martedì 24 marzo 2015

Domenica

Sono rimasti solo gli arabi oggi, con i negozi aperti sul marciapiede e le loro cascate di cibo guasto a prezzi raddoppiati. C’è un forte odore di menta nell’aria.
Una domenica romana di desolazione, ovunque, desolazione e spiccioli ai barboni per strada, immondizia per terra e facce stanche. Per essere completamente a mio agio in questo sfondo immobile mi basterebbe andare in giro in vestaglia. Oggi tutti si ricordano di riposare e, presi da un torpore incondizionato, dimenticano di vivere. Oggi la contemplazione è tutto e rimuginare sulle proprie scelte è una priorità assoluta. Ho sempre odiato la domenica perché distoglie dalla becera routine che fa perdere di vista il vero senso delle cose. Ti destabilizza.
La domenica è libertà assoluta e della libertà assoluta io non so che farmene.

Io e Dani abbiamo pochi momenti per stare insieme, lei vive qui, nella capitale, e quando vengo a trovarla mi rendo conto di quanto mi manchi la perfetta disorganizzazione di questa città di squilibrati. Torino, dove sto io, è talmente impeccabile da essere noiosa, equilibrata all’eccesso. Viviamo in due mondi opposti, io e Dani, e mi piace venire qui e scoprire che ci sono ancora posti senza regole, me ne ero solo dimenticata, mi piace quando mi guardo intorno e vedo solo caos, perché è il caos che mi dà la spinta vitale. Ho sempre pensato che è qui, dove la grazia non esiste, dove la confusione e la disorganizzazione dettano legge, è qui che l’uomo diventa un eroe. Laddove invece la vita scorre come un replicarsi di cerimoniali, una copia del giorno prima, laddove non c’è spazio per l’imprevisto, l’uomo diventa un antieroe.

Andiamo a piazza Re di Roma e mentre camminiamo ci raccontiamo tutto e tra i piedi ci ritroviamo tanti di quei rifiuti che diamo calci ogni tanto ad una bottiglia di birra, ogni tanto ad un cartone del latte e la nostra passeggiata non è fluida, è difficile invece, pesante, è come nuotare in una vasca d’olio. Ci areniamo e poco dopo riprendiamo, con un po’ di fiatone, continuiamo a ciondolare, ad inceppare su quei vuoti di superficie, quelle strade sbriciolate, su quella fanghiglia che si appiccica ai piedi.
La libertà per noi si è ridotta alla pausa domenicale ma non sappiamo cosa farcene perché è passato troppo tempo da quando avevamo una passione e non ricordiamo più quello che ci piaceva veramente, abbiamo perso tempo, le nostre passioni si sono inaridite, assopite almeno fino alla prossima domenica. Abbiamo perso tempo, abbiamo solo perso tempo.
Avanziamo confuse, il passo lento e l’ansia, l’ansia del ‘chissà quando ci rivedremo’, ‘ti è piaciuta questa vacanza? Io sono stata bene, è stato bello, ti vorrei sempre qui’, la paura di quel raffreddore che non passa più, le puntine e i linfonodi ingrossati e i capelli che cadono e il lavoro che è incerto e tutto fermo immobile, tutto bianco di una luce immobile, insopportabile e nemmeno un raggio di sole che spacca le nuvole.
Ho smesso da anni di guardare le previsioni del tempo. Mi piace che almeno in questo la mia giornata sia imprevedibile, prendo il tempo come viene e mi bagno se c’è da bagnarmi. Ma quando capitano giornate così, il cielo bianco e le nuvole che coprono l’intero raggio visivo, allora mi prende male, e vorrei solo saltare quella giornata per passare alla successiva. Ma oggi è un giorno speciale, perché posso stare con Dani, e tra poche ore ho il treno per tornare a casa.
Ci fermiamo al bar, l’unico aperto del quartiere. Ci sediamo fuori, coperte da cumuli di nebbia e immondizia, mute, assenti, senza ragazzini che urlano e niente zaini, niente autobus. Nessun rumore se non quello delle tazzine.
La colazione qui fa schifo, le brioches pietrificate giacciono su vassoi opachi argentati e le gocce di caffè sul bancone hanno macchiato il marmo da anni. Un tempo non era così, un tempo questo era il miglior bar della città. Prendiamo ugualmente una brioche e lo strato di glassa è duro e la pasta difficile da masticare. Abbiamo un altro mattone adesso nello stomaco. Il cameriere è assonnato e non ha voglia. Colpisce col vassoio il bicchiere d’acqua che ha appena poggiato sul tavolo, poi si scusa. Anche lui fa parte di questa civiltà invalida della domenica. Non importa, dice Dani accennando un sorriso. Non le importa davvero, non le sarebbe importato nemmeno se le avesse versato addosso del caffè bollente. Non importa, da qualche anno dice solo così. Nemmeno a me importa. Dani la classica persona che ti sembra sia nata con quarant’anni di ritardo, nel Sessantotto avrebbe avuto vent’anni e sarebbe andata in giro a parlare di femminismo e libertà. La guardo, col suo guardaroba vecchio da una vita e sembra sempre chiedermi ‘mi spieghi che ci faccio io qui’?

