domenica 4 gennaio 2015

Vucciria

Siamo tutti gomito a gomito e ci sorreggiamo a vicenda. Gli ultimi arrivati chiudono il muro. Nessuno vuole chiudere il muro, vogliamo stare tutti al centro. Qui ci si sostiene a vicenda. 
La piazza accanto è quasi vuota, in piazza staremmo tutti più larghi, ma abbiamo scelto di stiparci in questa discesa: tanti gessetti in una scatola, in piedi per non cadere, ognuno indispensabile all’altro. Odiamo i posti dispersivi, abbiamo ricreato casa nostra qui per strada e vogliamo che l’ultimo chiuda la porta. 
Alla taverna gli ospiti sono fissi, alla taverna ci andiamo tutte le sere, la taverna è la nostra microcittà, qui abbiamo tutto quello che ci serve. 

- Da quanto non ti sentivi così?
- Così come?
- Così a casa.
Hai sorriso e ti sei guardato intorno. Mi hai chiesto di brindare al ‘vecchio’, perché è il ‘vecchio’ che ti piace, è il ‘vecchio’ casa tua, queste facciate devastate, queste pietre senza senso e queste macerie, la nostra fatiscenza la disprezzi ma è casa tua. Ti piace non avere troppe pretese, sapere che le palazzine crollano insieme a te, che c’è un luogo che non cambia mai, ti fa comodo che l’indolenza di quel luogo diventi la tua di indolenza, che ne hai persi di anni ma in questo posto sembra sia tutto fermo a undici anni fa, quando avevi ‘voglia di’. Queste cento teste ti fanno da scudo, ti salvano la vita, ti proteggono dal tempo, in primo luogo.
- La Vucciria è troppo bella. 
Siamo nel mezzo del rivugghio, sicuri di non sprecare il tempo della nostra vita, siamo qui per non perderci nemmeno un attimo, per ricaricarci con l’energia depositata sotto queste basole, siamo in un vero luogo di condivisione. Adesso sai come vanno le vite di tutti, adesso non dimentichi nessuno, non trascuri nessuno. Hai un’infinità di tempo da dedicare agli altri, un’infinità di tempo per conoscere gli altri.

- La Vucciria è la Vucciria, hai detto. Mille corpi in una minuscola via, tutti stretti anche se a un metro c’è un mare di spazio.

venerdì 14 novembre 2014

Noi non siamo speciali

Al corso d’inglese l’insegnante ci chiede cosa faremo il prossimo fine settimana. 
L’ ambiente è abbastanza eterogeneo, una fetta ricca di figure professionali si incontrano due volte a settimana per dar vita ad un interessante esperimento sociale e relazionale. È in quell’aula che la carta opaca che non mi permette di vedere a un metro dal mio naso mi si stacca dagli occhi. Ci sono campioni sociali di ogni tipo: c’è il cassintegrato, l’esodato, l’avvocato, il chimico, la grafica, la studentessa, l’impiegata amministrativa, il postino e via dicendo. Qualcuno ha detto che trascorrerà il sabato a casa a riempire lavatrici e pulire i pavimenti perché durante la settimana non ha avuto tempo. Qualcun altro si rilasserà a casa guardando la tv e al massimo la sera andrà a mangiare una pizza con gli amici. O forse una passeggiata ma se non sbaglio questo fine settimana è prevista pioggia, dice un altro.

