domenica 10 aprile 2022

La notte finisce qui

 Abbiamo dormito male, scalciando e tossendo, sussurrando frasi senza senso e bevendo sorsi d'acqua nel cuore della notte. Abbiamo lottato con gli incubi che riempiono il buio, con i sogni complicati che ricoprono il viso di smorfie.

Poi finalmente è arrivato il sole che ha illuminato il mondo macabro in cui avevamo abitato di notte e ci siamo ricordati che la vita vera è luminosa a volte e, sfiancati dalla battaglia combattuta dentro alle lenzuola, ci siamo guardati e abbiamo accennato un sorriso che esprimeva il nostro sollievo. Devo ammettere che è stato difficile come attraversare un campo fitto di fichi d'India, ci siamo ricoperti di spine ma il peggio adesso è passato.

Amore mio, il tuo cuore ha cento anni, il tuo sguardo è già quello di un uomo maturo a cui nulla sfugge, i tuoi silenzi e le tue parole dosate con la dolcezza di chi ha miliardi di giorni di esperienza, come se prima avessi abitato un'altra vita, un altro corpo, un'altra testa. Sei una meraviglia che stento a credere sia frutto del mio ventre.

A volte ci guardiamo senza motivo, tu ti preoccupi che io stia bene e io sento se il tuo respiro è libero e ti sistemo la maglia del pigiama dentro l'elastico del pantalone, ti tiro sù i calzini che scivolano per i calci che tutte le notti tiri con violenza. La notte emerge la tua rabbia, la tua voglia di protestare per questa assurda situazione in cui ti trovi senza averne colpa. Eppure nessuno ne ha, nessuno ha colpe. Quello che voglio è che tu sia sempre un dono per me, che i miei sacrifici non ledano mai la mia identità, il mio essere donna oltre che madre. Devi sapere che non ho rinunciato a me stessa perché non voglio che tu lo faccia mai per nessuno. Quando non sei felice, quando non sei sereno, quando senti che il tuo corpo e la tua mente non sono allineati con la vita che fai, guarda da un'altra parte, cerca tra le mille strade che il mondo ti offre, fruga tra i cespugli delle vie sterrate che imbocchi, vai al mare, esci, soprattutto esci dalla tua vita per reinventarne una nuova in cui ti senti appagato, in pace con te stesso. Ascoltati e fatti ascoltare perché la tua voce deve sempre essere la più potente tra tutte. 

La nostra famiglia è eterna, quello sì, non ce lo tocca nessuno. L'amore che ci lega anche quello è eterno, sebbene ognuno di noi con i suoi passi e con le sue corse disegni nella mappa della sua vita geografie diverse, svincolate dal perimetro di casa. Cambiamo direzione, sempre, per rimanere vivi e alimentare la nostra serenità, per alimentare il nostro cuore e la nostra mente. Forse così i nostri sogni saranno meno tormentati e digrigneremo meno i denti.




venerdì 25 febbraio 2022

Ho copiato le madri

Ho sentito dire che le madri devono sempre perdonare i figli.
La mia voce è strozzata perché mi ha detto che l’ho fatta male, ho fatto una figlia piena di macchie, con la pelle a chiazze come un dalmata. Floriana mi ripete che è colpa mia, ‘mamma la colpa è tua che mi hai fatto così’, dice. 
Ho ingoiato bocconi amari, ho fatto una figlia e nessuno la vuole ma non potevo saperlo. Ha sofferto come ho sofferto io, senza padre da quando era piccola e chissà che fine ha fatto quell’uomo che avevo conosciuto una notte e mi ha lasciato il più difficile dei compiti, vita da madre, perché la colpa non era solo mia ma di entrambi, entrambi padri, entrambi madri, entrambi colpevoli. E la notte sogno che mia figlia riempie il pavimento di feci e io sto male ma son immobilizzata, non riesco ad aiutarla. 

