giovedì 6 febbraio 2014

La Palermo che si autodistrugge

Avvinghiati ai calcinacci, alle pietre, alla spazzatura, veli di polvere ci separano dal mondo,  l’opacità delle cose, le strade unte, la fatiscenza che ci relega ai confini del mondo. 
Parlare di una città è sbagliato. Palermo non è una città, è un luogo che si è fermato al Dopoguerra e noi abbiamo scelto di preservarla nelle sue storture, nelle sue deficienze, nelle sue mancanze e malformazioni. 
Questa volta tutti sono sopravvissuti, le bottiglie riverse in piazza, i cani randagi nati dall’incuria, i furgoni-ristorante, le risse, tutto preservato come nel più magnanimo dei miracoli. Questa volta siamo salvi. 
Ma non è mica tra la spazzatura che vogliamo vivere, e questa fatiscenza che noi palermitani amiamo ci farà implodere tutti, le piazze del centro imploderanno stanche della loro stessa rovina, le strade si sgretoleranno e i turisti affonderanno mentre viaggiano in carrozza, continueremo a sputare per terra, a distruggere e apprezzare solo il mare i colori e il bel tempo.
Si può vivere meglio, credo, in qualsiasi altro luogo. Si può vivere fuori dalle macerie, si possono abitare luoghi più sicuri.
Perché queste rovine diventino edifici o ancor meglio opere d’arte, bisogna allontanare l’amore per il marcio, per la decadenza, questa passione per i detriti, per gli avanzi.
Noi non meritiamo avanzi, sia chiaro. 

La nostra città merita di essere ricostruita, di essere sicura, di essere salva.

Piazza Garraffaello, 5 febbraio 2014

martedì 28 gennaio 2014

"chiuditi a riccio"

Il giornalismo dei tg vive da sempre un bel paradosso: rimanere indifferenti a tragedie immani. Ci siamo abituati tutti, infatti, alle tragedie.
Se li guardi, questi giornalisti della tv, sembrano indifferenti a tutto, sembra che i fatti di cui parlano siano legati geograficamente ad una galassia che non esiste. 
Questo è il primo motivo per cui odio i telegiornali. Ma cavolo, ogni tanto ti deve scappare un'espressione da quella faccia di bronzo, non so per sbaglio magari, ti si inarcano involontariamente le sopracciglia, un gesto di disappunto con l'angolo delle labbra, qualcosa, qualunque cosa che possa indicare che pure tu, giornalista di un altro mondo, sei un essere umano. E invece no, perché il giornalismo da noi è da sempre finzione.
Informazione piatta che al massimo verrà poi rielaborata dai telespettatori. O ruttata dagli spettatori, dipende dal livello di gastrite di ognuno. O bestemmiata, vedete voi.

Analizziamo le notizie di questi giorni.
Renzi ha incontrato Berlusconi al Nazareno: qualunque potesse essere il motivo, Berlusconi è pur sempre un imputato per frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita, induzione alla prostituzione minorile eccetera eccetera. 
Riina minaccia Di Matteo dal carcere. Il capo dello Stato non dice nulla, non una sola parola su un morto che cammina. Facciamo finta di niente. 
Ieri ti hanno chiamato ‘boia’ caro Napolitano, e fino a lunedì prossimo non si parlerà che di questo. Non è corretto chiamarti 'boia', è vero, ma non siamo tanto distanti dalla realtà. Tu, presidente della Repubblica, dovresti tutelare i nostri ‘morti che camminano’, i nostri eroi e, dopo la morte di Falcone e Borsellino, non credo che gli italiani perdoneranno altri ‘morti annunciati’ di mafia. Riina invece se ne sta tranquillo e dialoga indisturbato con Lorusso, criminale pugliese, e gli spiega che deve succedere un manicomio. E tu nemmeno una parola hai detto, una parola di solidarietà ad un magistrato che fa il suo dovere. 
Ti aspettiamo, Riina. Sei a posto, perché non c’è nessuno che in questo paese protegga i magistrati e chiunque voglia collaborare per la giustizia. Lo abbiamo visto nella puntata del 20 gennaio di Presa Diretta , in cui si evince che i testimoni di giustizia sono trattati come lebbrosi e vengono isolati per bene, e possono morire da un momento all’altro perché lo Stato tanto è complice. E tutti ‘sti stronzi, Lea Garofalo per esempio o Piera Aiello o Giuseppe Carini, tutti questi, inseriti in un programma che si chiama paradossalmente ‘programma protezione’, sono in realtà da eliminare perché sono solo dei pesi per il governo e perché non gliene fotte niente a nessuno. 