La vita di tutti noi, da un po’ di tempo, la trovo ripugnante. Ho sempre pensato che sia da sfaticati non lavorare, aspettare che il lavoro ti cada dal cielo, non impegnarti con tutte le tue forze per ottenere un colloquio, un lavoretto in un bar, in un ristorante qualsiasi. Dobbiamo pur adattarci al contesto e spegnere quei sogni velleitari che i nostri genitori ci hanno instillato come medicamento egoistico quando siamo nati, lasciarci giustamente uccidere dalla realtà perché la vecchia generazione ha preteso che i loro figli fossero i migliori, i più bravi, i più speciali. Non ci hanno detto però perché noi figli degli anni ottanta e novanta siamo speciali. E questo buco, questo vuoto di educazione ha compromesso la nostra capacità di adattamento al mondo contemporaneo. 
Io dico sì, sbattiamoci per trovare un lavoro e mettiamo da parte le lauree, sacrifichiamoci e dimentichiamoci pure di essere speciali. Perché non siamo speciali in realtà, è lo scarto tra il senso di rivalsa postuma dei nostri genitori e la realtà sociale e lavorativa che ha creato questo mito. 
Ma mi chiedo se non sia meglio così, non lavorare, avere un mucchio di tempo libero per sé stessi da non sapere come spendere perché non si percepisce uno stipendio. Perché ovviamente solo il denaro può comprare la felicità. 
Ma questo circolo vizioso, se inizi a lavorare, si spezza. 
Vado a fare shopping al centro commerciale e solo così la maledetta noia della domenica svanisce. E l’odio per la domenica ha a che fare con l’odio per il lunedì, quando vado a lavoro (non ho studiato per  fare questo lavoro ma io non sono speciale), quando cambio nuovamente ruolo sociale e mi trasformo in una persona diversa, che accetta il compromesso, una persona diplomatica e sorridente con tutti, anche con gli stronzi. Ma io non sono diplomatica e sorridente. Allora sto vivendo la vita di qualcun altro? mi chiedo. Non va bene vivere la vita di qualcun altro, essere sempre sorridenti e pazienti, indossare vestiti stretti per sembrare più magra e presentabile e soprattutto sorridere e ridere alla battute degli altri quando non c’è un cazzo da ridere. Tutto questo ridere e far finta che vada tutto bene mi farà venire un tumore. Farà venire il tumore a tutti quanti. Perché il lavoro, per come è concepito oggi, è solo un tumore. Far finta di vivere una vita normale quando non hai diritto a niente di ciò che volevi. E cosa volevi? Volevi vivere serenamente, poter dedicare del tempo alla tua individualità, a coltivare la tua identità, a crescere, imparare dagli altri, leggere e andare al cinema, a teatro, studiare  sempre, viaggiare, avere dei bambini da portare al parco, pranzare insieme la domenica, genitori figli e nonni insieme, vivere nella stessa città di tuo fratello almeno, non dover scegliere chi seguire tra il tuo ragazzo, la tua famiglia e i tuoi amici che vivono tutti quanti in posti diversi. Poter stare sereni.

Lavoratore e non lavoratore vivono entrambi in una palafitta costruita in mezzo al nulla. Chi non lavora è frustrato perché non ha i soldi ma chi lavora, i pochi soldi che guadagna, è costretto a spenderli comunque dentro quella palafitta per comprare i sogni degli altri. 

lunedì 3 novembre 2014

Porta Susa

Ho comprato le vongole al mercato del pesce, il prezzemolo e la frutta, i gianduiotti e le banane che piacciono a mia madre, i cereali che piacciono a mio fratello e la marmellata che mio padre spalma sulle fette biscottate a colazione. 
Inizio a cucinare e metto in ordine la casa.
Alle 13 scendo e prendo la bici. Inizio a pedalare veloce e per poco non metto sotto una signora. C’è il sole oggi e non fa freddo. 
Mi guardo intorno a scrutare la città, mi chiedo se può andar bene. Voglio che Torino faccia un’ottima impressione anche a chi arriva dal mare. Mi chiedo se è tutto perfetto e studio la strade per vedere se sono pulite e i cassonetti per assicurarmi che siano vuoti e il traffico e l’abbigliamento dei passanti. Niente deve disturbare la mia famiglia. Devono apprezzare questa città e il suo profumo, devono sentirsi a casa, cambiare idea e trasferirsi qui.
Sono le 13.20 e un gruppo di studenti gioca a rincorrersi davanti alla stazione. Il sole è caldo e mette di buonumore. Una ragazza si avvicina e mi chiede dove sia l’agenzia delle entrate. Un vecchio è in piedi davanti all’ingresso e guarda la gente passare. Le macchine si fermano per far attraversare i pedoni e la gente in bicicletta. Non c’è traccia di sporco, tutto brilla e il tabellone luminoso segna 15 gradi. Perfetto.
Scrivo un messaggio a mia madre per indicarle l’uscita giusta e aspetto. Controllo il meteo sul cellulare. Bel tempo fino a domenica. Bel tempo fino al giorno in cui ripartiranno.
Studio ancora una volta la cartina, dove ho cerchiato in rosso i posti migliori, quelli che voglio vedano assolutamente.
Poi squilla il telefono.
‘Uscita D’

È il momento più bello, quando vedo sbucare i sorrisi uno ad uno, loro avvolti da giubbotti e piumini che manco Totò a Milano, mi guardano e sono felici e pure io e ci abbracciamo e ci chiediamo tutti insieme ‘come stai’.
‘C’è il sole’, dico.
Prendo il borsone e lo metto nel portapacchi della mia bicicletta. 

