martedì 21 luglio 2015

Raccontami dei tempi di piazza Magione

‘Scrivi di piazza Magione’ mi hai chiesto, ‘ricordami com’ero, ricordami come eravamo’. Dici che è stato uno dei periodi più felici della tua vita. Certo che te lo ricordo, e soprattutto cazzo, non siamo mica morte, c’è sempre tempo per ritornare così belle come eravamo e ti assicuro che vivere ancora lì, in quella piazza, e provare quelle sensazioni, si può.

Venivo a prenderti con la mia Cinquecento blu, la magica Brigitte. E ti trovavo sempre avvolta in quelle pareti bianche, vuote e squallide, nemmeno un poster, solo collage demenziali e qualche ritaglio di giornale a formare immagini e frasi nonsense. Il senso estetico che caratterizza la nostra civiltà non ti appartiene, non ti è mai andato a genio, sei sempre stata un po’ sui generis e per me all’inizio eri incomprensibile. Appesa alle pareti bianche tenevi anche una gamba di plastica, una di quelle gambe che si usavano nelle mercerie per esporre le calze. All’occorrenza prendevi la sedia, la tiravi giù e la suonavi. Dicevi ‘aspe’, tu canti e io ti accompagno con la gamba’. Hai sempre avuto un senso del ritmo invidiabile e abbiamo anche scritto una canzone insieme, che chissà come faceva. 

Allora c’era questa casa di corso Tukory e tu portavi un basco che non raccoglieva nemmeno tutti i capelli, tanto erano ricci e per i cazzi loro. Portavi degli occhialetti da brava ragazza e vestiti demodè, avevi abiti di cent’anni fa raccattati da parenti vari e roba sempre larga, non ti  truccavi e d’estate le lentiggini ti illuminavano il viso. Le gambe secche e una forza inumana, la ferocia di chi vuole prendersi tutto e tutti, il sorriso sempre in mostra, davvero, per chiunque. 
Il portiere, Filippo, ci provava con te e Bimbo. Lo chiamavate per uccidere gli scarafaggi. Non ti faceva paura niente ma appena vedevi uno scarafaggio diventavi cretina e dovevi chiamare il portiere. Sei diventata amica del tuo dentista (da quando ti è caduto un dente mentre mangiavi la pastina) e vi sentivate tutti i giorni. Il dentista per me era vecchio e non capivo come potessi aver raggiunto quel grado di confidenza con lui, tanto da incontrarlo al bar per un caffè o una birra. 
Noi studiavamo, e studiavamo cose diverse. A me piaceva quello che studiavi tu e a te piaceva la letteratura. Io ho imparato due o tre parole in arabo e in inglese e tu hai scoperto chi erano Pasolini e la Fallaci, e poi abbiamo studiato storia dell’arte contemporanea, una materia in comune finalmente, ed è stato bellissimo. La passione per la letteratura e per l’arte ci ha travolte per un bel po’ e passavamo interi pomeriggi a dipingere le pareti della tua stanza. Abbiamo impiegato quasi tre giorni a pulire quando la proprietaria ha visto come le avevamo ridotte e si è incazzata a morte. 

Fumavi già tantissimo ed eri sempre fusa. Andavi a ‘fare la storia’ anche da sola e mi ricordo che i tuoi amici coraggiosi gelesi ti mandavano sola a comprare il fumo, in via Castro, con quella faccia d’angelo che ti ritrovavi, quelle gambette secche e quell’esperienza da tossica emancipata.
La sera andavamo sempre a piazza Magione e lì ogni sera conoscevamo un sacco di gente, da Sandokan a Nicola, agli americani che ci hanno fatto ubriacare di whisky e cola, facevamo amicizia con tutti, cantavamo Mina e ce ne fottevamo dei residenti, la gente si avvicinava e si sedeva a cantare con noi e non avevamo nemmeno una chitarra, cantavamo a squarciagola, senza un minimo di pudore, nel mezzo della piazza che noi, io e te, per prime avevamo scoperto e sfruttato per i nostri esperimenti vocali. 
Eravamo sempre io tu e Bimbo, a bere Forst da 66 a 1 euro e mezzo, sul prato, buttate per terra, con gli insetti che si infilavano sotto la gonna e i cani che a volte ci scambiavano per alberi e ci pisciavano di sopra.
In macchina portavamo sempre un megafono e una pistola finta, e una volta mentre Marilena vomitava dal finestrino, io ho accostato e uno sbirro in borghese si è avvicinato e ci ha chiesto se eravamo colleghe. Noi ci siamo guardate, stupite, e gli abbiamo chiesto come facesse a saperlo. Solo che lui intendeva colleghe, sbirre come lui, mica colleghe di università. Aveva visto la pistola finta poggiata sul sedile posteriore. Da quel momento abbiamo deciso di lasciarla a casa e abbiamo iniziato ad usare di più il megafono, e abbanniavamo per tutta la città, sempre dalla Cinquecento blu, tipo quelli che vendono il sale o lo sfincione. 
Una volta avevi cinquanta euro in tasca e non ci potevi credere, ti sembravano troppi soldi e hai deciso di offrire da bere a tutti per festeggiare. Hai offerto birre a tutti quelli della taverna di Ballarò, hai sventolato la tua banconota in cielo e hai urlato ‘ragazzi, stasera pago io per tutti’. 
A piazza Magione vedevamo sempre i fuochi del festino, e poi passavamo sempre dai Candelai. Una volta abbiamo litigato e io camminavo davanti a te, a distanza perché non volevo parlarti. Eravamo io e te e le macchine che passavano erano piene di tasci che urlavano e suonavano il clacson. Mi è arrivato un uovo addosso e mi è esploso sul vestito. Ero convinta che fossi stata tu e ho iniziato ad urlare dicendoti che lanciarmi un uovo addosso forse era un tantino esagerato. Ci hai messo una serata intera per spiegarmi che non eri stata tu, ma io non ti credevo.
La birra la correggevi col gin. Aprivi la bottiglia con i denti, ne bevevi due o tre sorsi e poi te la facevi correggere dal barista, intonavi splendidi insulti ruttando e poi dicevi ‘mi fa male la gastrite’, quell’organo che avevi solo tu. 


Gli eccessi Dani, di eccessi ti sei nutrita per anni, con tutti quei personaggi immaginari che ti affollano il cervello e quelle mille personalità che custodisci, come se essere una persona soltanto fosse troppo noioso, come se la tua meravigliosa complessità fosse dovuta a tutti quegli omini che ti fanno vedere le cose da mille prospettive diverse.

Il bagno all’Addaura, nude, tutte donne e senza teli, 
feste in cui si vomitava in due contemporaneamente nella stessa tazza del cesso, a reggersi la testa a vicenda e poi farsi lo shampoo a casa di non so chi, 
Ubuntu, 
il tifo mentre vomitavo, 
e Cin cin, alla nostra grazia, come no, la nostra grazia.
I tuoi lacci ai polsi, brutti e logorati dal tempo, 
le tue collanine anonime e la tua energia, la tua spontaneità. 
Tu che tratti tutti allo stesso modo, e se incontrassi il Papa probabilmente lo inviteresti a cena a casa tua, ‘Papa, ti andrebbe un piatto di pasta alla trapanese?’, gli diresti.

Il resto dei ricordi ritornerà, ritornerà negli anni. 
E grazie per avermi fatto ricordare almeno questo. 


Appuntamento alla Vucciria ad agosto, con cinquanta euro in mano, devono bere tutti, nessuno escluso!


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