mercoledì 13 marzo 2013

Palermo, città di 'straregnati'



"Mia figlia è stata scaltra! Dopo il diploma ha fatto le valigie e se n'è andata. Fuori però! ”. 
Questa frase me la disse Giuseppe, un signore palermitano che era venuto al Centro di assistenza fiscale al Borgo vecchio. Stavo compilando il suo 730 e gli chiesi se aveva figli a carico. Domande di routine, in quel luogo, diventavano motivo di dissertazione approfondita su vari temi. Primo tra tutti il lavoro.



Quell’uomo, così ingenuo nel modo di esprimersi, mi aveva fatto riflettere. Parlava della figlia come una figura lontana nel tempo e nello spazio, come un frutto lasciato a maturare fuori dal frigo anche se in frigo non c’è nulla da mangiare. Una figlia che era diventata l’orgoglio della famiglia, che aveva deciso di emigrare da Palermo per aiutare economicamente i suoi genitori. Mi era venuto in mente un racconto di Sciascia che avevo letto qualche mese prima, un racconto intitolato ‘L’esame’ e inserito nella raccolta di racconti Il mare colore del vino, pubblicata per la prima volta nel 1973. La vita di Giuseppe aveva gli stessi ingredienti del racconto di Sciascia, la delusione, la rabbia, la rassegnazione, l’impotenza. 
Palermo che vomita ventenni e trentenni al nord o all’estero perché di loro non ha bisogno, la fatica dei genitori nell’accettare e supportare la scelta, la morte dei legami amorosi o la difficoltà nel tenerli in vita, l’inserimento nel tessuto sociale del nuovo territorio e la scoperta, volenti o nolenti, di nuove realtà. 

Se dovessi identificare Palermo con un luogo, sceglierei l’aeroporto. È in aeroporto che la simbolica generazione di una crisi senza tempo si concentra e si saluta, si bacia, si anima in abbracci in partenza e in arrivo, è in aeroporto che si sente prima di tutto la nostalgia della propria terra, della propria città. Ultima boccata d’aria, si respira il mare a pieni polmoni, ultimo cannolo, e poi si parte. 

Il racconto di Sciascia parla di emigrazione, nel senso più contemporaneo del termine. Uno svizzero si reca in Sicilia per reclutare manodopera femminile per una fabbrica di prodotti elettrici. Si chiama Blaser ed è un uomo indifferente a tutto. Sciascia lo definisce ‘il soffiatore’ perché sbuffa di continuo, annoiato dalle parole del suo sicilianissimo autista, considerato semplicemente un pezzo dell’auto, che dispensa consigli sul reclutamento delle ragazze e mette una buona parola sull’una o sull’altra, in base alle richieste ricevute dai membri dei paesini siciliani visitati. Un giorno Blaser ed il suo autista si recano in un paesino dell’entroterra di cui Sciascia non fa il nome. Il paesino di V. è un paese di mafia. All’autista si avvicina un giovane timido e impacciato, chiedendogli un favore. L’autista è visibilmente nervoso. La fidanzata del giovane deve sostenere l’esame per il reclutamento in fabbrica ma lui non vuole che parta. La ama, e vorrebbe sposarla, ma non ha un lavoro e quindi non può permettersi di chiederne la mano ai genitori. Prega l’autista di convincere Blaser a non sceglierla. Rosalia Calaciura deve restare in paese.
L’autista cerca di spiegare al giovane che non sarà lui a decidere ma, data l’insistenza del ragazzo, dice che farà il possibile perché non venga scelta da Blaser. 

“Sa cos’è la mafia?”chiede l’autista a Blaser.
“Me ne infischio” risponde il signor Blaser. 
“Rifletti prima di dire me ne infischio. Tra l’infischiarsene e il non infiaschiarsene c’è la differenza tra il morire e il campare”.
Aveva spiegato la situazione al signor Blaser e l’aveva pregato di non scegliere l’unica candidata intoccabile, Rosalia Calaciura, per non dar dispiacere al ragazzo.

