lunedì 13 gennaio 2014

"La scuola dei disoccupati" di Zelter

C’è una libreria, a Torino, che apre le porte nel cuore della notte e pullula di “nuovi profeti”.
Tra gli scaffali spiccano scelte editoriali inusuali, libri di nicchia intervallati da bicchieri contenenti rimasugli di cocktails. È lì che ho trovato La scuola dei disoccupati di Joachim Zelter, testo balordo e paradossale, pubblicato in Germania nel 2006 e in Italia da Isbn Edizioni nel 2012.

Questo libro va letto come una profezia, una di quelle profezie buone che fanno riflettere, una di quelle profezie che possono servire da monito e insegnamento.
Zelter, professore tedesco che insegna letteratura inglese all’Università di Tubinga e a Yale, racconta il 2016, anno in cui l’Europa conta più di dieci milioni di disoccupati. Un futuro ipotetico che vede la Germania in piena crisi economica, una crisi che viene fronteggiata, grazie all’aiuto dell’Agenzia Federale per il lavoro, con l’istituzione di una vera e propria scuola per disoccupati, chiamata Sphericon, vecchio capannone industriale svuotato di tutte le macchine.
Il libro di Zelter, che si propone come satira attualissima, appare quanto mai illuminante e profetico. La scrittura asciutta e didascalica annulla ogni sentimento dei protagonisti, che sembrano più marionette grigie che esseri umani in carne ossa. La fantascienza è il pretesto per parlare dell’attualità, in forma decisamente onirica e circense ma pur sempre reale.
La scuola dei disoccupati è un luogo in cui vengono condotti uomini e donne con un’età compresa tra i 25 e i 40 anni, individui che hanno perso la speranza, apatici e pallidi, resi inermi dalla mancanza di lavoro e guidati da 150 istruttori belli, abbronzati e con i denti bianchissimi che, a detta di Zelter, li trasformeranno in uomini di successo. 
Insegnano materie come Elaborazione biografica, Modellazione drammatica, Training telefonico o Aspetti astrali della candidatura.
Durante la prima lezione gli allievi sono invitati a “scavarsi la fossa”, nel vero senso della parola, imbracciando vanga e piccone in segno di buon auspicio per la nuova imminente vita. Dentro la fossa potranno lasciare tutte le false speranze e aspettative, i sogni e le illusioni. Ogni fossa è un nuovo inizio, un distacco dal passato.
Ma la preoccupazione principale degli istruttori di Sphericon, termine che fa riferimento all’apertura, intesa come critica verso se stessi e verso gli altri, è quella di insegnare agli allievi a redigere la lettera di presentazione e il curriculum vitae perfetti, ricorrendo all’immaginazione e alla fantasia nell’esercizio dell’elaborazione biografica. 
Colpisce l’ironia dell’autore quando descrive il direttore della scuola, che ai suoi allievi si rivolge così: «un curriculum vitae vincente non è dato da ciò che è stato, ma da ciò che avrebbe potuto essere, per condurre un’esistenza di successo. […] Se qualcuno di voi non ha il diploma di scuola media, allora non può avere la maturità. Altrimenti si infrange la regola di coerenza interna. Se però qualcuno di voi scrive di avere sia il diploma di scuola media che la maturità, anche se non ha né l’uno né l’altro, allora questo è un dato di fatto coerente. Consegue che può stare scritto in un curriculum vitae». 
Dunque gli allievi possono scrivere ciò che vogliono sul curriculum, purché il tutto risulti coerente e ben strutturato. Se si sentono vecchi, possono cambiare l’età, se non gli sta bene il luogo di nascita, che cambino anche quello. E se per caso son nati calvi o con il naso troppo grosso, possono far presto ricorso alle innovazioni in materia di fotografia e ritocco digitale offerte dalla scuola. Niente è impossibile finché tutto è plausibile. 

I curricula sono fittizi, sono solo montature, una forma di letteratura applicata. Da ciò deriva che un romanziere di successo è anche un ottimo scrittore di curricula e viceversa. È stupefacente come certa letteratura risulti sostanzialmente essere una forma di metaletteratura, ovvero è sorprendente che così tanti scrittori facciano ricorso all’espediente della scrittura intesa come salvezza, come unico rimedio previsto per il miglioramento della propria condizione. Solo i romanzieri, i veri letterati talentuosi avranno una speranza di trovare un lavoro perché loro avranno il vantaggio dell’immaginazione, della creatività e dell’estro. Straordinario che inconsciamente Zelter assolva se stesso e si attribuisca il merito di avere un lavoro solo grazie al suo profilo letterario, al suo essere non solo un professore – figura che in ogni modo non andrà mai incontro a nessun tipo di declino (e unica contemplata all’interno di Sphericon) – ma uno scrittore, un individuo almeno capace di inventare altri mondi, possibili o impossibili che siano.

