martedì 30 agosto 2016

Il mio programma è andare al bar


La differenza più grande sta nella gestione del tempo perché i miei clienti torinesi accettano appuntamenti, agenda in mano, solo dal mese prossimo, sia ad agosto che ad ottobre. Hanno programmato i prossimi trenta giorni e sanno già che tempo farà, se andranno a lavoro in macchina o in bici, cosa mangeranno, quando faranno il cambio di stagione. Hanno sempre l’ombrello in borsa, organizzano le gite per le offerte da Esselunga e mandano un collega a fare la spesa per tutti. Sanno cosa è successo esattamente un mese fa. 
Il livello di umidità, la palestra il martedì e il giovedì, la mamma una volta al mese, il viaggio tra un anno esatto, albergo già prenotato e lista della roba da portare in valigia, la colf il lunedì e il parrucchiere il sabato mattina, il 30 agosto alle quattro all’Ikea, a memoria gli orari di treni e pullman. 
Sanno a memoria tutta la loro vita. Questo mi mette profondamente a disagio, io ho preparato alla fine del liceo solo una mappa concettuale della mia vita, io sono abituata ad improvvisare, a fare i compiti nell’ora di religione, a fermarmi in un posto perché mi colpisce la luce, a dare appuntamenti approssimativi, ad imboccare una strada che fa odore del sugo di mia nonna, a fermarmi solo quando sono stanca, sedermi al bar e seguire le vite degli altri, immaginarle con precisione.

Mi sono seduta al bar di piazzetta IV marzo a Torino per bere una birra. I proprietari sono una coppia di sessantenni alla mano. Ho ordinato una Menabrea, avevano solo quella. Lei è di Carini, abbiamo parlato l’altro giorno. 
Stavolta è lui a presentarsi al tavolo per prendere l’ordine. Gli chiedo se anche lui è siciliano. Lui risponde di no, ma mi spiega che ha vissuto a Messina per quindici anni. 
Poi si mette a piangere. Sì, si mette a piangere, e io mi sento terribilmente in colpa. Chiedo scusa, lui torna dentro al locale. Poi torna e mi dice che ha lasciato la Sicilia per colpa della mafia, ‘prima degli anni Settanta a Messina la mafia non c’era, si stava bene. Io adoro la Sicilia, io sarei rimasto lì per sempre, io ero felice’. Piange di nuovo. ‘Ho dovuto fare una scelta, partire o restare. Se fossi rimasto lì mi avrebbero fatto la pelle, sarei morto’. Gli chiedo di nuovo scusa. ‘Io sono romagnolo, io sono orgoglioso tanto quanto i siciliani, il pizzo non l’avrei mai pagato. E non l’ho fatto, nemmeno dopo le minacce e una pistola puntata alla tempia’. 
Qui a Torino noi siamo più liberi, programmiamo tutto ora per ora, è vero, ma siamo comunque più liberi. La libertà di programmare in Sicilia voi non ce l’avete. 
Non vi piace programmare tutto, ma anche se vi piacesse non lo potreste fare. Voi non siete liberi, per niente. Laddove avete la possibilità vi inoltrate in vicoli che non portano da nessuna parte, perché lo decidete voi, e nessun altro, fate quello che vi passa per la testa quando potete. Voi siete sempre stati abituati a farvi fare i programmi dagli altri, a far decidere gli altri. Voi siete a Statuto Speciale, voi andate al bar a raccontarvi i segreti, ad ubriacarvi, siete abituati a farvi comandare, a ricevere ordini. 