Non c’è che dire, la De Girolamo si dimette, e a me che me ne fotte, non sono queste le notizie che mi interessano, dice che è stata privata della sua dignità e del suo onore per la storia dell’Asl di Benevento. E ‘sti cazzi? Ben le sta. Mi pare ci siano cose più importanti della sua dignità.
E il papa? Gli rubano l’ampolla di sangue? La reliquia? Pista satanica? Si parla di ‘furto su commissione’. Interessante.

La gente fa la fila alle Poste per pagare la mini IMU. 
'Ma come si paga? Ma come si calcola? Come facciamo a sapere...?' 
'Signora, se la deve calcolare da sola, su Internet ha capito?'
'Ma io Internet non ce l'ho. Allora non so signora, vada in un Caf'. 
Ma ti pare che il governo dice alla gente di pagare le tasse, ognuno si calcola l'importo, se sbaglia paga la mora, e via con la rissa negli uffici pubblici. Bel paese di merda!

Privatizzano le aziende statali, dicono che si chiamano ‘esternalizzazioni’ e che anche uno che ha il contratto a tempo indeterminato da oggi rischia il licenziamento, l’IVA è al 22% e si risparmia pure sugli assorbenti, i commercianti di tutti i tipi non fanno lo scontrino nemmeno per i pagamenti di duemila euro, niente fattura, niente casini, paghi 100 euro in meno e qua la mano. 



E continuiamo a guardare i telegiornali e a farci avvelenare le cene. Io non lo guardo più il tg ma quando lo guardo mi viene la gastrite. E devo prendere il Riopan. Il medico dice (ridendo) che devo prenderlo ogni volta che guardo il tg o sfoglio un quotidiano. Così, per prevenzione.
Mi viene in mente il consiglio di Duccio, il personaggio di Boris. Lui sì che lo prendo sul serio. 



martedì 21 gennaio 2014

Alzheimer

La giornata che scorre a singhiozzo, tra bagno e cucina, apatia e noia mortale. 
La vedi che prende la forchetta e non ricorda più a cosa serve, fa domande su bambini inesistenti, parla solo di persone morte, ha lo sguardo vitreo e ride per cose senza senso. Ricorda ancora, fortunatamente, che le olive hanno il nocciolo e così non si affoga, mastica lentamente. E sa ancora che quella che sta mangiando è pasta col pesto ma sembra che non senta più i sapori perché quella pasta è uguale a tutte le altre. 
Crede che mio fratello sia ancora il bambino di due anni che si è versato la candeggina sulla maglietta e che io abbia dei figli. Riconosce ancora mio padre, crede che il cane parli e sia arrabbiato con lei e fa tantissimi discorsi senza senso.

Quando è andata via, le ho mandato un bacio da lontano, lei era già salita in macchina con mio padre. Mi ha guardato, io sulla soglia di casa, mi ha sorriso e l'ho salutata con la mano, le ho mandato un bacio e le ho sorriso. Per due o tre volte ci siamo mandate baci da lontano. 
Poi mi ha guardata con lo sguardo spento, totalmente alienata e stanca. 
Chissà se si ricorda ancora di me.

