mercoledì 17 settembre 2025

Nonna Nunzia e nonno Gaspare

Mi ricordo il nonno Gaspare che guardava “I fatti vostri” alla  tv e sorrideva quando parlava Magalli, quasi fosse fiero di lui, emozionato nel vederlo in televisione, nemmeno fosse una sua scoperta mediatica.

Ogni volta che tornava dal mercato, carico di buste, mi portava sempre un Kinder Cereali.

La nonna Nunzia, quando dormivo a casa sua, mi preparava per colazione la cioccolata calda. La sera, per non sporcare un bicchiere, prima di andare a letto mi dava l’acqua dal mestolo. Cucinava molto bene gli involtini di vitello col salame, il pangrattato, passolini, pinoli e un pizzico di burro, i carciofi fritti, i gamberetti marinati con olio e limone e i ditaloni al sugo. La frutta se la faceva sempre sbucciare dal nonno, era il suo modo per farsi viziare.

 Amava le bambole di porcellana e le pettinava come fossero bambine. Diceva sempre che da piccola aveva ricevuto in regalo un bambolotto ed era stato il regalo più bello e più desiderato della sua vita. Suo padre e suo fratello Silvestro erano morti in guerra e lei conservava le loro fotografie nella stanza del cucito. Aveva una macchina da cucire Singer, bellissima e la vedevi con il piedino veloce e quelle dita affusolate e lisce gestire la stoffa con una maestria incantevole e guardarla dall’esterno era uno spettacolo, sembrava fosse seduta su una giostra o che stesse partecipando ad un rituale sacro con tutto il corpo.

Negli ultimi anni, durante la malattia, cercava sempre di afferrare qualcosa dai vestiti, come dei fili di cotone oppure provava a girare i lembi della stoffa come volesse cucirne l’orlo. Doveva sentire la mancanza di quel balletto meccanico che era per lei il cucito e ripeteva quei gesti muti come fossero radicati da sempre nella sua persona.

Aveva un modo tutto suo di viziare me e Daniele, i suoi unici nipoti. Emanava una dolcezza e una serenità contagiose e per intere fasi della mia infanzia e preadolescenza l’ho reputata una delle mie migliori amiche. A lei potevo dire se avevo saltato la scuola, era sempre comprensiva e mi trattava come fossi una sua pari. Ecco, la cosa che ricordo vivida più di tutte era la nostra complicità, che si realizzava in abitudini consolidate, coccole e fiducia reciproca. La nonna mi manca tantissimo, la nonna mi ha insegnato a scrivere e a leggere, mettendomi sotto mano riviste e album da disegno, faceva sembrare la vita un gioco, in cui si poteva guardare “Lupin” e “Il mio nome è Jam” la domenica mattina, in cui la nonna fa quello che deve fare una nonna, viziare la propria nipote.

Aveva un cassetto pieno di foto e mi piaceva guardarle sempre, anche se le conoscevo a memoria, aveva tantissimi bottoni, gessetti per il cucito e stoffe di vario tipo. Conoscevo il contenuto di tutti i cassetti e dei mobili della casa, avrei potuto indovinarne l’odore e i colori.

Gli anni delle coccole sono stati quelli passati con la nonna Nunzia, che metteva il rossetto la domenica mattina per andare a messa al duomo di Monreale, con me e il nonno, in autobus. Aveva una cugina che si chiamava Rosa e che sorrideva sempre con gli occhi piccoli e appannati, era magra più di lei, minuscola. Aveva una cugina americana con degli occhiali semiscuri e il capello corto da maschiaccio, delle vicine di casa sempre pronte ad aiutarla, la signora Falcone e la signora Delfino e una un po’ più scontrosa proprio sullo stesso pianerottolo, la signora Currieri. Mi portava sempre con lei, dalle sue amiche oppure a fare la spesa e chiunque la incontrasse la salutava perché lei era gentile con tutti.

Mi raccontava sempre delle storie di mio padre, quando l’avevano derubato a Mondello ed era tornato senza scarpe o quando era con Salvo e Santino e ‘facevano l’opera’, come diceva lei. A volte prendeva i suoi quaderni per mostrarmi i suoi voti delle elementari, fiera di avere un figlio che non le aveva mai dato problemi né a scuola, né nella vita.

Voglio ricordare i miei nonni, voglio lasciare scorrere quell’ondata di spensieratezza di bambina che mi ha resa una persona migliore, voglio scorrere quelle foto, cercando un collegamento con la mia vita attuale. E la sensazione più strana di tutte è il senso di estraniamento che provo non nella vita passata ma nella vita reale, dove nulla è più al suo posto e dove non sento ancora mia la parte dell’adulta.