Ieri era l’anniversario della morte di Libero Grassi. 
Te lo ricordi Libero Grassi? 
Lui voleva insegnarci ad imboccare altre strade, a conservare la possibilità di scelta, di dire no a qualsiasi programma, a scegliere, andare a zig zag in una strada dritta dritta.

venerdì 26 agosto 2016

I pesci

Il mio cane mi sta parlando, il mio bambino è alla finestra e spia i passanti, il telefono squilla e il mio uomo si è perso per strada. Il basilico è morto e così ho comprato una pianta che ha bisogno dell’acqua soltanto una volta a settimana. La pianta di lavanda è appallotolata e non so come scioglierne i nodi, questo guscio di rami che crea ogni volta che entra qualcuno in casa. 
Sogno pesci, continuo da giorni a sognare pesci che mi rincorrono, vogliono mordermi e devo nuotare, nuotare più velocemente di loro altrimenti mi raggiungono e mi staccano la pelle. Ho deciso di farmi mordere. Voglio vedere che succede.

Tutto quello che vedo non mi attraversa ma mi si appiccica addosso e a volte è meraviglioso, altre volte fa malissimo.  

Ho stirato perfino le mutande, ho disegnato i pesci e ho cercato foto di pesci. La mia casa da oggi diventerà un acquario. Ho sognato la morte di Remi, uccisa dagli ungheresi, ho sognato Salvo, non era morto, stava bene e si era fatto un’operazione al viso per sembrare più giovane, ho sognato di lavorare e lavorare e sentire che non facevo mai abbastanza, ho sognato di impazzire, a lavoro, e dire tutto quello che avevo da dire e non avevo mai detto, in lacrime, in preda ad una crisi isterica, e ricordo che Giuseppe mi teneva la testa tra le mani e mi diceva di calmarmi, di stare tranquilla.
Sono spariti tutti, il salumiere, il biciclettaio, il direttore, il medico. Tutti via, in ferie, io non li vedo. 

Sono rimasti solo i pesci e un orologio, me l’ha regalato Dani. Ho inserito le pile ma è fermo da quando l’ho appeso alla parete.

giovedì 3 marzo 2016

Anarchia mestruale a Porta Palazzo

Ho sognato l’esplosione di questa città, Superga, la Gran Madre, piazza Vittorio, i portici di via Po, piazza Castello, il palazzo reale, piazza San Carlo e la stazione di Porta Nuova, tutto schizzato in aria, tutto avvolto dal fumo e dalla polvere, tutto a soqquadro, nessun appiglio di umanità, nessuna logica, niente ordine, niente di niente, solo pezzi di tutto in aria, niente più cielo né pavé, Marco che mi porge lo zaino e mi intima di andare via, un paio di scarpe da tennis slacciate e un curriculum in mano, identico a sempre, una felpa a righe e lo sguardo sereno di chi non ha fretta.
Mi sento ferita dall’ordine becero di queste strade e mentre si frantumano sotto i miei piedi provo un senso di liberazione, un miracolo, mi sembra un miracolo che qualcosa si muova, le persone iniziano a correre e noi fermi lì, io immobile e Marco che sorride e ha già posato lo zaino per terra, non abbiamo fretta, non abbiamo dove andare, il posto è quello giusto e quando finirà il terremoto allora questa sarà la città giusta per tutti noi. 

Ale vive in due città diverse, la mattina può permettersi anche di rivolgere la parola agli sconosciuti ma la sera, non appena approda nella vasca di Porta Susa sa che deve rimanere muto e passeggiare in silenzio fino a casa dove io esplodo insieme a lui in un eccesso di vitalità che mi è mancata nelle ultime ore. Per me sono quattordici ore di tabula rasa, di elettroencefalogramma piatto e quattro ore di sfogo, di rabbia e allegria, di follia e urla, di risate sonore e occhi finalmente accesi, l’indifferenza se ne va insieme a questa città e i portici di piazza Statuto si trasformano nella curva del San Paolo.

Stefy mi guarda attenta e mi chiede cosa c’è. Non riesco a respirare bene. Mi dice ‘rilassati’, puoi amare chi vuoi, puoi parlare con chi vuoi, è così che ti conosco e così devi rimanere, mi strappa un sorriso e ci abbracciamo, l’amicizia ci viene naturale ed è una cosa troppo bella. Ogni tanto piange. L’ha fatto anche al nostro primo appuntamento. Non è fatta della stessa pasta delle persone che fanno da sfondo a questa città. Al Valentino, sotto un albero quasi più piccolo di lei mi ha fatto bene guardarla indifesa avvolta da quella natura finta, ordinata e composta. Lei era più forte.