Non posso fare nulla nonna, solo abbracciarti forte e sperare che tu riconosca almeno il mio profumo per potermi sorridere ancora.

lunedì 13 gennaio 2014

"La scuola dei disoccupati" di Zelter

C’è una libreria, a Torino, che apre le porte nel cuore della notte e pullula di “nuovi profeti”.
Tra gli scaffali spiccano scelte editoriali inusuali, libri di nicchia intervallati da bicchieri contenenti rimasugli di cocktails. È lì che ho trovato La scuola dei disoccupati di Joachim Zelter, testo balordo e paradossale, pubblicato in Germania nel 2006 e in Italia da Isbn Edizioni nel 2012.

Questo libro va letto come una profezia, una di quelle profezie buone che fanno riflettere, una di quelle profezie che possono servire da monito e insegnamento.
Zelter, professore tedesco che insegna letteratura inglese all’Università di Tubinga e a Yale, racconta il 2016, anno in cui l’Europa conta più di dieci milioni di disoccupati. Un futuro ipotetico che vede la Germania in piena crisi economica, una crisi che viene fronteggiata, grazie all’aiuto dell’Agenzia Federale per il lavoro, con l’istituzione di una vera e propria scuola per disoccupati, chiamata Sphericon, vecchio capannone industriale svuotato di tutte le macchine.
Il libro di Zelter, che si propone come satira attualissima, appare quanto mai illuminante e profetico. La scrittura asciutta e didascalica annulla ogni sentimento dei protagonisti, che sembrano più marionette grigie che esseri umani in carne ossa. La fantascienza è il pretesto per parlare dell’attualità, in forma decisamente onirica e circense ma pur sempre reale.
La scuola dei disoccupati è un luogo in cui vengono condotti uomini e donne con un’età compresa tra i 25 e i 40 anni, individui che hanno perso la speranza, apatici e pallidi, resi inermi dalla mancanza di lavoro e guidati da 150 istruttori belli, abbronzati e con i denti bianchissimi che, a detta di Zelter, li trasformeranno in uomini di successo. 
Insegnano materie come Elaborazione biografica, Modellazione drammatica, Training telefonico o Aspetti astrali della candidatura.
Durante la prima lezione gli allievi sono invitati a “scavarsi la fossa”, nel vero senso della parola, imbracciando vanga e piccone in segno di buon auspicio per la nuova imminente vita. Dentro la fossa potranno lasciare tutte le false speranze e aspettative, i sogni e le illusioni. Ogni fossa è un nuovo inizio, un distacco dal passato.
Ma la preoccupazione principale degli istruttori di Sphericon, termine che fa riferimento all’apertura, intesa come critica verso se stessi e verso gli altri, è quella di insegnare agli allievi a redigere la lettera di presentazione e il curriculum vitae perfetti, ricorrendo all’immaginazione e alla fantasia nell’esercizio dell’elaborazione biografica. 
Colpisce l’ironia dell’autore quando descrive il direttore della scuola, che ai suoi allievi si rivolge così: «un curriculum vitae vincente non è dato da ciò che è stato, ma da ciò che avrebbe potuto essere, per condurre un’esistenza di successo. […] Se qualcuno di voi non ha il diploma di scuola media, allora non può avere la maturità. Altrimenti si infrange la regola di coerenza interna. Se però qualcuno di voi scrive di avere sia il diploma di scuola media che la maturità, anche se non ha né l’uno né l’altro, allora questo è un dato di fatto coerente. Consegue che può stare scritto in un curriculum vitae». 
Dunque gli allievi possono scrivere ciò che vogliono sul curriculum, purché il tutto risulti coerente e ben strutturato. Se si sentono vecchi, possono cambiare l’età, se non gli sta bene il luogo di nascita, che cambino anche quello. E se per caso son nati calvi o con il naso troppo grosso, possono far presto ricorso alle innovazioni in materia di fotografia e ritocco digitale offerte dalla scuola. Niente è impossibile finché tutto è plausibile. 

