Ti guardo e ti dico 'finalmente'.
mercoledì 3 gennaio 2024
Sala d'attesa
venerdì 20 ottobre 2023
Zio Carmelo
Soprattutto la voce mi rimbomba nella testa, con la sgraziata raucedine di chi ha fumato stecche intere di sigarette per una vita. La voce che esplode in un boato di ospitalità e affetto non appena mi vede.
"Beella, Lauretta, come stiamo? Ti ho pensato! Vieni che ti faccio vedere una cosa speciale..."
Era questa la sua accoglienza, tutte le volte. Quando tornavo al Bosco era lui che dovevo incontrare, lui e Donna Rosa. E non so come si fa a spiegare il Bosco se non ci si è mai stati.
Il Bosco è zio Carmelo, con i suoi esperimenti culinari e la leggerezza della vita da 'comune', il suo orologio con il pallone dei Mondiali del '92, i suoi occhi piccoli e brillanti, attenti a tutto e senza giudizio, una marea di piante coltivate in un pezzo scosceso di terreno acquistato quando dalla Svizzera si trasferì in Italia, trasformato in un luogo incantato pieno di fiori, biblioteche, un teatro, una cantina, altalene, laghetti e tre casette per le sue tre figlie. Carmelo non mi è bastato mai, è per questo che voglio ricordarlo, per non perdere nemmeno un pezzo della magia che mi ha regalato.
Oltre alle meravigliose giornate dedicate alla Pasquetta, mi sono trovata al Bosco in estati torride piene di lucciole e arte, quando camminavo in strade buie con i mie amici di una vita con la faccia ricoperta di macchie di tempere, senza trucco né maschere, solo avvolta dalla poesia delle parole, della pittura, della musica, della natura.
Ho mangiato il risotto alla borragine e quello alla provola di zio Carmelo e la pasta fagioli e cozze di Donna Rosa. Ci aveva insegnato a vedercela da soli per lo più, era amorevole e ospitale ma anche fintamente burbero e spesso avvertiva il bisogno dei suoi spazi di libertà. Diceva sempre che il Bosco era un luogo da coltivare e noi di casa Mazzola dovevamo fare di tutto per non farlo morire. "Il Bosco va coltivato", ci diceva...
Carmelo è vita, è un sogno che si realizza il mattino dopo con la costruzione di un teatro a cielo aperto che Casa Mazzola ha contribuito a progettare e ultimare, è un mondo di sapere, di cultura in tutti i campi, è una sfida uno contro tutti a Trivial, è una grappa fatta in casa, un vino bianco e un vino rosso di guarnaccia, è una cornice di edera e un melone bianco dolcissimo, è una brocca di acqua riempita da una sorgente, un cesto di vimini pieno di pomodorini e verdure, è la spesa ragionata tutte le mattine dopo un'attenta conversazione con Rosa sul menu del giorno, è una canottiera azzurra, un paio di gambe bianche magre, "Il nome della rosa" di Umberto Eco, la persona che mi ha dato i consigli giusti quando volevo cambiare facoltà ed ero demotivata.
Zio Carmelo è arte, è il ragazzo della via Gluck, è Bosc
h, 'Cent'anni di solitudine', un cruciverba sempre pieno, un paio di occhiali demodé e un'intelligenza ammaliante.
Zio Carmelo era per me perseveranza. Faceva la vita dell'eremita ma era la persona più incisiva che conoscessi. Ha creato un mondo perfetto dal nulla e gli ha regalato un'aura poetica, quasi divina, sgombra di pregiudizi. Non invecchierà mai, non morirà mai.
Zio Carmelo mi ha insegnato a pesare tutto, a dare valore alle cose importanti, come mia madre, come mio padre.
Zio Carmelo è un pezzo della mia famiglia che se ne va perché si è stancato di un modo in declino.
Ci trattava come figli quel genio visionario, non era una persona qualunque, immaginava il suo mondo ideale e lo realizzava poco dopo. Sdrammatizzava sempre, era rude a volte ma aveva un cuore enorme.
Io ho avuto Carmelo, l'ho amato e lo ricorderò per sempre.