Prima mi arrabbiavo di più con me stessa e con gli altri, mi arrabbiavo di più con Floriana che mi diceva che ero io, ero io che l’avevo fatta così deforme e orribile e io le urlavo contro per spiegarle che non doveva prendersela con me, che io non c’entravo nulla. 
Poi un giorno ho visto cosa fanno le madri, ho visto che perdonavano sempre i figli, che stavano zitte, incassavano il colpo e piangevano in silenzio, non ribattevano, non si ribellavano. Abbracciavano, consolavano, piangevano in silenzio, accettavano tutto, eclissandosi e accettando una condizione di vittime incoscienti, annientando la propria essenza di donne, ingabbiate in un groviglio di emozioni non espresse, mantenendo un volto senza rughe, senza mai esplicitare, travestendosi da mummie, pronte a esplodere per qualsiasi cazzata ma non con loro, non con i figli. E mi sono perdonata, ho perdonato lei, suo padre e me. Il mio cuore è calcificato e le gambe non reggono il mio peso. Non le dico nulla, incasso. Lo farò fino alla morte, quando chissà chi se ne prenderà cura.






mercoledì 24 novembre 2021

Pedaggi

 Dobbiamo costruire sentieri sterrati tutti i giorni, scansare gli alberi e i cespugli, avanzare con le nostre borracce piene di alcool, mentre il coro delle  nostre suonerie ci distrae. Abbiamo le scarpe bagnate e paghiamo un pedaggio ogni cinquanta metri. Arranchiamo, ci fermiamo su un masso a piangere un po’ per poi abbracciarci e asciugarci le lacrime a vicenda, sempre avvinghiati tra una risata e una vampata di calore che ci rassicura sulla strada da percorrere. 

Dobbiamo andare senza arrivare, mentre gli animali ci passano accanto tendendoci le zampe, tentando di distrarci, di separarci. Dobbiamo cercare sempre di rimanere concentrati. Ogni tanto perdiamo le scarpe, ogni tanto crediamo alle parole del bosco, alle parole dei sogni passati. 

Ma non perdiamo mai la pazienza, la precarietà ci tiene in vita senza alcuna pretesa e siamo gelosi dei nostri corpi e delle nostre parole.

Dobbiamo pensare che la mia vita sia nelle tue mani e la tua nelle mie, che ci sono voluti anni di traslochi per trovarci, che mi proteggerai come fai con la tua vita, che avrai paura di perdermi sempre, di rompere tutti gli equilibri. Dobbiamo aver cura di avanzare piano, con la grazia di chi ha avuto cento vite e cento morti prima di noi.






giovedì 11 febbraio 2021

Prima d'ora

 Prima d’ora questo silenzio mi aveva addormentata, cullata nella penombra di un cielo grigio di nuvole monotone e ammassate. Ne era venuto fuori un groviglio di sogni belli e angoscianti, incubi e sogni d’amore, tonni braccati da persone, uccisi con un abbraccio, una stretta soffocante, uomini che picchiano donne, tori che spaccano il muro con le corna e l’angoscia di non poter entrare in casa, un uomo che mi corteggia e mi bacia dolcemente, la voglia di farmi bella per qualcuno che non ricordo. Incubi dolorosi e sogni d’amore. 

Prima d’ora ho letto e guardato serie tv, creato collane, cucinato piatti dolci e salati, dipinto con Dario, ascoltato stupide canzoncine portoghesi. 

Prima d’ora l’immobilità non mi ha minimamente scalfita, mi ha soddisfatta in modo normale, ha alimentato la mia ignavia, la mia pigrizia.

Prima d’ora non ho sentito niente, nessun dolore nonostante la sfilata di carri funebri, volti invisibili coperti da mascherine, mani rese insensibili da guanti, corpi igienizzati senza odore,  solo alcol che sterilizza ogni percezione olfattiva.




Ora invece sento una nausea terribile per la mia vita ferma, per l’assenza di carne e abbracci, una nebbia fitta confonde realtà e immaginazione, la luce rimane imprigionata in un tramonto perpetuo, l’amore è ingabbiato dalla paura, il fumo che esce dai comignoli si è fermato. 