I curricula sono fittizi, sono solo montature, una forma di letteratura applicata. Da ciò deriva che un romanziere di successo è anche un ottimo scrittore di curricula e viceversa. È stupefacente come certa letteratura risulti sostanzialmente essere una forma di metaletteratura, ovvero è sorprendente che così tanti scrittori facciano ricorso all’espediente della scrittura intesa come salvezza, come unico rimedio previsto per il miglioramento della propria condizione. Solo i romanzieri, i veri letterati talentuosi avranno una speranza di trovare un lavoro perché loro avranno il vantaggio dell’immaginazione, della creatività e dell’estro. Straordinario che inconsciamente Zelter assolva se stesso e si attribuisca il merito di avere un lavoro solo grazie al suo profilo letterario, al suo essere non solo un professore – figura che in ogni modo non andrà mai incontro a nessun tipo di declino (e unica contemplata all’interno di Sphericon) – ma uno scrittore, un individuo almeno capace di inventare altri mondi, possibili o impossibili che siano.

Sphericon è il luogo in cui gli anni di disoccupazione vengono reinventati dagli studenti, in cui gli anni vuoti vengono riempiti di storie fittizie, è il luogo in cui chi si costruisce il passato più avventuroso merita voti più alti. Per colmare gli anni vuoti di Karla, una studentessa trentenne, la classe suggerisce un viaggio in Sudamerica. Per far cosa? Per visitare alcuni parenti. E cosa faceva Karla nel frattempo in Sudamerica? La guida turistica. Sembra interessante, ma sarà compito di Karla studiare non solo la geografia del Sudamerica ma anche lo spagnolo per passare gli esami di fine corso, quando dovrà sottoporsi ad un vero e proprio colloquio simulato che sa tanto di interrogatorio. Il professore, rivolgendosi ancora a Karla, chiederà: «Quale finzione biografica della sua vita la entusiasma di più?»

L’aria che si respira all’interno della scuola è pesante e grottesca. Sphericon può essere abbandonata solo varcando il portone principale che permette l’accesso alla Dusseldorfer Strasse, una strada che non porta a nulla, dove non passano autobus. All’ingresso della scuola campeggia la scritta Work is Freedom che può essere letta anche al contrario, Freedom is work e tutto questo è un chiaro riferimento ai campi di concentramento della Germania nazista.
Gli allievi, così ordinati, disciplinati e disposti a qualsiasi cosa per trovare un lavoro, sono invitati, durante le lezioni di Elaborazione biografica, a spulciare tra i necrologi per scoprire chi sia morto e quale posto lavorativo si sia liberato, sono invitati a contattare la famiglia del deceduto per chiedere il numero di telefono del datore di lavoro di riferimento. 
Leggendo il libro di Zelter, ci si sente come avviluppati nelle braccia di un mondo in cui non c’è scampo. Si è presi da uno sconforto ottimistico per cui disertare e non comportarsi esattamente come gli altri e disobbedire porta dritti alla rovina, in cui la gratificazione coincide con il conformismo bieco, con un guardaroba di grembiuli grigi, grembiuli creati a bella posta quali abiti indicati per svolgere il vero lavoro della generazione europea del nostro secolo: cercare un lavoro. Il vero lavoro quindi è cercare lavoro. 
Il tema in sé è forse un po’ abusato ma l’autore, attraverso una serie di espedienti che raggiungono l’apice del grottesco proprio nel finale improbabile quanto angosciosamente profetico, regala al lettore un sorriso di complicità pagina per pagina, dall’inizio alla fine del libro. Quella raccontata è un’Europa che per fregiarsi del suo nobile nome, ha bisogno di sputare fuori i suoi membri, di riversarli in un altro continente.