Oggi è una bellissima giornata.

venerdì 5 settembre 2014

Partenze

Sono sempre sola in aeroporto. Tutti gli altri sono in gruppi di due o tre o addirittura intere famiglie allargate. Li invidio, è più facile dividere l’angoscia della partenza con qualcuno. Vedo tutti come se li osservassi dall’esterno, come se fossi invisibile. Nessuno mi guarda, sono tutti presi dalla partenza, dal mare o dalle nuvole, tutti pieni di sole e salsedine. Io li guardo e mi viene da piangere.

Arrivata al corridoio delle partenze, torno indietro per fumare l’ultima sigaretta prima del volo. Le porte scorrevoli si aprono sul mare. 
Il mare lo rivedrò solo a dicembre e oggi è una tavola, peccato, proprio oggi che devo partire. Da quel primo piano dell’aeroporto Palermo sembra magnifica, con l’afa che ti anestetizza e l’aria condizionata appena varchi la porta scorrevole, il sole accecante, i toni paglia che colorano gli sguardi e le contraddizioni spazzate via dal vento forte. Man mano che scompare, vista dall’aereo al decollo, la vedi in tutto il suo splendore, pura e cristallina come poche. È allora che inizi a rimpiangerla davvero, e l’intero viaggio diventa una sconfitta. Il senso di sconfitta non scompare né all’atterraggio né sul pullman che mi porta a casa e continua fino al giorno dopo, quando riesco ad abituarmi al silenzio surreale di Torino.

Mio padre mi ha appena lasciata alle partenze e mi ha riempito la testa di raccomandazioni. E io ho ancora un groppo in gola perché mi chiedo quando i miei genitori sono diventati così fragili, quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho litigato con mia madre e lei mi ha parlato dei sui problemi, quanto tempo è passato dall’ultima volta che abbiamo visto un film insieme o le ho cucinato qualcosa. Mi chiedo da quanto tempo non facciamo un viaggio insieme. Mi sento come se non sapessi più nulla di loro, come se la mia famiglia avesse una nuova famiglia di cui io non faccio parte. I miei nonni se ne sono andati, inghiottiti da divani e letti sui quali mi sono seduta mille volte e non so più nulla di loro, cosa hanno fatto negli ultimi anni e sto perdendo il contatto con la realtà ed è difficile rifarsi una famiglia altrove, non sapere se e quando sbagli, senza nessuno che ti dà delle dritte e condivide le tue scelte.
Anche la diaspora dei miei amici è stata un duro colpo. Loro sono tutti incazzati, esattamente come me. È difficile seguire le loro giornate, i loro pensieri, i loro spostamenti. 
Palermo è stata per me uno stimolo alla sopravvivenza, un test, una prova che ero ancora viva. 
Ora sono in una stanza bianca, deserta e senza istruzioni. Sono senza istruzioni. Ma essere senza istruzioni è forse il grande passo verso l’indipendenza. Ma che me ne faccio dell’indipendenza se non ho più qualcuno con cui parlare? 
Sto qui, tra i miei libri e le mie bollette, e improvvisamente mi manca una passione, mi mancano gli stimoli, mi manca la vitalità.


Questo aveva pensato, che se da bambina odiava il fatto che i suoi genitori scegliessero per lei, quando si era allontanata da loro aveva provato piacere nel fare l’esatto opposto: adottare il loro punto di vista e scegliere ciò che prima non avrebbe mai voluto scegliere.