 

 

 



Nonna Giovanna e nonno Mario


Mi ricordo il nonno Mario che mangiava le arance sul piano di marmo della cucina appena tornato a casa. Prima di entrare dalla porta, nonostante avesse le chiavi, suonava il campanello e io e la nonna tendevamo per un attimo l’orecchio per vedere se un attimo dopo si sarebbe aperta la porta.

Quando entravo a casa della nonna Giovanna un odore inebriante di salsa fresca mi riempiva di buonumore. Oltre al sugo di pomodoro, la sua specialità era la pasta alla grinta, con i peperoni sottolio che teneva nel camerino, al buio. Li cucinava una volta l’anno e li metteva nei vasetti con un po’ di olio e aceto, così come i barattoli di olive condite con origano, aglio e olio.

Mi mandava a comprare due etti di prosciutto cotto alla Crai e mi guardava dal balcone mentre attraversavo la strada. ‘Gioia mia, un ti siddiari, m’avissi a fari un piaciri’, mi diceva.

Prima di partire per la campagna di Bolognetta c’era una lunga preparazione e la nonna scendeva da casa per ultima, piena di sacchetti con contenitori e roba da mangiare. Il nonno stava in macchina ad aspettarla e pure noi, e non capivamo come mai ci mettesse così tanto a prepararsi. Poi scendeva, con il suo profumo Felce Azzurra e il suo odore di borotalco, i capelli pettinati e una collana di perle, la gonna sotto il ginocchio e la sua espressione seria, certa che da lei dipendesse la riuscita di tutta la giornata, certa di aver fatto lei tutto il lavoro e adesso al nonno non restava che guidare. Io, Gabri, Dani e Riccardo dietro e il nonno che guidava pianissimo, e se qualcuno suonava il clacson, con il sorriso strafottente sulle labbre diceva ‘Sì, suona suona’. A volte guidava in folle nelle strade in discesa, per non sprecare benzina. Dietro noi cantavamo a squarciagola le canzoni di Sanremo, “Trottolino amoroso”, “Brutta”, I Neri per Caso, Ivana Spagna. Alla nonna Giovanna piaceva sentirci cantare, e se il nonno parlava lo zittiva e diceva ‘viri ch’i picciriddi stannu cantannu’.

Alla nonna piaceva Iva Zanicchi e la “Ruota della Fortuna”, le piaceva Sgarbi perché diceva che era un uomo intelligentissimo e colto, guardava “Forum” su Rete Quattro. Al nonno Mario invece piacevano i film western, guardava praticamente solo quelli. Gli piaceva anche Luisa Corna, diceva che era una bella cavalla.

D’estate si stava in balcone sulle sdraio, al fresco. Si guardava quello spicchio disordinato di città dall’alto, da dove il caos era ancora maggiore e si percepiva il movimento incessante. C’era Gaetano il fruttivendolo che si prendeva metà marciapiede, con la sua marea di cassette di frutta, la maggior parte delle quali vuote, non ho mai capito il perché.

La nonna Giovanna dal carnezziere prendeva sempre le fette di trinca o il perno, che sapeva solo lei che taglio di carne fosse. A volte andava a comprare la carne a Marineo e ci faceva aspettare sempre in macchina. Dal panettiere, invece, portava le teglie di pasta cruda di sfincione per farsele cuocere quando c’era qualche serata di famiglia come a Natale. Mia nonna mi ha insegnato ad impastare, a fare lo sfincione, facendo attenzione alla lievitazione, alla quantità di olio, sale e zucchero da mettere nell’impasto. Quelle sue mani piccole con le dita gonfissime, per niente fluide nei movimenti, facevano capolavori in cucina. La nonna mi ha insegnato a cucinare anche la parmigiana e i calzoni fritti di carne di vitello, delle tasche di carne con dentro la provola e il prosciutto.

Ogni tanto, mentre eravamo a tavola, arrivava la telefonata di qualcuno e la nonna prendeva la sedia e la posizionava accanto al mobile marrone dove c’era  il telefono. In genere parlava o con la zia Graziella o con la zia Mela. Accanto al telefono una rubrica di un bordeaux sbiadito raccoglieva  numeri scritti in bella grafia dalla nonna, numeri di telefono del panificio, l’alimentari di Marino, figli, nipoti e parenti ma soprattutto quello delle bombole. Era una grafia da scuole elementari piena di ghirigori e tentennamenti, incerta eppure elegante.