Cosa fare quando una città ti tiene sospesa in un limbo e i libri non funzionano più, le ricette non funzionano più e nemmeno la pioggia e il sole? Qual è la città?


Ritorniamo a casa, e chiudo la valigia. Preparo un panino da mangiare in treno e riempio una bottiglietta d’acqua. Saluto Dani davanti la porta, ci abbracciamo forte e facciamo fatica a trattenere le lacrime.
Me ne vado.
Sono sola, tutti per strada partecipano al gioco di farmi perdere il treno, si parano davanti come ostacoli e si muovono in modo scomposto, imprecando se li si sfiora appena. Finalmente svegli, alle quattro del pomeriggio, ritornano a vivere e bestemmiare e insultare, e da questo movimento prende vita qualcosa di meraviglioso, familiare, vitale e barbarico.
La strada è in discesa e scavalcare corpi è la mia specialità. Avanzo decisa, rincuorata dal brulichio di sgambetti e gomitate. Adesso ho un obiettivo, adesso riconosco la mia città, adesso, nel caos della prima domenica del mese, tutti fanno a gara per entrare in questo o quel negozio e io mi sento di nuovo viva, immersa nell’agitazione di buste della spesa e pacchiane acconciature del fine settimana. Le smorfie delle donne romane, i sorrisi al botulino e il trucco coatto mi riportano al punto di partenza. È qui che ho iniziato a scrivere, è qui che ho iniziato ad odiare gli uomini.
Eccola finalmente quell’aria pesante e malata, eccola la città che puzza di merda, che fa sudare, che fa incazzare. Eccola la vita che cercavo. A Roma perfino la domenica può essere molesta, a Roma si digerisce male e male si dorme.

Aspetto l’autobus ma non passa. Decido di prendere la metro da San Giovanni e mi avvio in mezzo alla folla. Arrivata alla Stazione Termini mi rendo conto di quanto mi fosse mancato questo girone infernale, questo tappeto di facce arrossate che guardano all’unisono un tabellone luminoso. Odori sconcertanti di tutti i tipi e gente di tutti i colori e caldo, caldo anche in inverno, e voglia di far esplodere tutto.

È qui che devo restare, è qui che devo vivere se voglio far emergere il meglio e il peggio di me, in questa città degli eccessi, di morte e di vita, di facce pallide e mostri e botulino, di gomitate e sgambetti, di vita mortale, di gioia e di eternità.

Il treno ha un ritardo di 40 minuti. La valigia è inzuppata d’acqua, avrò chiuso male la bottiglietta.
È domenica.


venerdì 23 gennaio 2015

A sai ‘na cosa Ma’?