Rino Gaetano - Ma il cielo è sempre più blu (Official Video) - YouTube
venerdì 28 luglio 2023
Repressione Piemonte
Siamo nel Canavese, in un pezzo di terra usato come dormitorio e dove la gente non si è mai svegliata. Dietro di noi un uomo in camicia stropicciata, sui 50 anni, capelli lunghi brizzolati con una forte cadenza calabrese si intromette nella conversazione mentre beve la sua quinta birra da 66 cl. In realtà dice di non essere sicuro che sia la quinta perché beve per dimenticare e non se lo ricorda. Ha detto che proprio per questo motivo paga sempre in anticipo. Lo vedo triste, mentre si affanna a chiamare tutta la sua rubrica per sapere se qualcuno vuol fargli compagnia al bar. Un suo amico gli dice di sì e io mi sento sollevata per lui. Ci racconta che aveva un’amica russa e che quando lui si è permesso di parlare male di Putin lei si è arrabbiata e gli ha risposto male, irritata per il suo commento politico assolutamente fuori luogo.
Il bar è a Cuorgnè, un posto che solo a nominarlo ti fa
riflettere su quanto sia confinata l’esistenza di chi ci abita. I tavoli e le
sedie sono di un colore sgargiante come a ricordare che tutto è reale, come ad
affermare la propria esistenza, creare un piccolo rifugio magico gestito da
alcolizzati non per scelta e gente che lavora ad ore, in cui gravitano bambini
dell’asilo da una parte, paracadutisti e gente senza nome dall’altra, quasi
tutti in silenzio fino a quando qualcuno, un po’ più temerario degli altri, non
dà il ‘la’.
Questo posto mi piace perché ha voglia di esplodere. Si
percepisce per la cura del prato con i giochi per bambini, per la voglia di
comunicare che diventa impertinenza se assecondata, per l’audace posizione a
metà tra le montagne e la strada, per il servizio cordiale ma informale.
Giorgio, il proprietario, non ha mai mostrato gli occhi.
Sono coperti da occhiali da sole a specchio mentre parla senza sosta come se
non avesse davanti due persone ma due mummie che possono solo guardare e non
interagire. In un delicato equilibrio tra educazione e tatto, cerco di
interromperlo con qualche domanda tanto per ricordare che sta parlando con due
esseri umani. Giorgio per sopravvivere ha girato l’Europa, ha fatto il
cameriere, gestito bar ed è stato insieme a donne bellissime. Giorgio ha
bisogno di raccontarci tutto. Ha bisogno di parlare e non di ascoltare,
confinato in un pezzo di terra in discesa frequentato troppo raramente da
persone che accendono una conversazione. Giorgio è permaloso, ci racconta che
le spese sono raddoppiate e che gestire un locale è diventato difficile. Il
clienti, anche quelli più assidui, sono polemici per i prezzi che ritengono
troppo alti per e gli mandano messaggi di sfiducia, come ad addebitare la colpa
a lui che non c’entra nulla.
Il cielo è illuminato da un sole tiepido, quasi rilassante
dopo tre giorni di afa torrida che mi ha tolto il sorriso ma faccio fatica a digerire
Giorgio, con tutta la sua rabbia e la sua repressione. Mi piace, ha voglia di esplodere,
come il suo locale, ma ha troppi sensi di colpa, troppi rimpianti. Sua madre è malata
ed è per lei che è tornato. Ha difficoltà ad accettare la sua condizione di
maturità, ha una fidanzata russa adesso che viene a trovarlo una volta al mese.
Ha un paio di occhiali da sole a specchio, ha due ragazze che lo aiutano quando
ha bisogno, ha la vista dei paracadutisti che atterrano nel terreno sotto al
suo bar.
Giorgio non esiste finché non parla a ruota libera, resiste
perché parla senza sosta e ci coinvolge nel suo finto divertimento alcolico,
nelle sue avventure che ormai sono un ricordo lontano.
Ho letto le recensioni del locale, birra fresca, i paracadutisti
che mangiano bene, ambiente e personale affabile. Il proprietario Marco è
gentile e molto bravo in cucina, non si ferma a disturbare i clienti quando mangiano,
i prezzi sono bassi e la posizione regala un bel paesaggio.
Ma lui non è Marco, lui è Giorgio, il nuovo gestore. Lui
ancora non esiste.
Quindi voglio dire a Giorgio che è nel concetto di
repressione che vivo la quotidianità o meglio sono le persone intorno a me che
vivono la repressione in tutta la loro solitudine. Qui la gente vive in un isolamento che da involontario si fa volontario. Solo i più tormentati e
caparbi resistono al richiamo della socialità e resistono come hanno fatto la
prima volta, quando hanno visto cosa c’è oltre le montagne e non si sono
fermati nel parco con il prato all’inglese e fanno in modo che
quella curiosità di vivere che sembra una sensazione di troppo schizzi fuori
dagli occhiali a specchio per colpire tutti gli interlocutori del mondo.
martedì 6 giugno 2023
Gioia e burnout
Gioia mia, oggi ti parlerò della gioia e della difficoltà di assaporarla a pieno.