Il ricorso al paradosso rende la situazione descritta ancor più attuale. È ciò che succede anche in un’altra opera che, quasi in contemporanea, affronta lo stesso tema in chiave altrettanto paradossale e grottesca: il film Cacciatore di teste di Constantin Costa Gavras (2005), tratto dal libro The Ax (che in italiano significa la mannaia) di Donald Westlake, pubblicato in Italia da Alacran Editore nel 2008.
Bruno Davert, benestante chimico cartaceo, dopo venticinque anni di lavoro nella stessa ditta, viene licenziato. L’opportunità di essere assunto da una compagnia che richiede una figura professionale in linea con le sue competenze, è minacciata da un alto numero di candidati concorrenti. La soluzione scelta dal protagonista è quella di ucciderli tutti, in modo tale da accaparrarsi il posto di lavoro. Per mantenere l’alto tenore di vita ormai consolidato negli anni, il protagonista non può che scegliere la strada più spietata. Le riflessioni sul tema della disoccupazione sono amare e i rimedi al problema irreversibili: «in Europa funziona così, dice un personaggio del film, prendono i migliori e li buttano via. Bisognerebbe rimettere l’uomo al centro di tutto».
Interessante che l’eliminazione dei rivali da parte del protagonista abbia origine non dal sentimento di vendetta quanto dall’istinto di sopravvivenza.
Migliaia di lavoratori vengono licenziati, il profitto delle aziende diminuisce, si abbassa il potere d’acquisto, il popolo dei consumatori via via scompare e gli industriali sono costretti a vendere le proprie aziende ai cinesi, ai giapponesi, agli arabi.


Parlare di profezie non è mai stato tanto facile. Sembra semplice infatti immaginare un sistema in cui i poveri si fanno la guerra e si scavano la fossa da soli, in cui nuove dittature di finissimo acume forgiano “lavoratori alla ricerca di un lavoro”, in cui inedite e pesanti leggi politiche e misure economiche restrittive gettano le basi per una costante e massiccia emigrazione dal proprio paese, in cui le carte colorate di questo fitto mazzo di umani verrà rimescolato fino a non avere più una sua identità.

Articolo pubblicato sul n.11 della rivista Il Palindromo

mercoledì 11 dicembre 2013

Sui Forconi

Verissimo che la crisi economica ci rende tutti più barbari e che i cittadini non ne possono più di vedere la loro città in balia di intimidatori e ricattatori. Ma verissimo anche che la maggior parte degli intimidatori, dei violenti e dei ricattatori son stati mandati a bella posta ( e non è certo la prima volta) nelle piazze per rovinare la protesta non violenta di cittadini esasperati. 
Non tutti i manifestanti sono violenti e non tutti sono rozzi e ignoranti come la maggior parte di noi crede. 
La protesta dei Forconi non è la protesta degli ignoranti, intendiamoci, è la protesta di gente che si è rotta il cazzo. E siccome non è appoggiata da nessun personaggio autorevole, allora diventa la protesta degli ignoranti. Vorrei riproporre l’appello del Centro sociale di Torino Askatasuna. Loro dicono così: “non vi chiediamo di aderire in toto alle modalità o alle parole d'ordine della protesta, ma di starci dentro e provare ad invertirne la rotta. Lasciare questa piazza in mano a fascisti e mafiosi può rivelarsi la mossa più controproducente". E non mi sembra per nulla una considerazione sbagliata.