La selezione si svolge all’interno di una chiesa, in presenza dei parenti delle ragazze e dell’arciprete.
La paura di andar via, nel racconto di Sciascia, come nella realtà, è dettata dalla difficoltà incontrata per ambientarsi in un altro luogo. Il siciliano ha un legame viscerale con la sua terra e quello che dovrebbe essere un diritto, ovvero poter scegliere di rimanere, si converte in un dovere, una partenza forzata, svuotata di affetti e luoghi e popolata di facce nordiche tristi e bianche, di volti vuoti e gelidi. 
Come dire che il siciliano ha una sola madre e fa di tutto per restarvi accanto. 
La storia di Blaser e Rosalia Calaciura mi ha fatto pensare al signor Giuseppe, mi ha risvegliato il ricordo a mosaico del suo volto: occhi fuori dalle orbite, labbra spalancate, denti marci e voce ossessiva, mi ha riportato al ricordo di sua figlia costretta a partire, al ricordo della sua pena, del suo dolore, del rammarico per non aver avuto la possibilità economica di farla rimanere accanto a lui.
Rosalia Calaciura ama il suo ragazzo, eppure, per aiutare economicamente la sua famiglia, è costretta a partire. Vuole partire e farsi una dote, per poi tornare e sposarsi. La madre di Rosalia dice all’arciprete che il suo fidanzato è un disoccupato, un perdigiorno, ma la ragazza obietta che non è un perdigiorno, semplicemente non trova lavoro. La madre convince Blaser a portare in Svizzera la figlia, per ricevere quei quattro soldi che lei le manderà. 
Il ragazzo dovrà lasciar perdere, dovrà lasciarla andare.
“Se davvero tu le vuoi bene, lasciala andare... Tornerà, è una ragazza tenace, tornerà... E vi sposerete.
“Se io trovassi lavoro...” disse il giovane.
“Lo troverai. Con tutta la gente che se ne va, il lavoro a chi resta non dovrebbe mancare”
“Il problema è  che più gente se ne va, più il paese diventa povero [...] Non è come quando si sta seduti in molti su una panca, stretti, stretti, pigiati: che uno si alza e gli altri tirano respiro e si mettono più comodi... Qui nessuno è seduto: e chi se ne va, gli altri nemmeno se ne accorgono; o si accorgono solo che il paese si va facendo vuoto”. 

Non si lotta per il lavoro in Sicilia. Sulla panca sono seduti in pochi, tutti gli altri sono in piedi, senza un lavoro. Si lotta per restare, in Sicilia. Si lotta per il diritto di rimanere in quella piazza, anche in piedi. Chi va via, lo fa sempre per necessità, qui da noi. E Palermo, durante l’anno, si riempie di persone che provengono dai paesi e di studenti universitari, ma si svuota dei suoi cittadini autoctoni, e li riversa per il mondo. 
Le mamme palermitane, al telefono, affrontano discorsi che suonano pieni di emozione:
“Tua figlia è tornata?”
“Sì, finalmente”.
“Anche mio figlio è tornato”.
Torniamo tutti, con un mare di storie da raccontare.
E anche noi, come il personaggio descritto da Sciascia, ci troviamo a fare conversazioni come queste:
[...] “Ma perché non te ne vai in Svizzera anche tu? In Svizzera, in Germania... La Germania è a due passi dalla Svizzera”.
“Ci sono già stato in Germania, per tre mesi. Ma io dico: l’uomo non è un cane... Può starsene straregnato, in un paese non suo, a soffrire perché tutto questo gli manca” accennò alla chiesa, alla piazza intorno, al cielo che si struggeva nell’oro del tramonto “ma il diritto non deve levarglielo nessuno [...] Io voglio dire il diritto di essere [...] qui, che io e lei siamo uguali, e parliamo... Con loro invece è diverso: non ci vedono, ecco, non ci vedono”.
Essere straregnati, ovvero non poter ritornare nel proprio regno. Non poter tornare quando si vuole, non poter godere del proprio paese e della propria città. Ed essere invisibili. Non ci vedono, dice il ragazzo. E non essere visti è una cosa terribile, è come non esistere.
Questo essere straregnati e questo sentirsi invisibili è ancora vero, è una sensazione antica che Sciascia conosceva almeno quanto la conosciamo noi.


'E vissero infelici perché costava meno'


Hanno licenziato tutti i tuoi colleghi. Ho il magone da quando l’ho saputo. Tu hai paura. Ti è venuta la febbre per il dispiacere. Ti sei ammalato e per tre giorni non sei andato a lavoro. Non avevi mai fatto un’assenza, ma avevi paura che avrebbero licenziato anche te. La mattina, ancora sotto le coperte, con le gote rosse e la fronte bollente, mi hai chiesto: «Ma secondo te devo andarci a lavoro?». «Certo che no, hai la febbre alta».
Tu allora hai detto: «E se mi licenziano?»
Non sono riuscita a rassicurarti perché non capisco cosa stia succedendo. Una guerra. Eravate cinque e ne è rimasto uno, a guardarsi le spalle, studiare ogni singolo movimento, temere per il proprio futuro, farsi domande.