Te ricordi che l’artro giorno te parlavo de quer motivetto, quello geniale che avevo inventato e che m’avrebbe fatto diventa’ miliardario? Te n’ avevo parlato, no? Ecco, me lo so’ dimenticato. Non l’ho registrato quanno so’ tornato a casa, non ho preso un cazzo di appunto nemmanco cor cellulare.
Ah Ma’, il problema è che so’ incazzato nero perché quer motivetto m’avrebbe fatto fa’ i sordi e io so’ un cojone.
Che te devo di’? Vago per la città. È estate ma fa freddo. Le valigie so’ rimaste a Roma. Gli scatoloni me li ha spediti ieri Giulia ma chissà quanno arriveranno. Ah Ma’, me sento perso! Me sento come se m’avessero torto tutto, a casa, a ragazza, l’ amici. Me sento perso, tutto qua. E ‘sti cazzi che te sei operato alle corde vocali e nun poi parla’ ma sarà a seconda vorta ‘n vita mia che mando una mail e nun me ce trovo, me sembra ‘na cosa troppo formale.
Me sento come se c’avessi ‘e mestruazioni oggi. C’ho freddo. È estate, piena estate, e io c’ho freddo. Sento freddo ma nun me posso copri’, nun c’ho vestiti e i quattro stracci miei so’ dentro gli scatoloni. Me so’ fatto un giro pei negozi e vendono solo cose estive, magliette da froci, scarpette da froci, giubbottini che mamma mia.
Ah Ma’, m’hai preso in un momento brutto, nun c’ho tanta voglia de dirti come me sento perché poi pure io passo pe’ frocio. Quando te senti così nun devi parla’ co’ nessuno perché sei pesante e nun devi appesanti’ pure l’artri. Ma vabbè, tu sei amico mio e che ce voi fa’, me devi sopporta’.
A sai una cosa Ma’? C’ho er panico. Er panico ebola. Nun me prende per culo Ma’, ma qua ce so’ tanti di quei negri che m’è venuto er panico. Ce so’ persone de tutto er globo, e sai che i telegiornali per ora parlano solo de questo? Io nun ce la posso fa’. Me sento come se fossi destinato, come se me la fossi meritata l’ebola! Ma chi me l’ha fatto fa’ de veni’ qua? Chi me l’ha fatto fa’ de cerca’ lavoro qua, ah Ma’? Me sento tarmente impanicato che nun magno più, nun bevo più, me sembra che sia tutto contaminato da ‘sti negri e ‘sti zingari che vengono da fuori. Ma te pare che dovevo veni’ qua io? Hai sentito der medico de Emergency che è stato infettato? Ma hai sentito? Sta qua allo Spallanzani, sta. E te pare che lo portano qua dove sto io? Ma te pare er momento de trasferirsi a Roma? A me nun me pare. Stavo così bene a Latina!
Ah Ma’, me sento come ‘nfossato, come se sulla strada mia ce fosse ‘na grossa buca, ‘na buca concava e io ce so’ finito dentro. E da ‘sta buca nun me ne posso anna’, ce sto dentro e nun me posso move. Ma da mo’ che sto in questa buca!
Ah Ma’, so’ fermo, fermo da ‘na vita, sempre nello stesso punto. Me sento come finto, come se dovessi usa’ a dipromazia pure pe anna’ ar cesso, ‘na vita de dipromazia, tutta compromessi, sorrisi, riverenze e invece quanno me succede cor capo mio quello che penso è: ma chittesencula stronzo.
Pure Giulia sta male e se tiene il lavoro perché artrimenti sta in mezzo a ‘na strada ma sai quanti pacchi de’ fazzoletti ho comprato negli ultimi mesi? Piagne sempre, se dispera e a me me dispiace perché prima nun era così.
Ah Ma’, te voglio di’ ‘na cosa, ma tu o sai come se fa’ a capi’ quanno sei morto? Io me sento morto, come se nun c’avessi nulla da di’, nulla da fa’ pe’ cambia’ e’ cose, come se fossi morto. Prima però sognavo, te ricordi? A voglia se sognavo! C’avevo certi sogni che manco Einstein! Ma che me pensavo de diventa’ davero Jimi Hendrix o Eric Clapton? So’ un cojone so’. Ma come se fa’ a capi’ se sei morto? Sei morto quanno nun sogni più o quanno non fai che sogna’? Nun capisco se ero scemo io prima che sognavo tutto er tempo e me pensavo chissà che, oppure so’ scemo ora che nun sogno più.

Ah Massi, qua c’è un freddo! E manco i riscaldamenti posso accende perché so’ centralizzati. Ma quando s’è visto mai ‘sto freddo qua? Ma che è perché so’ arrivato io?

Ma dimme ‘na cosa Ma’. Ma quando vuoi comincia’ a vivere veramente, se voi prende veramente in mano la tua vita come fai?
Come cominci?