Pensò che in fondo era la stessa cosa che le era capitata quando Bud era andato via da casa. Lui comprava ad Arden le stesse cose che lei comprava per suo figlio e che suo figlio diceva di detestare: gli stessi cereali, le stesse bistecche e le stesse calze a righe. Perché forse era naturale agire così, sentirsi confusi prima di essere ciò che si è veramente”.

giovedì 26 giugno 2014

Consigli di lettura

Kitchen confidential - Anthony Bourdain
Firmino - Sam Savage 
La camera azzurra - Georges Simenon
La trilogia della città di K. - Agota Kristof 
Previsioni del tempo - Wu Ming
Il padre e lo straniero - Giancarlo De Cataldo
Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia - Giuseppe Rizzo
Dieci dicembre - George Saunders
La strada - Cormac McCarthy

Questo è l’elenco dei libri che ho avuto modo di leggere negli ultimi due mesi. Alcuni mi sono piaciuti, altri per niente. 
In assoluto quello che ho amato di più tra questi libri è La trilogia della città di K. di Agota Kristof. Non solo la storia è davvero avvincente ma la Kristof fornisce un vero e proprio prontuario per chi desidera scrivere, consigliando linearità e trasparenza. Niente giri di parole, struttura semplice e trama complessa. Un esercizio letterario davvero notevole.
Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia (Agota Kristof, Trilogia della citta di K., Einaudi)

Al secondo posto metterei La strada di Cormac McCarthy. Questo libro post apocalittico mi ha fatto piangere. Scrittura minimalista, asciutta ed esemplare. Descrizioni fredde e secche, perfette direi. Sembra che non succeda niente durante l’intera narrazione ma è come se il lettore si trasformasse man mano che legge. Ho avuto l’angoscia per una settimana e credo che quindi McCarthy sia riuscito nell’intento che si era prefissato. Quando entri così dentro la storia allora vuol dire che le parole funzionano bene.
Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l'inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava ad ogni prezioso respiro. Si tolse di dosso il telo di plastica, si tirò su avvolto nei vestiti e nelle coperte puzzolenti e guardò verso est in cerca di luce ma non ce n'era. Nel sogno da cui si era svegliato vagava in una caverna con il bambino che lo guidava tenendolo per mano. Il fascio di luce della torcia danzava sulle pareti umide piene di concrezioni calcaree. Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito. Profonde gole di pietra dove l'acqua sgocciolava e mormorava. I minuti della terra scanditi nel silenzio, le sue ore, i giorni, gli anni senza sosta. Poi si ritrovavano in una grande sala di pietra dove si apriva un lago nero e antico. (Cormac McCarthy, La strada, Einaudi)

Al terzo posto metterei La camera azzurra di Simenon. Strutturato molto bene, con una ricostruzione a ritroso dei fatti degna di un vero maestro, è un libro che si legge d’un fiato. Molto ben costruiti i personaggi, studiati con cura e analizzati psicologicamente nel dettaglio al fine di spiegarne i gesti. 
Ti ho fatto male?
No
Ce l’hai con me?
No
Era vero. In quel momento tutto era vero, perché viveva ogni cosa così come veniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare che un giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire. E non solo tutto era vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto sfatto, nuda, con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma. Era felice? Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto di sì senza esitare. (Georges Simenon, La camera azzurra, Adelphi)

Quarto posto Firmino, libro leggero e scritto con una sensibilità letteraria incredibile. Firmino è il topino lettore dotato di un’immaginazione catastrofica, che vede tragedie ovunque e per questo gli ho subito voluto bene, perché un po’ mi somiglia.
Tutta la vita ho portato sulle spalle il fardello di un'immaginazione mostruosa, che mi ha quasi paralizzato. (Sam Savage, Firmino, Einaudi)

Al quinto posto un libro che inizialmente non mi aveva convinto ma che vale la pena di comprare anche solo due racconti a mio avviso strepitosi. Dieci dicembre è una raccolta di racconti di George Saunders. Racconti molto cerebrali che richiedono una forte partecipazione del lettore, uno sforzo di immaginazione e la pazienza di passare da uno stile all’altro a distanza di poche pagine. Da leggere assolutamente il racconto “Fuga dall’aracnotesta” che ho trovato geniale per l’idea, e “Le ragazze Semplica” che stravolge totalmente il concetto di letteratura classica. Insomma Saunders secondo me è totalmente pazzo.
Mettiamo che uno non sa amare, no? Problema risolto. Provvediamo noi. Mettiamo che uno ama troppo, no? O ama una persona che un familiare o chi per lui reputa inadatta... Gli diamo una bella regolata, a questo amore. Mettiamo che uno è triste, perché ama davvero. Entriamo in azione noi, o un familiare o chi per lui, e addio tristezza. Non saremo più navi alla deriva, a livello di controllabilità emotiva. mai più. Se vediamo una nave alla deriva, saliamo a bordo e montiamo il timone. La guidiamo verso l’amore. O nella direzione opposta. Dici che hai solo bisogno di amore? To’, ecco pronto l’ED289/290. Possiamo fermare la guerra? Be’, cacchio, quantomeno gli mettiamo il rallentatore! Improvvisamente i soldati iniziano a trombare coi nemici. O, a basso dosaggio, a volersi un gran bene. (George Saunders, Dieci dicembre, Minimum Fax)