Pure i poliziotti, l’altro ieri, si sono tolti il casco. Certo, ora tutti su Facebook scrivono che non l’hanno fatto alla Diaz perché avevano le mani impegnate e roba polemica di questo genere, ma queste volta l’hanno fatto. Subito però sono intervenuti i media a spiegare il gesto. Dicono fosse dovuto al fatto che l’ordine era stato ristabilito. Certo. 
Ma secondo voi può lo Stato ammettere che anche alcuni membri delle forze dell’ordine siano solidali alla protesta? Può lo Stato ammettere il fallimento dello Stato? Ovvietà, come di ovvietà è fatta l’informazione del resto. Io del giornalismo me ne sono lavata le mani dopo la specialistica, perché quello che in Italia chiamano giornalismo, eccetto alcuni rari casi vedi Iacona e Gabanelli, per me è roba ridicola.
Ma questo è un altro discorso. Andiamo ai forconi.
Che cosa vogliono questi stronzi? Vogliono più lavoro, ovvio, meno tasse, ovvio, vogliono poter esportare i prodotti anziché importarli e basta, ovvio, vogliono che lo Stato sia con loro, ovvio. Vogliono anche, o almeno una buona parte lo vuole, che l’Italia esca dall’euro. Ecco. 
Perché l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro? Se lasciamo perdere tutte le polemiche contro i grillini di cui sinceramente non m’importa nulla, la loro intuizione non è proprio da ignoranti. 
Perché? Perché l’Italia cerca dal 2002 di rimettersi in pari con gli standard europei, e per farlo ha sacrificato risorse non solo economiche ma soprattutto umane. Da qualsiasi parte la guardi, la situazione attuale presenta uno Stato che non ha i soldi per garantire una ripresa economica (perché se li è mangiati tutti in puttane e mutande verdi) e che l’unico modo per rimettere in moto l’economia, è aumentare i consumi. Quindi l’idea di svalutare la moneta o uscire dall’euro o quello che vi pare, non è secondo me sbagliata. 
L’errore è stato fatto nel 2001, e noi ne piangiamo le conseguenze. 
L’ha spiegato perfettamente il professor di economia politica Alberto Bagnai,  nel suo intervento a Servizio pubblico (http://www.serviziopubblico.it/puntate/2013/11/14/news/euro_dentro_o_fuori.html?cat_id=10). E lo spiega citando Nicholas Caldor, economista che nel 1971 scrisse che una moneta unica europea avrebbe causato uno squilibrio commerciale e della bilancia dei pagamenti a causa di un regime di cambi fissi in assenza di regole sui salari, un fisco centralizzato e riequilibratori automatici. 
Trent’anni prima che l’euro nascesse era perfettamente chiaro perché non avrebbe funzionato. Se dei paesi diversi hanno una moneta unica, quando un paese viene colpito da una recessione si verifica la cosiddetta ‘mobilità dei fattori produttivi’ ovvero la mobilità dei fattori che servono a produrre i beni e cioè le persone, quindi in parole povere l’emigrazione. 
Di queste tematiche, nello specifico, pochissimi sono esperti, ma non ci vuole di certo un genio per capire che le economie di ogni paese sono basate su fattori diversi. La nostra è da sempre un’economia che si basa sull’esportazione. Non abbiamo, è vero, grandissime industrie. Ma abbiamo tante medie e piccole industrie che negli anni, e nella storia del paese, ci hanno garantito di essere annoverate tra i paesi più ricchi del mondo.
Se l’Italia ha venduto tutte le sue migliori aziende agli stranieri, se gli agricoltori siciliani sono costretti a buttar via quello che la nostra terra ci ha sempre offerto perché i prezzi degli altri paesi sono più competitivi, se i prodotti che troviamo nei supermercati oggi non sono quasi mai italiani anche se sopra vi si legge ‘made in Italy’, se gli autotrasportatori non riescono a campare per i prezzi della benzina, se le aziende non assumono, se la disoccupazione giovanile è al 41,2%, come vi permettete di dire che questa protesta è sbagliata o fascista o cosa? Ma quelli sono gli ultrà del Torino e della Juve, quelli sono i porci di Casa Pound! Questo è quello che dicono i tg! 
Mi sembra ovvio che il mal governo abbia generato una popolazione di gente impotente.
Questa protesta, prima di tutto, per tutti noi, è una forma di degrado mentale, un’ovvia evoluzione scaturita da anni di incertezze, impotenza e scelte politiche ridicole. Il nostro paese non è mai stato democratico, sfortunatamente.

Quindi allontaniamo gli ultrà del Torino e della Juve e sentiamo cosa ha da dire la gente. La democrazia è anche questo.



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