domenica 16 ottobre 2011

IL GIOCO DEI BLACK BLOC è LO STESSO DEI POLITICI

Roma. La città sotto assedio.

Un sole che rischiara le strade. A seicento metri la nebbia, il fumo, il buio, l’aria fitta, pesante, vergognosamente ferma. Una piazza che vedi in slow motion animarsi dallo schermo di un computer, con le casse spiegate e le bombe carta che producono boati che senti anche tu in diretta e arrivano dalla finestra con una potenza terrificante. Le urla, la gente che corre, fiumi di gente, fumo e sirene spiegate. Le camionette dei carabinieri che si fermano sotto casa e decine e decine di uomini in uniforme che prendono a marciare e battere i manganelli contro gli scudi, come drogati, come fatti di coca, come a farsi coraggio, come impauriti, terrorizzati, come ad incitarsi a vicenda, come a farsi forza, per forza, senza motivo, per portare i soldi a casa, per preservare una vita che non ha nulla di speciale, senza riuscire a trovare un motivo valido nemmeno per sfamare i figli in un paese in cui questi poveri figli non hanno futuro. Cercare le motivazioni, sperare di trovarle, a ritmo di manganelli contro scudi, marciando, urlando, come in guerra, avanzando, mentre la gente a pochi passi corre spaventata.
Guardare il mondo dalla finestra, la guerriglia sotto casa e aver paura di trovarsi lì fuori.
C’erano i miei amici per strada, c’era il mio ragazzo, immersi nel corteo delle strade del centro, a sfilare con gli indignati al ritmo di tamburi, ignari di ciò che si stava consumando nelle strade del nostro quartiere.
Il panico del mio coinquilino che urlava ‘sono sotto casa, sono sotto casa!’ e un momento di sconforto, di paura, l’impotenza, il controsenso di una piazza invasa da gente morta che non vuole andare da nessuna parte, da nichilisti del cazzo, da pupini neri più piccoli di te, da ombre che non credono in nulla e che non puoi fermare. La morte che sconfigge la vita, sempre.
Un corteo colorato, vivo, migliaia di persone con gli sguardi vivi, con la luce negli occhi, con la voglia di cambiare e di riprendersi la vita, migliaia di giovani e famiglie fermati da un gruppo di finti anarchici benestanti.

La paura che ci blocca tutti, la paura che ci fa fare marcia indietro, che ci impedisce di parlare, in piazza come nella vita di tutti i giorni, la paura che ci sia sempre qualcuno armato pronto a colpirci, la strategia della tensione e del terrore costanti, il meccanismo perfetto per zittire la gente.
I pupini neri fanno lo stesso gioco dei politici.
Quella che hanno saputo creare in questi anni è la più grande rivoluzione mondiale di tutti i tempi, una rivoluzione antropologica e sociale combattuta con l’arma del terrore psicologico, è una rivoluzione che ha mutato le persone da dentro, le ha trasformate in soggetti costretti ad ascoltare le raccomandazioni dei media come genitori che mettono in guardia i figli, come ammonimenti che valgono per la nostra vita quotidiana. Il risultato è che ci sentiamo sempre meno tranquilli perché le borse crollano, la disoccupazione giovanile è a livelli mai raggiunti prima, Roma è la città italiana col maggior numero di incidenti e anche la città più violenta, i rumeni sono sempre ubriachi e violentano le donne, gli autisti sull’autobus sono sempre distratti perché giocano con l’i-pad mentre guidano, i pazzi sono dappertutto, se non offri una sigaretta al passante che te la chiede rischi di essere accoltellato, Vendola è gay e ripete discorsi fatti da altri 50 anni fa, Berlusconi va a puttane, c’è il rischio che la tua donna potrebbe essere una puttana, anche tua figlia potrebbe essere una puttana, tuo figlio potrebbe essere uno spacciatore, il lavoro degli operai nelle fabbriche e nei cantieri non è mai sicuro, meglio non partire per il rischio attentati, gli italiani che si spostano spesso muoiono come anche gli stranieri, per lo più ragazzi della tua età coinvolti in orge perugine in cui sono coinvolti uomini e donne di tutte le nazionalità, i figli sono un sacrificio degli uomini che in realtà speravano in un’altra vita e non avrebbero mai voluto un marmocchio in un paese che non dà pane nemmeno a sé stessi. E tu ormai hai paura di tutto, e inizi a pensare che dovresti parlare di meno, provocare di meno, agire di meno, uscire di meno, anche solo per limitare i rischi.
Lo stesso fanno i pupini neri, diffondere il terrore.
Ma allora quello che mi chiedo è quale spazio possiamo prenderci per esprimerci, quali spazi ci sono rimasti per non avere paura di nulla e ricominciare ad agire. Vogliono limitare l’azione oltre che il pensiero, vogliono farci credere di non avere armi, che in questo momento è meglio rassegnarsi e gettare la spugna, e noi lo facciamo e ci riuniamo la sera a casa di amici e parliamo solo di questo, di quelli che erano i nostri sogni un tempo, interrogandoci sul perché adesso non ne abbiamo più nemmeno uno, su cosa ci sta rendendo così inermi, disarmati e flessibili, su cosa ci sta succedendo e perché, cosa dobbiamo fare e dove dobbiamo andare. Non riusciamo nemmeno più a divertirci, forse solo a dimenticare, buttando giù qualche bicchiere perché sembra non ci siano parti del mondo felici, uomini felici, gente col sorriso se non i nostri politici. E anche per loro sembra che la felicità coincida con la ricchezza e questo ci rende frustrati e tristi perché anche noi vorremmo 16 puttane sempre pronte a dare il culo quando glielo chiediamo o un aereo privato che ci porti alle feste più fighe del mondo o un armadio pieno di vestiti firmati e stilisti sempre a nostro servizio e i migliori cuochi e parrucchieri, e un maggiordomo e la donna delle pulizie bona e la segretaria e il mac e l’attico e la villa e soldi da ‘spardare’ in viaggi costosi, auto costose, moto costose e barche costose eccetera eccetera.