Scompongo le mie giornate e mi sento meglio, agire qui è difficile, serve un sacco di coraggio e sono diventata timida, inadatta, inopportuna. 
Che strano effetto mi ha fatto vedere quella ragazza che ho conosciuto una sera qualche mese fa, mi ha abbracciata e mi ha sorriso di cuore, dicendomi che le faceva davvero piacere incontrarmi per caso, non ha esitato, ha smesso di parlare con la sportellista della Posta, optando per un eccesso di calore e attirando tutti gli occhi della sala su di sé. Sai perché sono qui? Lo sai?
Stefy, Marco e Ale continuano ad abbracciarmi e a farmi divagare, a farmi andare fuori strada, a tagliare in diagonale i viali e non rispettare i semafori.
Marco torna a Napoli senza un lavoro, Porta Palazzo crolla, le bancarelle alle sei di mattina sono ancora smontate, nessuno ha più voglia di lavorare e quelle cazzo di molle che mi ritrovo sotto i piedi non saltano più come prima. Adesso che la foto di Maradona ci arreda la casa mi sento come se la leggerezza fosse un po’ più lontana dalle mie giornate, come se sei ore per la preparazione di un buon piatto fossero perfettamente inutili, come se il Torino Film Festival fosse solo uno squallido ritrovo per gente che non ha un cazzo da fare, come se l’hip hop non fosse mai esistito, come se il trash fosse davvero solo immondizia, come se tutte le bici del ToBike non funzionassero più, tutte rotte o col sellino storto o con la ruota bucata o senza freni. 