Li hanno licenziati perché non c’era abbastanza lavoro e non servivano più. Così, senza preavviso. Mi dispiace tanto per quel tuo collega coreano, ha due lauree, è in gamba. Ha due figli piccoli e una moglie da mantenere. Mi dispiace anche per quello più giovane. Lui ama il suo lavoro, ma presto comincerà ad odiarlo. Mi dispiace per l’altro ancora, quello che per lunghi periodi soffre di depressione e per tre giorni al mese rischia di farsi venire un infarto perché deve completare un lavoro commissionato il giorno prima.
Mi dispiace per tutti, a dire il vero.
Sei tornato a lavoro ed eri solo, non c’era più nessuno accanto a te. In otto ore non un sorriso, non una parola o una battuta. A ora di pranzo hai comprato un panino e l’hai mangiato davanti al computer. Non c’era nemmeno il tuo capo. 
«Non possono licenziarmi - hai detto - sono io che mando avanti questo studio, sono io che lavoro. Se me ne vado come fanno?»
«Ne trovano un altro», ti ho risposto.

Non ci hai creduto. Hai detto che era impossibile. Quando sei stato assunto ti hanno detto che, scaduto il contratto, ti avrebbero dato un aumento. Il contratto sta per scadere, mancano pochi giorni, ma non ci riesci a chiedere l’aumento, non ce la fai, non ti sembra il caso né il momento. Hai paura. Però dici che non puoi vivere con questo stipendio. Dici che non vuoi solo sopravvivere ma vivere pienamente la tua vita. Dici che è sempre stata tutta una prova generale, che lavori da quattro anni e ti trattano sempre peggio. Dici che vuoi andare via da questo Paese, che ti fa schifo, che a Palermo a Roma o a Torino è uguale, una vita di soli sacrifici, una vita di discount, di monolocali senza forno, senza freezer, una vita di bollette e di ansia. Dici che non abbiamo futuro.

«Ci pensi che non avremo mai un futuro? Ci pensi che vivremo sempre sulla soglia della povertà?
«Non è vero»
«Sì che è vero. Io gli chiedo l’aumento»
«E se non te lo concede, l’aumento?»
«Ma erano questi i patti»
«E se non li rispetta?»
«Me ne vado»
«E che fai dopo?»
«Non lo so, ma io ho una dignità. Non posso farmi sfruttare sempre» 
«Tu hai ragione, ma non so se troverai un altro lavoro, adesso. E se lo trovi devi ricominciare da zero. Periodo di prova, quattrocento euro, straordinari non pagati, poi seicento e poi, finita la prova, scaduto il contratto a progetto, ne prendono uno nuovo perché non possono permettersi di darti un aumento».
«È proprio questo il problema. Continuano a offrirci stipendi da fame e noi accettiamo sempre. Se rifiutassimo queste condizioni, sarebbero costretti a pagarci di più. Non capisco perché anche i migliori in questo paese non riescono. Ci siamo accontentati un po’ troppo. Noi dovremmo rifiutarci tutti. In questo paese le aziende riescono a mantenersi perché noi siamo a costo zero!»

Hai chiamato i tuoi amici, tua madre, tuo padre. Hai chiesto a loro. Alcuni ti dicono di aprire la partita Iva che per ora non costa nulla, altri di tornare a Palermo, altri di restare e chiedere l’aumento. Altri ancora ti dicono di aspettare. Io non so veramente cosa consigliarti. So solo che non vorrei cambiare di nuovo città. Vorrei stabilità, vorrei equilibrio. Invece adesso la nostra serenità dura solo il periodo di un contratto a progetto
«Quando penso al nostro futuro sai cosa mi viene in mente?, mi hai detto»
«Cosa?»
«Quella frase di Leo Longanesi: E vissero infelici perché costava meno».



Un nuovo cinema multisala a Palermo: i pro e i contro


Un cinema multisala al  posto dell’ex stabilimento della Coca Cola, a Partanna. Un impianto con undici sale, ristoranti e negozi. Cosa ne pensano i palermitani? I lavori per la sua realizzazione al momento sono stati sospesi dal Comune a causa della protesta di alcuni proprietari di sale cinematografiche minori ma soprattutto a causa di alcune discrepanze tra il progetto approvato e quello in corso di realizzazione e una serie di varianti applicate in corso d'opera.

Ma facciamo un passo oltre: quali sarebbero i lati positivi? E quali i negativi? Di lati positivi ce ne sarebbero molti. Avremmo undici sale, dunque più film. Di conseguenza più offerta. Più cultura. Più eventi. All’interno della struttura ci sarebbero ristoranti e negozi, dunque posti di lavoro e possibilità aumentare i consumi. Il multisala potrebbe diventare un luogo di incontro, un polo attrattivo per molti palermitani, un centro culturale e di aggregazione di varie tipologie di pubblico. Il lato negativo sarebbe riscontrabile nel flop dei piccoli esercenti.