L’acqua in frigo era sempre travasata nelle bottiglie di vetro dal nonno che tutti i giorni andava in via Perpignano a riempire i bidoni da cinque litri. Spesso portava un bidone anche a casa mia, la mattina prestissimo, quando noi eravamo ancora in pigiama.

Il nonno da Palermo andava a Corleone a piedi, a volte senza scarpe per non consumarne le suole. Se, arrivati nell’androne d’ingresso di casa sua, provavamo a salire in ascensore ci prendeva sotto braccio e indicando le scale ci diceva ‘Avà, acchiana’. Non tollerava la pigrizia e ci scherniva se provavamo a rifiutarci, facendoci il verso. La sua era un’educazione militare che ci spronava a fare sempre meglio così da evitare di subire le sue critiche. Quando veniva a prendermi a scuola, alla Noce, mi faceva camminare a piedi, sostenendo di aver posteggiato la macchina a pochi metri. Puntualmente arrivavamo a casa, dove aveva lasciato la macchina e io mi arrabbiavo perché mi aveva mentito ma in cuor mio sorridevo perché sapevo perché l’aveva fatto.






lunedì 2 giugno 2025

Il disagio giovanile secondo Massimo Recalcati

 


Venerdì 30 giugno, nell’ambito del Festival Internazionale dell’Economia di Torino, lo psicoterapeuta e intellettuale Massimo Recalcati ha tenuto un incontro dal titolo urgente: Il disagio giovanile. Un intervento lucido e appassionato che parte da un presupposto chiaro: non esiste disagio psichico che non sia legato alla società in cui viviamo. Ogni forma di sofferenza mentale è, in ultima analisi, una risposta ai cambiamenti sociali, culturali, economici. Per questo motivo, capire il disagio dei giovani oggi significa analizzare a fondo il mondo che abbiamo costruito intorno a loro.

Due sono i grandi paradigmi che secondo Recalcati dominano la nostra epoca: il paradigma libertino e il paradigma securitario.

Il paradigma libertino: schiavi dell’oggetto

Nel paradigma libertino, il modello dominante è quello del capitalismo performativo, dove il valore supremo è l’oggetto da consumare. In questo mondo, l’oggetto promette salvezza, ma è una salvezza effimera, che deve subito svanire per poter essere nuovamente inseguita. Il desiderio non è più tensione creativa verso l’altro o verso il mondo, ma semplice spinta compulsiva verso un bene da possedere.

Le relazioni, anche quelle umane, diventano scadenzate. L’oggetto comanda il desiderio e lo svuota. Il sistema ci costringe a una connessione perpetua — con le cose, con le immagini, con le prestazioni — per evitare l’unica connessione che conta: quella con l’altro. In questo circuito vizioso, è il consumatore stesso a essere consumato, prosciugato, svuotato, eliminato dal culto cieco dell’oggetto.

Il paradigma securitario: difendersi dalla vita

Il secondo modello, speculare e opposto, è il paradigma securitario. Qui il disagio si manifesta sotto forma di ritiro, chiusura, depressione. È la logica della “neomelanconia”, come la chiama Recalcati: la tentazione di uscire di scena, di sottrarsi a un mondo che chiede solo di performare, competere, produrre.

I giovani più sensibili scelgono allora di non giocare la partita. Preferiscono proteggersi, anche al costo di sparire. Nasce così una nuova forma di protezionismo psichico, dove l’io alza muri per difendersi dalla pressione del mondo. Il fenomeno giapponese degli hikikomori, i ragazzi che si chiudono nelle loro stanze per anni, è solo uno dei tanti volti di questa fuga.

Alla base di tutto c’è un nodo tragico: la fatica di desiderare.

La vocazione del desiderio

Il desiderio è diventato un bene raro. Desiderare implica esporsi, cercare, rischiare. Ma se il desiderio è vissuto solo in opposizione al dovere, allora diventa lacerante. La svolta, dice Recalcati, sta nel riconciliarli: unire desiderio e dovere, scoprire che si può essere fedeli a se stessi senza tradire la realtà. Il desiderio, se è autentico, assomiglia alla vocazione: è costante, tenace, capace di accendere la vita.

Il ruolo dei genitori: testimoni del desiderio

In tutto questo, qual è il ruolo dei genitori? Come possono aiutare i figli a non spegnersi?