lunedì 22 febbraio 2016

Fin de siècle

Sono in quattro milioni e mezzo fuori dall’Italia, la seconda diaspora al mondo dopo quella cinese, a quanto pare. Sono tutti più o meno felici, a dispetto di quello che succedeva nel XIX secolo, più o meno soli e parlano perlopiù inglese. Se ne sono andati alla fine dell’Ottocento e poi ancora nel Novecento e poi ancora adesso, tutti fuorisede con il medico provvisorio e le pareti tappezzate di foto e le tariffe economiche migliori per chiamare il proprio paese, gli scatoloni spediti per posta, i discount, uno o due libri, un vagone di medicine e l’apparecchio per l’aerosol, tutti numeri italiani sul cellulare e una vita fatta di sveglia, lavoro, kebab e letto. Dobbiamo lavorare, dobbiamo guadagnarcelo il futuro, così, facendo almeno qualche sacrificio. Cambiano le geografie sentimentali e dopo un po’ abbiamo la certezza che alcune persone meritavano più tempo, che è un peccato lasciar tutto così, lasciar perdere, rapporti a distanza, skype e stronzate varie, amori che sono ombre, senza corpo. E quando ci ritroviamo siamo già diventati altro, possibilmente siamo diventati nebbia, rabbia, aridi e così abituati alla solitudine da non riuscire nemmeno a sorridere.
Ce ne andiamo in massa e invadiamo gli altri paesi ma non accettiamo che nessuno venga a romperci il cazzo a casa nostra. Siamo razzisti, siamo un paese di stronzi, non vogliamo nessuno e rispediamo in Libia gli immigrati eritrei ed etiopi. Lo faceva il nostro vecchio Presidente del Consiglio nel 2010. Non aveva capito nulla evidentemente perché adesso gli immigrati arrivano da tutte le parti e questo vuol dire solo che è tempo di accoglierli e rispettare i patti. L’Europa si sfalda e si scanna e mentre si scanna e non rispetta gli accordi la gente muore e annega, Sicilia e Africa sono collegate da un ponte fatto da una miriade di cadaveri africani che non ce l’hanno fatta ad arrivare sani e salvi a casa nostra.
Dagmawi dice che una delle poche cose che ricorda sono quei sette secondi, gli unici che non dimenticherà mai, di quando è sbarcato in Italia e la sua intervista è andata in tv. Il resto l’ha rimosso. E noi abbiamo guardato la fine del secolo compressa in un piccolo schermo e non ci è sembrata un’opportunità, piuttosto una condanna. Non ci è sembrata un’opportunità quella di impedire il collasso dell’Europa grazie agli emigranti. Da noi figli non ce ne sono più, tutti morti, vittime della crisi, della disoccupazione, del malgoverno e del nostro egoismo. Solo loro possono garantire i livelli attuali di produzione e welfare e, quando a metà del secolo ci sarà meno forza lavoro, saranno loro a sputarci in faccia e a guardarci dall’alto in basso. Pensa ai siriani e alla Germania che ne accoglierà 500.000 nei prossimi anni. I siriani sono quasi tutti professionisti, medici o professori o imprenditori e mirano al ricongiungimento del nucleo familiare, non accettano l’idea di vivere lontani dai loro padri e dalle loro madri, presto diventeranno tedeschi, e allora sì che la Germania sarà un paese di ferro.
Il signor Giovanni il pesce non lo mangia più da qualche anno, dice che i nostri mari ormai sono inquinati, sono imbrattati da quei corpi che annegano, i corpi dei negretti che sporcano e inquinano. Il pesce non è più buono, dice. E mentre lo dice centinaia di negretti affollano il mio ufficio e sono a un palmo di naso da lui che li disprezza e dice che prima Torino non era così, era diversa, è cambiata in peggio. Lo dice con la faccia disgustata e io lo guardo, lo osservo attentamente e non dico nulla, sto zitta. La signora Anna invece dice che per lei il cambiamento è fondamentale, restare fermi è pericoloso.
E il cambiamento è una nuova Europa di immigrati, in cui le culture si mescolano e la paura viene esorcizzata, in cui finalmente non ci saranno più alieni e l’integrazione sarà la normalità.


Nell’Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non hanno il senso della proprietà.
E su quest’ultima cosa avevano ragione, perché come può un uomo senza proprietà conoscere l’ansia della proprietà? E i difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli?
Gli indigeni si suggestionarono fino a crearsi una corazza di crudeltà. Formarono drappelli, squadre, e li armarono: li armarono di manici di piccone, di fucili, di gas. Il paese è nostro, non possiamo lasciare che questi Okie facciano i loro comodi. [...]
Le grosse imprese non capivano che il confine tra fame e rabbia è un confine sottile. E i soldi che potevano servire per le paghe servivano per fucili e gas, per spie e liste nere, per addestrare e reprimere. Sulle grandi arterie gli uomini sciamavano come formiche, in cerca di lavoro, in cerca di cibo. E la rabbia cominciò a fermentare.

Furore, J. Steinbeck







giovedì 3 settembre 2015

Prova lo xanax, dico io

Ho aspettato tre ore alla stazione prima di prendere il treno, pensavo ce ne fosse uno ogni ora e invece i treni per Cefalù d’estate vengono dimezzati. Non c’è nulla di male, a noi i turisti stanno sul cazzo. Sbuffano, si lamentano, guardano inorriditi il tabellone con gli orari e poi se ne vanno, e chissà dove vanno. Io so che il viaggio varrà l’attesa, perché il treno per Cefalù ad un certo punto diventa una barca. Il mare è lì, dietro il finestrino, basta tirarlo giù e fare un tuffo, lì dopo Trabia il treno diventa barca e quello è il premio per l’attesa, ma loro non possono saperlo. 