Al sesto posto Previsioni del tempo, libro ambientato sull’Appennino emiliano che parla di rifiuti e corruzione. Forse non è una delle migliori opere del collettivo ma credo che contenga delle massime molto belle che, personalmente, ho annotato sul mio diario.
Le strade si erano fatte più distanti; ne percepiva eco e odori, però, sensazione nelle viscere, grumo nero mosso dalla disperazione. La città, disperazione organizzata, muoveva membra, articolava parole, accoglieva alcuni come un grembo, altri li sputava fuori, come semi d’uva. (Wu Ming, Previsioni del tempo, Einaudi)

Settimo posto per Bourdain, il famoso chef di New York. Kitchen confidential è un libro leggero, divertente, scorrevole. Mi piace come si esprime Bourdain, è leggero e usa parolacce in ogni frase.
Se ti offendi facilmente per degli insulti diretti sulle tue origini, le circostanze della tua nascita, la tua sessualità, il tuo asptto, la possibilità che i tuoi genitori si siano accoppiati con degli animali, allora il mondo della ristorazione non fa per te. Poniamo invece che tu veramente succhi cazzi, lo ‘prendi nel culo’: ciò non pregiudica la tua sopravvivenza. A nessuno importa veramente. (Anthony Bourdain, Kitchen Confidential, Feltrinelli)

Ottavo posto Giuseppe Rizzo con Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia.
Il titolo è molto buono secondo me. Io l’ho comprato per questo. Mi aspettavo molto di più a dire il vero, ma alla fine ho constatato che non ne valeva troppo la pena. L’ho trovato un libro per liceali, una cosa così, senza senso. Ce ne sarebbero stati di motivi per radere al suolo la Sicilia, ma quelli di Rizzo mi sembravano inconsistenti. 
Bisognerebbe mettere mano alla pistola ogni volta che qualcuno dice della splendida decadenza e dell’irredimibilità di questo posto, come fanno Camilleri Pirandello Tomasi. Bisognerebbe appiccare il fuoco, incendiare tutto, cambiare i connotati toponomastici e geografici di quest’isola, togliere ogni punto di riferimento agli isolani e al resto del mondo. Bisognerebbe, ecco, bisognerebbe che qualcuno si decidesse a scrivere un piccolo manuale per organizzare una guerra lampo, radere al suolo la Sicilia e resettare la mente di quelli un po’ cretini come te. (Giuseppe Rizzo, Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, Feltrinelli)

Ultimo posto, categoricamente, Il padre e lo straniero di De Cataldo. Cos’è? Non lo so. Un libro buonista, appena abbozzato, frasi sconnesse e storia tanto confusa quanto debole. Non mi è piaciuto per niente.
«E c'erano stati momenti in cui si era sentito impazzire, perché avevano un bel dire e suggerire, i professori, gli esperti, gli estranei, ma a suo figlio era stato negato il diritto di vivere, e allo stesso tempo avrebbe vissuto una vita sulla soglia dell'oscurità permanente».   (Giancarlo De Cataldo, Il padre e lo straniero, Einaudi)


Adesso sto leggendo La Vendetta, una micro raccolta di racconti della Kristof. Il primo racconto parla di una signora che uccide il marito con una scure. È lungo solo due pagine ma è un perfetto anticipo di ciò che promette questo libro: ironia macabra, visionarietà e immaginazione distorta e allucinata. Mentre leggevo, ieri sera, la bocca ha disegnato un ghigno sul mio viso. 


  



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