Secondo Recalcati, la risposta non sta nei discorsi, ma nell’esempio. Le vecchie generazioni devono tornare a essere testimoni del desiderio. Non devono solo “insegnare” qualcosa, ma mostrare che è ancora possibile appassionarsi, emozionarsi, cercare un senso. Devono far vedere che esiste una vita oltre l’oggetto, una vita che vale la pena di essere vissuta perché è intensa, imperfetta, autentica.

Il legame tra genitori e figli è, dice Recalcati, l’unico legame d’amore che trova il suo compimento nella separazione. Ma una separazione sana è possibile solo se i figli hanno visto in chi li ha cresciuti una fiamma accesa, una vocazione. Se hanno imparato che vivere non è solo sopravvivere.

In un tempo che spegne i sogni e congela i corpi, parlare del desiderio come forza rivoluzionaria è un gesto radicale. È un invito a tornare umani, a scegliere la vita, come non mi stancherò mai di ripetere.

mercoledì 5 febbraio 2025

"La crisi della narrazione" e "Contro la società dell'angoscia" di Byung-Chul Han

Mi sembra che il mondo intero stia iniziando a prendere coscienza di cosa ci accade. Forse è solo il mio algoritmo che mi mostra testi di rifugio, speranza e rivoluzione ma ho la sensazione piena che questa barbarie che ci ha regalato il nostro secolo verrà spazzata via da menti illuminate, proprio come succede ciclicamente nella storia del mondo.

In questi giorni mi sono rifugiata nella noia, che ha portato alla luce una solitudine estrema, in cui la fiducia nel proprio essere può salvare o ferire definitivamente.

Cosa c’è dentro la noia? Cosa c’è di bello o di brutto nel rimanere soli con sé stessi?

Mi sono raccontata il tempo, ho stanato le storture per accettarle e ho vaneggiato sul futuro, l’ho costruito fino a renderlo reale.

Ormai sono abituata a stare distante da chiunque ma mi sembra che l’intero mio mondo, fatto di esigui contatti sociali, per lo più mediati da uno schermo o un telefono, mi abbiano atrofizzato l’anima. La community di cui parla Byung Chul Han nel suo libro, ovvero la comunità di consumatori che producono modelli narrativi al servizio del commercio, producono proprio l’erosione del concetto di comunità, una comunità che si nutre solo di consumo e che promuove unicamente vendita di storie come fossero merce.

Non le tocco le persone che amo, posso toccare solo mio figlio e il mio compagno . Questa assenza di contatto è in effetti una povertà di mondo reale in cui la solidarietà e l’empatia non possono esistere e in cui la depressione, l’isolamento e l’angoscia la fanno da padroni. Esiste solo l’impegno nel produrre sé stessi, una condizione di egoismo diffusa in cui ognuno di noi è impegnato ad autopromuoversi, in cui il narcisismo individuale fa sì che nessuno si interessi più alla sofferenza degli altri. L’uomo si isola per diventare imprenditore di sé stesso e non c’è spazio per la solidarietà.

Nella società dell’angoscia siamo costretti a vivere in una prigione, in una condizione costante di solitudine, alienazione e diffidenza costanti in cui la ‘strettezza’, significato etimologico della parola angoscia,  riduce ogni prospettiva di contatto narrativo con l’altro.

La mia noia è stata invece un momento di pausa autoimposta, non un momento di tedio ma  uno staccarsi dalla vita lavorativa, da quella produttività potenziata dal regime neoliberale dell’angoscia, una pausa per prendere tempo. Il tempo per riflettere, un tempo senza performance né creatività forzata, un tempo vuoto in cui ricostruire qualcosa, in cui immaginarne la nascita, un tempo di speranza.

Freud sosteneva che la funzione della coscienza fosse quella di proteggere dall’eccesso di stimoli. Sorvegliare gli stimoli, in un mondo in cui la realtà esiste solo come sezione dello schermo digitale, è un compito arduo. Il nostro apparato psichico ha perso sensibilità percettiva proprio a causa di questa feroce inondazione di stimoli legati all’avvento del digitale. In questo senso la noia potrebbe essere uno spazio neutro in cui ripensare a costruire un futuro in cui i momenti shock provenienti da impressioni singole non siano legate ad uno schermo ma al frutto di un ragionamento basato sulla realtà fisica che abbiamo di fronte. Indispensabile che la noia diventi però un processo di gruppo, in cui l’Altro venga cercato, incluso, ascoltato.