‘ndo vai?



domenica 4 gennaio 2015

Vucciria

Siamo tutti gomito a gomito e ci sorreggiamo a vicenda. Gli ultimi arrivati chiudono il muro. Nessuno vuole chiudere il muro, vogliamo stare tutti al centro. Qui ci si sostiene a vicenda. 
La piazza accanto è quasi vuota, in piazza staremmo tutti più larghi, ma abbiamo scelto di stiparci in questa discesa: tanti gessetti in una scatola, in piedi per non cadere, ognuno indispensabile all’altro. Odiamo i posti dispersivi, abbiamo ricreato casa nostra qui per strada e vogliamo che l’ultimo chiuda la porta. 
Alla taverna gli ospiti sono fissi, alla taverna ci andiamo tutte le sere, la taverna è la nostra microcittà, qui abbiamo tutto quello che ci serve. 

- Da quanto non ti sentivi così?
- Così come?
- Così a casa.
Hai sorriso e ti sei guardato intorno. Mi hai chiesto di brindare al ‘vecchio’, perché è il ‘vecchio’ che ti piace, è il ‘vecchio’ casa tua, queste facciate devastate, queste pietre senza senso e queste macerie, la nostra fatiscenza la disprezzi ma è casa tua. Ti piace non avere troppe pretese, sapere che le palazzine crollano insieme a te, che c’è un luogo che non cambia mai, ti fa comodo che l’indolenza di quel luogo diventi la tua di indolenza, che ne hai persi di anni ma in questo posto sembra sia tutto fermo a undici anni fa, quando avevi ‘voglia di’. Queste cento teste ti fanno da scudo, ti salvano la vita, ti proteggono dal tempo, in primo luogo.
- La Vucciria è troppo bella. 
Siamo nel mezzo del rivugghio, sicuri di non sprecare il tempo della nostra vita, siamo qui per non perderci nemmeno un attimo, per ricaricarci con l’energia depositata sotto queste basole, siamo in un vero luogo di condivisione. Adesso sai come vanno le vite di tutti, adesso non dimentichi nessuno, non trascuri nessuno. Hai un’infinità di tempo da dedicare agli altri, un’infinità di tempo per conoscere gli altri.

- La Vucciria è la Vucciria, hai detto. Mille corpi in una minuscola via, tutti stretti anche se a un metro c’è un mare di spazio.

venerdì 14 novembre 2014

Noi non siamo speciali

Al corso d’inglese l’insegnante ci chiede cosa faremo il prossimo fine settimana. 
L’ ambiente è abbastanza eterogeneo, una fetta ricca di figure professionali si incontrano due volte a settimana per dar vita ad un interessante esperimento sociale e relazionale. È in quell’aula che la carta opaca che non mi permette di vedere a un metro dal mio naso mi si stacca dagli occhi. Ci sono campioni sociali di ogni tipo: c’è il cassintegrato, l’esodato, l’avvocato, il chimico, la grafica, la studentessa, l’impiegata amministrativa, il postino e via dicendo. Qualcuno ha detto che trascorrerà il sabato a casa a riempire lavatrici e pulire i pavimenti perché durante la settimana non ha avuto tempo. Qualcun altro si rilasserà a casa guardando la tv e al massimo la sera andrà a mangiare una pizza con gli amici. O forse una passeggiata ma se non sbaglio questo fine settimana è prevista pioggia, dice un altro.