Sphericon è il luogo in cui gli anni di disoccupazione vengono reinventati dagli studenti, in cui gli anni vuoti vengono riempiti di storie fittizie, è il luogo in cui chi si costruisce il passato più avventuroso merita voti più alti. Per colmare gli anni vuoti di Karla, una studentessa trentenne, la classe suggerisce un viaggio in Sudamerica. Per far cosa? Per visitare alcuni parenti. E cosa faceva Karla nel frattempo in Sudamerica? La guida turistica. Sembra interessante, ma sarà compito di Karla studiare non solo la geografia del Sudamerica ma anche lo spagnolo per passare gli esami di fine corso, quando dovrà sottoporsi ad un vero e proprio colloquio simulato che sa tanto di interrogatorio. Il professore, rivolgendosi ancora a Karla, chiederà: «Quale finzione biografica della sua vita la entusiasma di più?»

L’aria che si respira all’interno della scuola è pesante e grottesca. Sphericon può essere abbandonata solo varcando il portone principale che permette l’accesso alla Dusseldorfer Strasse, una strada che non porta a nulla, dove non passano autobus. All’ingresso della scuola campeggia la scritta Work is Freedom che può essere letta anche al contrario, Freedom is work e tutto questo è un chiaro riferimento ai campi di concentramento della Germania nazista.
Gli allievi, così ordinati, disciplinati e disposti a qualsiasi cosa per trovare un lavoro, sono invitati, durante le lezioni di Elaborazione biografica, a spulciare tra i necrologi per scoprire chi sia morto e quale posto lavorativo si sia liberato, sono invitati a contattare la famiglia del deceduto per chiedere il numero di telefono del datore di lavoro di riferimento. 
Leggendo il libro di Zelter, ci si sente come avviluppati nelle braccia di un mondo in cui non c’è scampo. Si è presi da uno sconforto ottimistico per cui disertare e non comportarsi esattamente come gli altri e disobbedire porta dritti alla rovina, in cui la gratificazione coincide con il conformismo bieco, con un guardaroba di grembiuli grigi, grembiuli creati a bella posta quali abiti indicati per svolgere il vero lavoro della generazione europea del nostro secolo: cercare un lavoro. Il vero lavoro quindi è cercare lavoro. 
Il tema in sé è forse un po’ abusato ma l’autore, attraverso una serie di espedienti che raggiungono l’apice del grottesco proprio nel finale improbabile quanto angosciosamente profetico, regala al lettore un sorriso di complicità pagina per pagina, dall’inizio alla fine del libro. Quella raccontata è un’Europa che per fregiarsi del suo nobile nome, ha bisogno di sputare fuori i suoi membri, di riversarli in un altro continente.

Il ricorso al paradosso rende la situazione descritta ancor più attuale. È ciò che succede anche in un’altra opera che, quasi in contemporanea, affronta lo stesso tema in chiave altrettanto paradossale e grottesca: il film Cacciatore di teste di Constantin Costa Gavras (2005), tratto dal libro The Ax (che in italiano significa la mannaia) di Donald Westlake, pubblicato in Italia da Alacran Editore nel 2008.
Bruno Davert, benestante chimico cartaceo, dopo venticinque anni di lavoro nella stessa ditta, viene licenziato. L’opportunità di essere assunto da una compagnia che richiede una figura professionale in linea con le sue competenze, è minacciata da un alto numero di candidati concorrenti. La soluzione scelta dal protagonista è quella di ucciderli tutti, in modo tale da accaparrarsi il posto di lavoro. Per mantenere l’alto tenore di vita ormai consolidato negli anni, il protagonista non può che scegliere la strada più spietata. Le riflessioni sul tema della disoccupazione sono amare e i rimedi al problema irreversibili: «in Europa funziona così, dice un personaggio del film, prendono i migliori e li buttano via. Bisognerebbe rimettere l’uomo al centro di tutto».
Interessante che l’eliminazione dei rivali da parte del protagonista abbia origine non dal sentimento di vendetta quanto dall’istinto di sopravvivenza.
Migliaia di lavoratori vengono licenziati, il profitto delle aziende diminuisce, si abbassa il potere d’acquisto, il popolo dei consumatori via via scompare e gli industriali sono costretti a vendere le proprie aziende ai cinesi, ai giapponesi, agli arabi.


Parlare di profezie non è mai stato tanto facile. Sembra semplice infatti immaginare un sistema in cui i poveri si fanno la guerra e si scavano la fossa da soli, in cui nuove dittature di finissimo acume forgiano “lavoratori alla ricerca di un lavoro”, in cui inedite e pesanti leggi politiche e misure economiche restrittive gettano le basi per una costante e massiccia emigrazione dal proprio paese, in cui le carte colorate di questo fitto mazzo di umani verrà rimescolato fino a non avere più una sua identità.

Articolo pubblicato sul n.11 della rivista Il Palindromo

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