Quello che ci manca è la coscienza di noi stessi, la consapevolezza di ciò che ci sta succedendo, una pausa caffè a tu per tu con il proprio barista di fiducia, un momento in cui ci guardiamo veramente dentro, un black out, un nuovo inizio, raccogliendo i pezzi e rimettendoli insieme, una terapia collettiva fatta di outing non solo col proprio psicologo ma soprattutto con noi stessi, guardandoci allo specchio per vedere come siamo adesso, cosa ci piace e cosa non ci piace. Perché non ce lo chiedono mai e ormai non lo sappiamo più. Ci serve un attimo di pausa, guardare la gente negli occhi senza avere paura, fidarsi di più degli altri.

Solo senza paura riusciremo ad agire, a concludere qualcosa. Fino a quando la paura e il terrore saranno il nostro pane quotidiano, saremo immobilizzati, troppo impauriti per aprire il portone di casa e uscire    fuori.


giovedì 29 settembre 2011

Esagerazioni molto personali - La città dei porci

Caro diario,

quello che sento in questo momento è solo un traffico frastornante fatto di clacson scarichi e di gente a rischio infarto per imprecazioni moleste tipo ‘li mortacci tua’ e poi una tosse persistente della mia coinquilina che oggi ha fatto un esame con la voce completamente scarica. Questi suoni rimbombano nella stanza e sento come una dose di buonumore che mi pare veramente strana perché immotivata. Diciamo che non ho alcun problema, in cucina c’è una pentola con fagioli sedano cipolle e carote e tutto bolle. Ho solo un nodo allo stomaco che si scioglierà presto, ne sono sicura. Però va tutto bene, ho ancora un lavoro e sento che tra un po’ di tempo potrei anche riuscire ad andarmene via da questa città e mi sento veramente meglio. Il sole la mattina non è tanto caldo qui, esco presto, prestissimo e vado sempre con le scarpe più scomode, arrivo e trovo le mie colleghe al bar con un tipo molto simpatico che mi fa ridere sonoramente già alle 7 e mezza di mattina, il che non è poco, penso, mi guardo intorno, scruto la gente e hanno tutti il viso più stanco del mio, mi dico che anche i bambini sono infelici in questa città, che le mattine sono scomode per cerette e faccende estetiche di ogni tipo: tutti brutti, pelosi, con le borse sotto gli occhi, senza nemmeno i soldi per il deodorante credo, sciupati, secchi e infelici. Non è la mia città. Li lascio a voi questi rumori molesti, queste urla immotivate, questi marciapiedi fatti di topi e scarpe firmate, questa mezz’aria fatta di botulino e cocaina, questo stress morbido che fa diventare pazzi, questo fare le cose per forza, questa noia quotidiana fatta di insulti e corse per prendere il 3. Io mi accontento della mia dose di buonumore che arriva di rado e quando arriva è spiazzante anche per me ma mi rende lucida, tanto lucida da capire che non è questo il mio contorno ideale.