La gioia è quello stato di
ebbrezza che ci rende felici, che ci regala piacere, è un figlio che impara a
camminare, una serata con gli amici a ridere, un rapporto sessuale, un’attività
sportiva, un riconoscimento per il proprio lavoro, la realizzazione di un
progetto a noi caro, una vincita, un amore, un viaggio.
La parola gioia ha a che fare con
i bisogni individuali e con quelli sociali. Che cosa significa questo?
Significa che la realizzazione dei bisogni individuali deve fare i conti con
quella dei bisogni sociali ed è per questo che spesso la gioia è accompagnata
dalla vergogna, per motivi che spaziano dalla religione, alla moda, al contesto
culturale. La vergogna viene fuori quando siamo egoisti e causa uno spegnimento
del piacere o un suo affievolimento.
Ecco perché dici di non essere
mai pienamente felice, c’è una spiegazione. Non sei mica tu il problema. La
gioia oggi non può essere esclusiva, totale, perché prevede sempre una regolazione
emotiva determinata dagli ‘altri’. Solo l’equilibrio tra gioia e vergogna ci
permette di essere socialmente adeguati.
Gli episodi di burnout
sono una conseguenza dello scarto tra la realizzazione individuale, la
soddisfazione cioè delle proprie aspettative, e una reale assenza delle condizioni
per soddisfarle.
Ho capito solo adesso cosa ci è
successo, quando ho letto dello scarto tra la vita professionale immaginata e
quella reale, il disagio psicofisico connesso principalmente al lavoro, l’esaurimento
emotivo, la depersonalizzazione e il nostro atteggiamento cinico, l’insoddisfazione
personale e il senso costante di depressione. Ci svegliamo controvoglia e
andiamo a lavorare per evitare di sentirci inadeguati. Il senso di impotenza
che a volte ci pervade è talmente frustrante da far sì che somatizziamo tutto
e, con un reflusso gastroesofageo, una tonsillite o la febbre a 40, il nostro
corpo si assenta per un periodo come a proteggere la mente dal declino della
frustrazione. Così a volte il corpo sopporta il peso di tutto questo per
salvare la mente e la mente a volte sopporta il peso per salvare il corpo.
La gioia, in questo contesto di
disagio di cui ci troviamo a far parte, è quasi mal vista. Pensa agli haters
che godono nel distruggere il benessere, che nutrono invidia se la gioia di un
utente Facebook è espressa consapevolmente o inconsapevolmente, se prevale la
gioia individuale ovvero quella che rappresenta la vera realizzazione della
propria volontà. I momenti di gioia e piacere hanno da sempre un rovescio della
medaglia: il nutrimento è associato alla lussuria, il riposo alla pigrizia, l’accoppiamento
alla lussuria.
Hai capito adesso perché ci
sentiamo come dei fuochi d’artificio inesplosi? Abbiamo un potenziale enorme ma
la città è isolante con i suoi rapporti sociali sempre più inesistenti a meno
che tu non sia uno studente, sia chiaro. Solo in quel caso provi gioia perché
ti rendi conto di avere ancora un cervello e delle potenzialità, è un momento
di gioia regolamentato che stimola l’autostima e il piacere di conoscere, di
sapere e scoprire nuove realtà.
L’ambiente lavorativo invece ci spreme
come tubetti di colore senza un criterio, solo per il piacere di farlo,
sfruttando il nostro corpo senza stimolare il cervello, macchiando tele bianche
senza alcun progetto reale e condiviso.
Gioia mia, mi dici spesso che
vorresti ricominciare da zero, in un paese in cui non ti conosce nessuno e in
cui la gente sorride di più, vive con più leggerezza. Il motivo è questo, l’irrealizzazione
del sé e della propria natura, l’impossibilità della gioia individuale, che sia
anche solo una partita di pallone, senza che questa venga tassonomizzata da un ranking
sociale che prima era molto più ristretto. Tutto il mondo adesso ci guarda e noi
sappiamo che ci sta guardando e ci sentiamo per questo immobilizzati, fermi, in
attesa di capire quale mossa sia la migliore.
Il futuro è ancora lontano e non
sappiamo cosa vogliamo fare da grandi. Il senso di speranza ci avvolge e ci
suggerisce che possiamo immaginare una vita migliore in cui è possibile che la
soddisfazione individuale coincida con quella sociale. È lì che cerchiamo la gioia,
nel frattempo possiamo solo scegliere i compagni per condividerne una
idealizzata.
Le basi - 3. Gioia (google.com)
venerdì 26 maggio 2023
Disgusto