Palermo ha bisogno di stimoli e di rinnovamento e, per evitare la drastica scomparsa delle vecchie sale, gli stessi gestori potrebbero tentare di ripensare la propria attività. Adattarsi al rinnovamento e costituire un’identità forte all’interno del proprio esercizio commerciale, promuovendo per esempio visioni in lingua originale, come suggerisce l'attore Paolo Briguglia a La Repubblica Palermo, potrebbe essere un primo passo per la differenziazione e la qualità dell’offerta. 

Applicare una riduzione significativa al prezzo del biglietto, un giorno a settimana, come succede in altre città d’Italia, potrebbe essere un’altra strategia per non chiudere bottega. Si potrebbero organizzare rassegne, organizzare eventi e incontri di varia natura e avvalersi di convenzioni con le scuole. Solidali alle obiezioni dei piccoli esercenti, sono invece i registi Franco Maresco Pasquale Scimeca, ancorati al cinema delle "vecchie sale", inteso come concetto culturale più che come commercializzazione di un prodotto.

Ma i palermitani hanno voglia di aggregarsi, parlare, confrontarsi. Hanno bisogno di più offerta, e hanno bisogno di stimoli dall’alto contenuto qualitativo. Lo dimostra, ad esempio, il successo del cinema comunale De Seta, ai Cantieri culturali alla Zisa. Lo dimostra anche l’occupazione del Teatro Garibaldi  e il fermento culturale che si è sviluppato al suo interno. In tutte le grandi città d’Italia esistono i cinema multisala. Il cinema, come spiega Roberta Torre, non può rimanere un lusso di esteti e cinefili ma deve rinnovarsi e adattarsi alle esigenze di un pubblico il più possibile differenziato. 
 

Non avere più voglia di inviare il curriculim

 La città, disperazione organizzata, muoveva membra, articolava parole, accoglieva alcuni come un grembo, altri li sputava fuori, come semi d’uva. (Wu Ming, Previsioni del tempo)

-Ritorneremo nella nostra città? 

-Non lo so, ma sarebbe bello avere la possibilità di tornare a farne parte. A Palermo ci siamo nati ma a Palermo non contiamo niente. 

La sensazione che abbiamo è quella di vivere in un luogo gestito solo da altri, mai da noi. 

L’asfalto è liscio qui. Si scivola, in questa città. E noi siamo come tanti incidentati che negli anni hanno imparato a mantenere l’equilibrio. 

*

Da un po’ di tempo a questa parte, ci siamo stancati anche di inviare il curriculum. In questi ultimi mesi, è mia zia che mi sostituisce nella ricerca di nuovi stimoli e nuove realtà lavorative, è lei che cerca nuovi 'indirizzi' per conto mio. Puntualmente, mi invia dei messaggi pieni di nomi e indirizzi di posta elettronica. Allora, dato che non devo fare alcuno sforzo, faccio un copia incolla della mia lettera di presentazione alle aziende, scrivo due righe e tac!, invio. 

In tanti si sono stancati. E credo che nessuno possa fargliene una colpa. Nel profondo, penso che noi tutti della generazione precaria, nutriamo un forte desiderio di rivalsa, una voglia implacabile di prenderci ciò che ci spetta, un bisogno legittimo di contare qualcosa. Non è auto-indulgenza, ma solo la rivendicazione di un diritto, un forte impulso a non reprimere la sete di ambizione, lavoro, riconoscimento professionale e autostima. Quest'ultima, poi, cade a pezzi di questi tempi. Non avere più voglia di inviare un curriculum è l'ultimo stadio di questa ricerca ossessiva di lavoro alla quale siamo dediti quotidianamente.

Non diamo la colpa a nessuno, noi. Lo sappiamo che aziende non possono permettersi assunzioni e che, a dirla tutta, stanno lottando per non licenziare il personale interno. Ma potrebbero almeno rispondere alle e-mail. Se nessuno risponde non sapremo mai se e come dobbiamo migliorarci, quali sono i requisiti che dobbiamo possedere per ottenere quel lavoro. Non sapremo mai cosa dobbiamo fare. Abbiamo forse sprecato tempo. Un mare di tempo a scrivere, un mare di tempo a iscriverci a siti e agenzie interinali, un mare di tempo a memorizzare password per accedere a questi siti.