La vita di tutti noi, da un po’ di tempo, la trovo ripugnante. Ho sempre pensato che sia da sfaticati non lavorare, aspettare che il lavoro ti cada dal cielo, non impegnarti con tutte le tue forze per ottenere un colloquio, un lavoretto in un bar, in un ristorante qualsiasi. Dobbiamo pur adattarci al contesto e spegnere quei sogni velleitari che i nostri genitori ci hanno instillato come medicamento egoistico quando siamo nati, lasciarci giustamente uccidere dalla realtà perché la vecchia generazione ha preteso che i loro figli fossero i migliori, i più bravi, i più speciali. Non ci hanno detto però perché noi figli degli anni ottanta e novanta siamo speciali. E questo buco, questo vuoto di educazione ha compromesso la nostra capacità di adattamento al mondo contemporaneo. 
Io dico sì, sbattiamoci per trovare un lavoro e mettiamo da parte le lauree, sacrifichiamoci e dimentichiamoci pure di essere speciali. Perché non siamo speciali in realtà, è lo scarto tra il senso di rivalsa postuma dei nostri genitori e la realtà sociale e lavorativa che ha creato questo mito. 
Ma mi chiedo se non sia meglio così, non lavorare, avere un mucchio di tempo libero per sé stessi da non sapere come spendere perché non si percepisce uno stipendio. Perché ovviamente solo il denaro può comprare la felicità. 
Ma questo circolo vizioso, se inizi a lavorare, si spezza. 
Vado a fare shopping al centro commerciale e solo così la maledetta noia della domenica svanisce. E l’odio per la domenica ha a che fare con l’odio per il lunedì, quando vado a lavoro (non ho studiato per  fare questo lavoro ma io non sono speciale), quando cambio nuovamente ruolo sociale e mi trasformo in una persona diversa, che accetta il compromesso, una persona diplomatica e sorridente con tutti, anche con gli stronzi. Ma io non sono diplomatica e sorridente. Allora sto vivendo la vita di qualcun altro? mi chiedo. Non va bene vivere la vita di qualcun altro, essere sempre sorridenti e pazienti, indossare vestiti stretti per sembrare più magra e presentabile e soprattutto sorridere e ridere alla battute degli altri quando non c’è un cazzo da ridere. Tutto questo ridere e far finta che vada tutto bene mi farà venire un tumore. Farà venire il tumore a tutti quanti. Perché il lavoro, per come è concepito oggi, è solo un tumore. Far finta di vivere una vita normale quando non hai diritto a niente di ciò che volevi. E cosa volevi? Volevi vivere serenamente, poter dedicare del tempo alla tua individualità, a coltivare la tua identità, a crescere, imparare dagli altri, leggere e andare al cinema, a teatro, studiare  sempre, viaggiare, avere dei bambini da portare al parco, pranzare insieme la domenica, genitori figli e nonni insieme, vivere nella stessa città di tuo fratello almeno, non dover scegliere chi seguire tra il tuo ragazzo, la tua famiglia e i tuoi amici che vivono tutti quanti in posti diversi. Poter stare sereni.

Lavoratore e non lavoratore vivono entrambi in una palafitta costruita in mezzo al nulla. Chi non lavora è frustrato perché non ha i soldi ma chi lavora, i pochi soldi che guadagna, è costretto a spenderli comunque dentro quella palafitta per comprare i sogni degli altri. 

lunedì 3 novembre 2014

Porta Susa

Ho comprato le vongole al mercato del pesce, il prezzemolo e la frutta, i gianduiotti e le banane che piacciono a mia madre, i cereali che piacciono a mio fratello e la marmellata che mio padre spalma sulle fette biscottate a colazione. 
Inizio a cucinare e metto in ordine la casa.
Alle 13 scendo e prendo la bici. Inizio a pedalare veloce e per poco non metto sotto una signora. C’è il sole oggi e non fa freddo. 
Mi guardo intorno a scrutare la città, mi chiedo se può andar bene. Voglio che Torino faccia un’ottima impressione anche a chi arriva dal mare. Mi chiedo se è tutto perfetto e studio la strade per vedere se sono pulite e i cassonetti per assicurarmi che siano vuoti e il traffico e l’abbigliamento dei passanti. Niente deve disturbare la mia famiglia. Devono apprezzare questa città e il suo profumo, devono sentirsi a casa, cambiare idea e trasferirsi qui.
Sono le 13.20 e un gruppo di studenti gioca a rincorrersi davanti alla stazione. Il sole è caldo e mette di buonumore. Una ragazza si avvicina e mi chiede dove sia l’agenzia delle entrate. Un vecchio è in piedi davanti all’ingresso e guarda la gente passare. Le macchine si fermano per far attraversare i pedoni e la gente in bicicletta. Non c’è traccia di sporco, tutto brilla e il tabellone luminoso segna 15 gradi. Perfetto.
Scrivo un messaggio a mia madre per indicarle l’uscita giusta e aspetto. Controllo il meteo sul cellulare. Bel tempo fino a domenica. Bel tempo fino al giorno in cui ripartiranno.
Studio ancora una volta la cartina, dove ho cerchiato in rosso i posti migliori, quelli che voglio vedano assolutamente.
Poi squilla il telefono.
‘Uscita D’

È il momento più bello, quando vedo sbucare i sorrisi uno ad uno, loro avvolti da giubbotti e piumini che manco Totò a Milano, mi guardano e sono felici e pure io e ci abbracciamo e ci chiediamo tutti insieme ‘come stai’.
‘C’è il sole’, dico.
Prendo il borsone e lo metto nel portapacchi della mia bicicletta. 

Oggi è una bellissima giornata.

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