Sono stata a casa di un mio amico che vive in paese con i genitori, mi hanno ospitato per tre giorni nonostante in casa non ci fosse acqua. Hai capito come si ragiona qui? 
Grazia mi chiede un parere sul vestito del battesimo, sulla collana e gli orecchini, le scarpe e la borsa. Mi ha anche chiesto se il trucco color tortora secondo me potesse andar bene. Grazia sa come farti sentire importante. Mi ha preparato la colazione e mi ha impedito di fare il caffè, mi ha impedito di sparecchiare o lavare i piatti. Mi ha accompagnato alla stazione e mi ha raccontato che vorrebbe che suo figlio rimanesse in Italia, lo spera davvero e mi chiede di darle una mano a convincerlo. ‘Ci proverò’, le dico. 
Qui c’è il mare, il mare che osserva tutti i tuoi gesti, che ti tiene fermo. E Grazia ed Enzo non fanno altro che dirmi ‘hai visto che bel panorama che si vede da qui?’, e che bella temperatura, e il vento leggero e il profumo dei calzoni appena sfornati o delle melanzane fritte di prima mattina, il piacere di scambiare due parole, di parlare in modo spontaneo, in canottiera, con gli occhi ancora chiusi dal sonno.
Mia madre stamattina piangeva, e io non sapevo cosa dirle, non sapevo cosa fare, noi siamo qui nello stesso posto, nello stesso limbo tra il mare e il sole ed è lì che io vivo, vivo in Sicilia, abito solo in un posto diverso. Ma questo non so come spiegarglielo. Non so come spiegarle che per adesso deve accontentarsi di cullare i bambini di mia cugina e che la nostra società è un enorme rogo di passeggini, in pochi possono permettersi di avere figli adesso, e la natura, la natura dice che i figli si fanno dai 20 ai 30 anni e quindi ciao.

La voce della vicina la sentiamo bene da qui perché i muri sono sottili. Dice a sua figlia di stare tranquilla, che a Milano alla fine si sta bene, che qui non avrebbe saputo cosa fare, gli attacchi di panico prima o poi saranno solo un brutto ricordo, non c’è nulla di cui preoccuparsi, davvero. C’è sempre lo xanax, dico io.

Ti ricordi quando eravamo alla Sapienza e mi dicevi di non guardare mai la Minerva negli occhi? Dicevi che portava male e non mi sarei mai laureata, ti ricordi? Ci siamo passate sotto centinaia di volte eppure non abbiamo mai guardato il volto di quella statua. 
Siamo state a Palermo per tanti anni e non l’abbiamo mai guardata davvero, non ci siamo mai accorte, se non dopo anni, che la nostra città era ferma al Dopoguerra, che camminare tra le rovine della Vucciria non era una cosa poi tanto normale. I palazzi crollavano, piazza Garraffaello era una discoteca a cielo aperto e i residenti si lamentavano, la mozzarella a Ballarò era verde e il paninaro si soffiava il naso prima di tagliare a metà il panino, le blatte volanti ci si posavano addosso e il parcheggio non si trovava manco per il cazzo. Quant’era bella Palermo? Puzzava da fare schifo, al foro italico c’erano le puttane e le giostre, il mare era solo una lingua di spiaggia a Mondello, il mare non lo vedevamo mai, solo gli stronzi con i villini all’Addaura potevano farsi un bel bagno, indisturbati, soli. 
Perché ci manca così tanto? Non è cambiato nulla negli anni, quando si tornava a casa alle quattro di mattina sbronzi, a piedi nudi, come faceva Remi, e non ti poteva accadere nulla. 
Tra la nostra e tutte le altre città c’è uno scarto enorme, un abisso culturale immenso e quell’ambiente familiare, socialmente inaccettabile, non lo ritroviamo e non lo ritroveremo mai in nessun altro posto. 

Lo sai quanta vita ho grazie alla mia città? Lo sai quanta energia ho? Ma non riesco a convivere con quel senso civico che serve qui a Torino, avrei bisogno di un po’ di macerie, di un po’ di anarchia, di un po’ di sud.


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