domenica 18 settembre 2011

Precari & precarietà

Il problema di queste giornate è che non riesco a parlare. Sono muta, non mi esce la voce. Non so perché ma è come se la mia partecipazione, seppur solo vocale, telefonica, a distanza, non avesse il minimo significato.
Muta. E mentre sto muta, e non mi esce nemmeno un filo di fiato, mi accorgo che un tempo non ero così, che prima avevo tanto da dire, e adesso niente. E non so perché. Sono muta da qualche giorno, da qualche mese, da qualche anno, un paio credo. E non sorrido facilmente, non mi viene. Non capisco perché da un giorno all’altro mi ritrovo spaesata e col culo per terra. Eppure mi avevano detto che questo lavoro sarebbe durato poco, qualche mese, sei, sette. Mi avevano anche detto che forse mi tenevano con loro, perché ero brava, certo, e puntuale, e impeccabile. Ma forse ero troppo attenta a non sbagliare, forse ero attenta al lavoro e non troppo a lasciarmi andare. Forse mi ha fottuto quella paura che avevo di restare senza lavoro da un momento all’altro. Cerchi di costruire qualcosa, e lo fai con meticolosità, pazienza e impegno per quasi una anno, ti sforzi per svegliarti presto ogni mattina, per preparare la cena e il pranzo da portare in ufficio il giorno dopo, ti allontani dai tuoi amici ancora studenti perché a volte i loro ritmi e le loro parole ti urtano; esci di meno, stai al buio in un seminterrato durante il giorno perché alla tua collega di stanza dà fastidio la luce perché non vede lo schermo del pc, le lavatrici le fai solo il fine settimana, pulisci la casa che sembra un centro sociale, diventi grande, odiosa, stupida, frivola e cogliona, pensi a cosa devi indossare il giorno dopo, pensi a quello che vorresti fare veramente e non trovi risposte, leggi il giornale online e ti viene voglia di sterminare il genere maschile, ascolti tutti i discorsi più frivoli e più squallidi del mondo, fin dalle otto di mattina, ti dispiaci per le tredicenni troie di questo paese. Mi avete fatta diventare così triste per niente? Adesso sarò triste e disoccupata.
Oggi mi ha consolato una frase della mia amica che dal nulla a tavola ha detto: ‘Non è vero che l’amore finisce. Il nostro non finirà mai’. Più banale e ridicolo di così non si può, ma mi sono commossa lo stesso, senza motivo.

giovedì 1 settembre 2011

I miei due grammi di ragione sono esauriti (cit.)

