrivare primi; ridevano e sembravano cavalli impazziti, così sgraziati e degni di una stalla. Assegnò i posti e a Cristiano spettò quello davanti alla finestra, da dove poteva vedere i tronchi gelati, i rami innevati e la luce abbagliante dei fiocchi di neve. Rino sorrise a Cristiano, impugnò il cucchiaio e divorò la zuppa. Lei stava a guardare, godendosi la scena, con il sorriso stampato in viso e l’ansia di sapere se il piatto era riuscito. In meno di cinque minuti, seppure la zuppa fosse ancora bollente, i piatti erano vuoti. Rino emise un rutto fragoroso e la guardò con gratitudine. Poi si alzò da tavola e prese il vino dal frigo. Ne bevve un sorso e ruttò di nuovo, soddisfatto.
Cristiano, pienissimo e con la lingua bruciata, aveva la testa pesante e un sonno della madonna. Bevve un sorso d’acqua e, guardando suo padre soddisfatto, disse: ‘ti è piaciuto?’. Lui rispose con un ghigno, gli afferrò i capelli con quegli artigli che si ritrovava, e gli grattuggiò la testa con le nocche delle mani. Cristiano si liberò dalla sua presa e, ridendo e urlando, afferrò la maniglia della porta e in attimo fu fuori, nel campo ghiacciato. Rino lo raggiunse e prese a tirare palle di neve a mani nude.
Lei li guardava dal vetro della finestra senza dire una parola. Annusò intensamente l’aria. Prese il cucchiaio, chiuse gli occhi e assaggiò la zuppa, sorrise e andò subito in soggiorno a telefonare a sua madre. Doveva dirglielo, doveva spiegarle che era identica a quella di sua nonna. Dopo il pranzo, finirono tutti a letto e in un lampo si addormentarono.
Fu una brusca frenata a riportarla alla realtà, nel più banale dei mondi fatto di uomini e donne che ti guardano in cagnesco, le strade ancora piene, i clacson ancora accesi e qualche goccia di pioggia che lucidava l’asfalto. Si rese conto che le sue narici non funzionavano più tanto bene, ora c’era solo odore di piscio e grappa, unito allo smog e al tipico odore degli autobus. Era ancora all’incrocio con la Nomentana, c’era un traffico pazzesco e l’ansia stava raggiungendo livelli mai visti. Tutti nervosi, pure il cucciolo di cane, un bastardino che una punkabbestia portava in grembo, era impaziente e stava diventando aggressivo. Aveva pisciato per metà sul pantalone della padrona, che però non ci aveva fatto quasi caso, e per metà sul sedile, rendendo l’aria irrespirabile e sollevando un coro di critiche a mezza bocca della gente stanca di quei gesti incivili. Mormoravano che gli africani sono più civili di noi e che noi eravamo un popolo di merda, chi diceva che era colpa dei padri e chi della televisione. Una signora si intromise dicendo che quegli esemplari andavano spediti in galera o in una comunità se non altro. Un signore anziano intervenne e disse che ai suoi tempi non esisteva questa maleducazione e così via.
Lei, decisa a non spazientirsi, fece uno sforzo per estraniarsi nuovamente e riprendere la lettura. Mancavano le ultime pagine e non voleva perder tempo. Gli occhi impazziti vibravano di curiosità e la mano destra era pronta per sfogliare una nuova pagina. Voleva capire perché Quattro Formaggi aveva compiuto quel gesto, se il padre si sarebbe risvegliato e come si sentiva Cristiano. Voleva sapere.
Era finalmente arrivata a pagina 425. Le ultime righe recitavano:
‘Cristiano Zena aprì gli occhi. Tutti erano in piedi e applaudivano al passaggio della bara bianca. Si alzò e urlo: Non è stato mio padre! Ma nessuno lo sentì’.
Lei chiuse il libro e lo mise in borsa. Alzò gli occhi e si accorse subito di essersi persa qualcosa. Era al punto di partenza, proprio a pochi metri dalla fermata iniziale, quella dalla quale era partita. Come aveva fatto? Tornare indietro? Tornare da dove era partita, non accorgendosi nemmeno della sosta al capolinea? Si sentiva pazza, estraniata, confusa. Era mai possibile una cosa del genere?
Si alzò, si diresse verso l’autista e vide che era lo stesso uomo di prima, quello che l’aveva raccolta 50 minuti prima alla stessa fermata. Aveva solo qualcosa di diverso. Lo scrutò per un istante e si rese conto che il suo viso era solo più stanco, un po’ diverso rispetto all’inizio, quasi invecchiato. Le sembrava addirittura che i capelli prima fossero neri, e invece adesso erano brizzolati; lo sguardo vispo dell’inizio aveva perso colore ed era diventato grigio e inespressivo. La sua testa andava avanti e indietro al ritmo del motore e dei clacson e un’espressione stupida si insinuava negli occhi.
Le automobili impazzite avevano formato code lunghe chilometri di mura aureliane. Si chiese se non stesse iniziando a trasfigurare la realtà, se leggere tutti quei libri in una volta non le avesse fatto male.
Prenotò la fermata, decisa a tornarsene a casa. Mentre scendeva dall’autobus rivolse un saluto all’autista. Gli disse ‘buona giornata’, ma non ricevette risposta.

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