Ho bisogno di svegliarmi. 







mercoledì 11 novembre 2020

Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale


Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale, a Torino, in zona rossa, dove non si poteva uscire e nemmeno entrare. Ero circondata da pareti, nessuna presa d’aria e una coda umana appoggiata alla porta automatica chiusa a chiave e aperta a singhiozzo, a centellinare esseri umani per vedere chi e cosa avevano da maledire questa volta, ad ascoltare il lamento e il dolore di tutti, imitarne per empatia i silenzi e le urla. 

Ero nel mio gabbiotto a  rispondere alle domande dei clienti, immobile sulla sedia a guardare uno spettacolo di disumanità e tristezza, persone invalide, donne incinte e anziani aggrediti perché saltavano la fila. Iniziava così il lockdown, con una rabbia generale che si sfogava contro i pensionati. Iniziava con l’odio per l’altro, perché c’erano le file da fare per comprare il pane, le medicine e le sigarette, c’era la disoccupazione, la cassa integrazione che non arrivava dall’INPS, l’affitto  e il mutuo da pagare, le tasse, l’asilo, la macchina, lo SPID, moduli da compilare online, codici e PIN.

I bar erano chiusi, come anche le palestre, i cinema, i teatri e gli stadi, il coprifuoco iniziava alle 22 ed era proibito ogni  contatto fisico non strettamente necessario. Iniziava con la paura, con il senso di colpa per essere andati a trovare i genitori o aver preso un caffè con un amico. Il lockdown iniziava con l’odio per l’altro, continuava con il senso di colpa.

Proseguiva con la malattia, il lutto. Le distanze enormi e un medico che chiamava una volta al giorno per informare i parenti sullo stato del paziente. Negata la possibilità di parlarci, di salutarlo, di avvicinarsi per una carezza, negati i funerali.  Niente di più difficile da sopportare, separati per sempre col cuore strozzato, senza un colpevole da prendere a pugni. 

Bambini robot che si lavavano le mani in continuazione, che a due anni urlavano 'lockdown!' dal balcone , che quando suonava il citofono si spaventavano e che non capivano perché per mesi non potessero vedere i nonni. Bambini che crescevano con traumi terribili, i cui genitori litigavano perché i papà li portavano a casa dei compagni di classe per giocare, all’insaputa delle mamme che diventavano isteriche e paranoiche quando lo scoprivano. 

Fiumi di antidepressivi e ansiolitici in gocce prescritti dai medici di base, incubi notturni, ansia diffusa e da limbo, come la chiamavano.

Aziende che non facevano i tamponi ai dipendenti, che ignoravano i positivi per paura di chiudere e fare meno profitti, liberi professionisti che inveivano contro i dipendenti pubblici, dipendenti pubblici che inveivano contro gli utenti, giovani che inveivano contro anziani, ricchi contro poveri che percepivano il reddito di cittadinanza. Queste erano solo alcune delle conseguenze della risonanza mediatica che aveva avuto la pandemia, letale per i sani prima ancora che per i malati. 

Nessuno spazio per liberarsi dalla paura, nessun luogo. Non solo non bastavano gli infermieri e i medici per curare i malati, ma nemmeno le forze dell’ordine e i vigili del fuoco per sedare rivolte, risse e fermare atti di suicidio.

Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale e vedevo i carabinieri a giorni alterni dal mio gabbiotto. Di fronte alle persone esasperate che urlavano perché avevano perso tutto,  le forze dell’ordine mostravano un atteggiamento comprensivo, avevano gli occhi lucidi e sorvolavano anche su fatti sui quali qualche tempo prima avrebbero sicuramente fatto rapporto. Io vedevo esplodere gente per nulla, vedevo micce dappertutto, vedevo paura e rabbia dappertutto.

Avevamo perso il contatto con la vita e la morte, avevamo perso non solo quelle poche vere consolazioni della vita ma anche le poche vere consolazione della morte.

Forse avevamo sbagliato tutto.

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