Non sai quanto ti adoro quando mi dici che vivere è la cosa più facile del mondo. Mi si tinge lo stomaco di arancione quando sei così ottimista, mi sento subito avvolta nel più stupido paio di braccia, mi sembra veramente tutto così facile, e la paura di svegliarmi viene risucchiata dagli alberi di fronte alla finestra. Il mondo facile e la vita facile, e una bocca che ti sveglia la mattina e un pene in erezione quando stai per aprire la porta di casa per andare a lavoro e il cibo che chiede di essere scongelato, e la spazzatura di essere divorata da formiche imbecilli e mute.
Mi è bastato un giorno di lavoro per riprendere contatto con la realtà, quella realtà che non vorrei mai diventasse tale, fatta di contatti , di e-mail, di voci finte, di mauromaurizio e nomi stupidi come questi, di bambini deficienti e calendari con culi e tette, una vita fatta di soldi ma spesa con umiltà e umanità, un mondo che seppur un tantino squallido ti fa stare bene a livello umano mentre prima vivevi di rispetto comprato a forza e un paio di bottiglie di vino a sera ripetendo versi di Rimbaud. Quando il lavoro faceva schifo e la vita era meravigliosa e si poteva viaggiare solo con una lezione del professore più presuntuoso dell’ateneo e ridere delle sue cazzate che in fondo erano il tuo pane quotidiano, essere solidali a tutti i lavoratori che faticavano per portare la spesa a casa, non comprenderli e non invidiarli, dire di loro ‘io non sarò mai così’.
Ci sono tantissime cose positive in questa città di merda, tantissime, puoi passeggiare senza essere fissato, puoi ignorare il mondo che ti passa davanti, fare amicizia con mezza Roma nel giro di 12 ore, puoi vedere la gente cadere e rialzarsi da sola, puoi scrivere di lei senza essere visto, godere dei privilegi legati alla finta civiltà, visitare parchi e ville, lavorare, prendere il 3 vuoto la mattina, mangiare dal Greco al Pigneto, dormire con manfredi, godere dei consigli di Daniela e delle tue colleghe, farti la doccia calda, comprarti delle casse e ascoltare la musica da sola nella tua stanza, comprare i colori acrilici per imbrattare tutto il bianco che vuoi, goderti questo cazzo di computer senza nemmeno internet, goderti la vista di una chiesa meravigliosa da sola alla finestra e non sai com’è fatta dentro, vivere di farro bollito e mare dimenticato, amare tante persone lontane, sentire il significato della parola ‘malinconia’, leggere il giornale, semplicemente amare l’indipendenza e odiarla nello stesso tempo perché è fatta di parti buie e persone che chissà come stanno.
Non lo so se vivere qui mi piace, so solo che questa città fa emergere la parte più amabile e anche la più detestabile di me. Gli eccessi che ti uccidono e ti danno la vita, quel bianco che ti si svela per essere odiato e per essere riempito, quella serenità che trovi o in un fondo di bottiglia o in un marciapiede dove facce come la tua sorridono e ti stimolano a forza, quella voglia di parlare che rende inutili i discorsi ma che riempie silenzi lunghissimi.
Grazie e vaffanculo, Roma mia.

Sincerely,

lunedì 22 agosto 2011

Roma dai capelli bianchi



La mattina mi sveglio, in questo nuovo posto, circondata da alberi e clacson, e sono inondata da una luce irreale, quasi finta. Il letto balla e fa strani rumori il pavimento color mattone e le pareti troppo bianche il disordine mentale e fisico odore di detersivo alla lavanda il bagno dello stesso colore delle coperte delle navi. Ci entro, mi ci tuffo ed esco venti minuti dopo con il viso restaurato, vado in cucina, mangio uno yogurt e bevo il caffè seguito a tappo dalla prima sigaretta della giornata.
Lancio un’occhiata alla strada, alla chiesa, alle vite che sgambettano di sotto, e mi sento grande; grande come gli operai, come le colf, come i nonni che non riescono a dormire per più di quattro ore a notte. Mi blocco a guardare le cose più futili, studio la cucina e le posate, il bigliettino caduto per sbaglio in corridoio, le foglie del mio basilico, il ghiaccio che si è formato in freezer. La mattina impiego circa un’oretta per prepararmi perché mi fisso sulle cose inutili.

Poi inizia il giro sull’autobus. Una signora di cinquant’anni circa, affetta da nanismo, urla ‘quanto sono stata scema a pensare che potesse lasciare sua moglie per me, quanto sono stata stupida! Ma adesso, adesso voglio tutto nero su bianco’. Grida con una voce che non è la sua, fissando un punto indefinito davanti a sé. Gli altri passeggeri non la guardano nemmeno, continuano a fissare i finestrini e leggere libri, affetti dal mutismo delle sette.
L’autista, inespressivo, guida piano, appagato dal suo kit portafortuna sulla consolle: telefonini, i-pod e tabloid.
Un signore di settant’anni, seduto nei posti sull’ultima fila, se la prende con la lingua dei conquistadores e, fissando un ragazzo sudamericano inizia ad imprecare: ‘siete delle bestie. La vostra lingua, la lingua dei conquistadores, ci ha rovinati tutti!’.
Scendo sulla Nomentana e sono già esausta, pronta a fumare un’altra camel.




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