Byung Chul Han ci dice che la pandemia dell’angoscia si combatte con un concetto trascendentale che appartiene all’essere umano da sempre: la speranza. La speranza anticipa la nascita del Nuovo, in cui il Nuovo è una forma di vita nascente, una fede incrollabile legata alla certezza che vi sia un senso, è un rifiuto di accontentarsi dello status quo per andare oltre, una spinta verso l’Altro. In sostanza, come suggerisce Paul Celan, la speranza è un ‘non sentirsi persi’.

E cosa ci serve per non sentirsi persi? Ci servono gli Altri.

Immaginatevi un Decameron contemporaneo, una stanza in cui si possa ricreare un modello narrativo attraverso il racconto e l’ascolto. Byung Chul Han parla della narrazione come un potenziale rimedio all’ isolamento frutto del capitalismo della vita moderna, appropriatosi della prassi narrativa.

L’esempio più bello analizzato dallo scrittore sudcoreano (seguendo le considerazioni di Walter Benjamin), è quello di Erodoto, definito ‘grande maestro della narrazione’. Erodoto racconta la cattura del re d’Egitto Psammetico da parte del re di Persia Cambise che, dopo averlo sconfitto, lo umiliò costringendolo a guardare i prigionieri sfilare davanti a lui. Psammetico, nel racconto di Erodoto, resta muto non solo quando vede la figlia trattata come una serva ma anche quando vede il figlio mandato al patibolo. Resta muto e immobile finché non riconosce tra i prigionieri uno dei suoi servitori. In quel momento le sue grida di dolore diventano strazianti e inizia a percuotersi violentemente il petto.

Perché? 

Erodoto non lo racconta.

Ed è proprio questo che rende questa storia magica, significativa, fissata nella memoria del lettore. Narrare presuppone una comunità disposta all’ascolto, in cui alcuni fatti sono omessi proprio per rafforzarne il valore. Al contrario delle informazioni veicolate dai mezzi digitali producono solo effetti e reazioni istantanee. Il racconto è di contro un seme la cui forza germinativa rimane nel tempo.

Per questo la narrazione può salvarci. Può ridarci indietro il vero concetto di comunità con il suo bagaglio di esperienza e saggezza. 

Solo attraverso la narrazione si produce una comunità solidale e che può indurci a sperare che l’individualismo coatto dell’autopromozione genera solo angoscia, frustrazione e depressione.





 


sabato 11 gennaio 2025

Perché oggi Torino è la città più anarchica d'Italia?

 

L’ultima volta che ho sentito parlare di anarchici a Torino è stato qualche giorno fa, durante la protesta per la morte di Ramy Elgaml, il diciannovenne morto la notte dello scorso 24 novembre dopo lo speronamento da parte di un’auto dei Carabinieri. A dire il vero ne ho sentito parlare centinaia di volte da quando vivo in questa città, dallo sgombero dell’asilo occupato di via Alessandria al corteo per Alfredo Cospito, e ogni volta penso la stessa cosa: Torino è la città più anarchica d’Italia. Non mi interessa dare un’accezione negativa o positiva a questa affermazione ma scoprirne le ragioni, capire perché qui l’anarchia si trasformi quasi sempre in violenza e perché la rabbia sociale si manifesta in scontri pericolosi anche per i cittadini che protestano pacificamente.

Perché una violenza tale? Perché una rabbia così feroce? Ho provato ad interrogare alcuni amici di Torino sulla questione. Qualcuno era quasi compiaciuto nel prendere atto di questo primato, altri hanno esitato prima di dare una risposta ad una domanda che sembrava così semplice ma che nasconde ragioni sociologiche tutt’altro che ovvie.

Una delle spiegazioni è forse legata alla Fiat. Cosa succede se dal Sud emigrano intere famiglie per popolare una città fredda e austera come Torino? Succede che la popolazione subentrante viene ghettizzata e tenuta alla larga dai contesti centrali della città, esattamente come quello che è successo dopo in Italia con l’arrivo di migranti da tutto il mondo. Questa formula del ‘ti confino in un quartiere e da lì non ti muovere’ ha fatto sì che il tessuto sociale non solo fosse disgregato ma che nascessero delle comunità locali in cui il dialogo e il reciproco aiuto, l’assistenzialismo sociale fossero alla base di un ordinamento politico e che lo ‘stare insieme’ fosse l’unico premio al sacrificio di massa dovuto all’espatrio.