*

Ritorneremo nella nostra città? Non lo so. E quando mi poni questa domanda mi viene in mente un film visto tempo fa, un film di Antonioni del 1960, "L’Avventura", ambientato in Sicilia. Mi ricordo della sensazione che ho provato dopo averlo visto, ricordo perfettamente la descrizione, da parte di un grande regista, di una terra che non era "sua". Antonioni l’aveva descritta come una terra chiusa, ostile agli stranieri, ai turisti, una terra gelosa di sé stessa, una terra in cui è facile perdersi. E forse aveva ragione. In Sicilia non li vogliamo i turisti, non li abbiamo mai voluti qui i turisti. Questa terra è nostra, e ne siamo gelosi. Qui la gente vuole restare così com’è, vuole continuare ad occuparsi della madre, del padre e dell’amore. Noi viviamo di cose essenziali, ed essenziale è il nostro modo di parlare e di esprimerci. La Sicilia è bella perché è circondata per intero dal mare. Lei è bella perché è sola, e soli sono quelli che la abitano




LE 22 REGOLE DELLA PIXAR PER RACCONTARE UNA BELLA STORIA


Curiosando tra i vari tweet, ho trovato questo utile articolo in cui vengono elencate quelle che sembrano essere - secondo la Pixar - le regole per scrivere storie perfette. 
La scorsa settimana Emma Coats, story artist e autrice che ha lavorato con Pixar, hapubblicato su Twitter le 22 regole “segrete” che il colosso dell’animazione segue per scrivere storie indimenticabili. La maggior parte di queste sembrano quasi degli ordini rivolti agli autori, che devono provare un certo tipo di emozioni nei confronti dei personaggi che stanno inventando, in modo che anche gli spettatori possano provarle. Di seguito le regole tradotte in italiano:

1) Ammira un personaggio perché continua a provarci sempre di più, non per i suoi successi.
2) Concentrati su quello che ti interessa in quanto spettatore, non su quello che ti piace come autore. Sono due cose diverse.
3) La trama è importante ma non ti renderai conto di cosa parla la tua storia finché non sarai arrivato alla fine. E a quel punto la devi riscrivere.
4) C’era una volta ___. Ogni giorno ___. Un giorno però ___. A causa di questo, ___. E alla fine ___.
5) Semplifica. Concentrati. Gioca con i personaggi. Evita gli incovenienti nel tragitto. Crederai di perdere cose importanti ma in realtà ti renderai libero.
6) Con che cosa si sente a suo agio il tuo personaggio? Costringilo a fare il contrario. Sfidalo. Come reagisce?
7) Pensa al finale prima della parte centrare. Davvero. I finali sono difficili da fare, pensaci sin da subito.
8) Finisci la tua storia, anche se non è perfetta. (…) La prossima volta andrà meglio.
9) Quanto ti senti bloccato, fai una lista di cose che NON DOVREBBERO succedere la prossima volta.
10) Smonta le storie che ti piacciono. Quel che ti piace di loro è una parte di te stesso: la devi riconoscere prima di utilizzarla.
11) Scrivere le tue storie ti aiutano a metterle apposto. Se ti limiti a tenerle in mente, rimangono un’idea perfetta e non le condividerai mai con nessuno.
12) Scarta la prima idea che ti viene in mente. E anche la seconda, la terza, la quarta, la quinta – togli di mezzo le ovvietà. Sorprenditi.
13) Dai opinioni forti ai tuoi personaggi. (…)
14) Perché devi raccontare proprio questa storia? Cosa ti fa pensare che se lo meriti così tanto? Questo è il punto del discorso.
15) Come ti sentiresti in quella situazione, se fossi uno dei tuoi personaggi? L’onestà dà credibilità alle situazioni più improbabili.
16) (…) Dacci un motivo per tifare per i tuoi personaggi. Cosa succede se falliscono? Valuta le varie possibilità.
17) Nessun lavoro è mai tempo sprecato. Se una cosa non funziona, passa ad altro e vai avanti: ti tornerà utile più avanti.
18) Devi conoscere te stesso: la differenza tra impegnarti al massimo e l’agitarsi per nulla. La storia serve a metterci alla prova, non a raffinarci.
19) Fare andare nei guai un personaggio a causa di una coincidenza va bene; farli uscire dai guai per una coincidenza è un imbroglio.
20) Esercizio: fai a pezzi un film che non ti piace. Prendi questi blocchi narrativi e rimettili in un altro ordine fino a fare una storia che ti piaccia.
21) Ti devi identificare con il tuo personaggio, non puoi limitarti a scriverlo. Cosa ti spingerebbe a comportarti in un certo modo?
22) Qual è l’essenza della tua storia? Come si può riassumere? Se lo sai, puoi cominciare da lì.

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