I luoghi vergini, dimenticati, confinati del ghetto hanno costituito delle roccaforti di umanità anche quando il Comune di Torino, con la gentrificazione di massa iniziata nel 2006 con le Olimpiadi invernali, ha cercato di riqualificare quei quartieri ‘operai’ o ‘multietnici’ per interessi economici diversi e per offrire un ‘decoro’ (parola estremamente abusata dall’amministrazione cittadina) zone che ai cittadini di altri quartieri facevano paura. Per evitare che i torinesi si spostassero (come stavano già facendo) nelle zone limitrofe a Torino, l’amministrazione decise di coniugare gli interessi economici e imprenditoriali di una fetta della città all’ansia sociale generatasi nel contatto con il diverso modus vivendi dell’altra parte di popolazione acquisita.

Se la paura crea diffidenza, accade che ci si isoli a livello sociale e ci si disinteressi completamente delle questioni politiche della città. Torino oggi è una città in cui il gap culturale, sociale ed economico è estremamente alto e lavorando negli uffici postali mi è capitato di incontrare clienti smisuratamente ricchi, con diverse case al mare e in montagna e un reddito molto alto e persone costrette a vivere per strada (laddove non disturbi il ‘decoro urbano’) a seguito della crisi che ha costretto piccole e medie aziende a chiudere i battenti. Ciò crea una spaccatura profonda nel tessuto sociale e accade che i ricchi non si fidano dei poveri e i poveri dei ricchi.

La solitudine sociale ha fatto in modo che i nuclei familiari si disgregassero e la libertà individuale è stata sostituita dalle regole. L’interruzione  della vendita di alcolici oltre le ore 24 e la vendita di bevande in bottiglia di vetro oltre le ore 23 hanno causato chiusure temporanee o definitive delle attività commerciali, il contenimento dei volumi della musica tra i 45 e i 50 decibel durante le ore serali e notturne al fine di non interferire con la quiete pubblica dei residenti, la difficoltà di creare eventi nelle piazze, soprattutto a seguito dell’evento del 3 giugno del 2017 che ha causato la morte di tre persone, la chiusura dei Murazzi, luogo di attrazione e socializzazione ineguagliabile.

A che servono le regole in una città? Perché il rispetto delle regole, anche le più assurde, è fondamentale in questo periodo per il funzionamento di un governo politico? Le regole sfruttano la paura e creano un meccanismo sociale che invita i cittadini alla sicurezza, alla tutela dall’ ‘altro’ anche quando l’ ‘altro’ non è una reale minaccia e preferiscono chiudersi in casa rinunciando alla loro libertà individuale piuttosto che aggregarsi e ragionare su una politica che tenga realmente conto delle loro esigenze reali.

Come diceva Umberto Eco, se non abbiamo un nemico dobbiamo costruircelo. Questo è quello che succede nella ‘guerra’ anarchica a Torino, una protesta che trova come primi capri espiatori coloro che fanno rispettare le regole e che rappresentano uno Stato che non conosce i contesti sociali reali e si erge a risolutore di questioni complesse tramite  manganelli.

Prevedo un aumento esponenziale dei casi di rivolta sociale in Italia. Arriverà forse un giorno in cui gli uomini si disinteresseranno totalmente agli uomini e non ne sentiranno la mancanza ma prima tutti i ghetti del paese cercheranno di reagire per difendere il diritto alla libertà e all’umanità. Per ora la parte gentrificata della città ha sostituito gli esseri umani con i cani (decisamente più fidati), ricevendo affetto dagli animali piuttosto che dalle persone. La ‘cultura del sospetto’ che allontana la popolazione delle città ci ha resi scettici nei confronti della stessa vita, laddove prima la vita era condivisione, aiuto, umanità.


Porta Palazzo, 2016


 

venerdì 3 gennaio 2025

Tempo

 Nella morbida ovatta della noia lavorativa,

mi si blocca nel petto

il peso di tutte le cose non fatte,

non portate a termine,

di tutto ciò che non mi sono concessa 

per mancanza di tempo e brio.

Quale tempo? E quale brio?

Il tempo della rincorsa 

di qualche successo?

Successo per chi poi?


Il tempo del dovere

grava come spada di Damocle,

dando un senso sbagliato

all'essere viva, all'avere due occhi,

due mani, un cuore.

Inscatolarsi in cubi di muri bianchi

arredati di armadi blindati,

alimentarsi di luci artificiali.

Dalla scuola saltelliamo da una gabbia all'altra,

dimentichiamo il valore dell'uomo,

la sua natura beatamente animalesca,

libera,

scomposta,

complessa.

Dimentichiamo che 

il tempo deve rimanere tempo

e l'uomo

deve rimanere uomo.



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