lunedì 13 gennaio 2014

"La scuola dei disoccupati" di Zelter

C’è una libreria, a Torino, che apre le porte nel cuore della notte e pullula di “nuovi profeti”.
Tra gli scaffali spiccano scelte editoriali inusuali, libri di nicchia intervallati da bicchieri contenenti rimasugli di cocktails. È lì che ho trovato La scuola dei disoccupati di Joachim Zelter, testo balordo e paradossale, pubblicato in Germania nel 2006 e in Italia da Isbn Edizioni nel 2012.

Questo libro va letto come una profezia, una di quelle profezie buone che fanno riflettere, una di quelle profezie che possono servire da monito e insegnamento.
Zelter, professore tedesco che insegna letteratura inglese all’Università di Tubinga e a Yale, racconta il 2016, anno in cui l’Europa conta più di dieci milioni di disoccupati. Un futuro ipotetico che vede la Germania in piena crisi economica, una crisi che viene fronteggiata, grazie all’aiuto dell’Agenzia Federale per il lavoro, con l’istituzione di una vera e propria scuola per disoccupati, chiamata Sphericon, vecchio capannone industriale svuotato di tutte le macchine.
Il libro di Zelter, che si propone come satira attualissima, appare quanto mai illuminante e profetico. La scrittura asciutta e didascalica annulla ogni sentimento dei protagonisti, che sembrano più marionette grigie che esseri umani in carne ossa. La fantascienza è il pretesto per parlare dell’attualità, in forma decisamente onirica e circense ma pur sempre reale.
La scuola dei disoccupati è un luogo in cui vengono condotti uomini e donne con un’età compresa tra i 25 e i 40 anni, individui che hanno perso la speranza, apatici e pallidi, resi inermi dalla mancanza di lavoro e guidati da 150 istruttori belli, abbronzati e con i denti bianchissimi che, a detta di Zelter, li trasformeranno in uomini di successo. 
Insegnano materie come Elaborazione biografica, Modellazione drammatica, Training telefonico o Aspetti astrali della candidatura.
Durante la prima lezione gli allievi sono invitati a “scavarsi la fossa”, nel vero senso della parola, imbracciando vanga e piccone in segno di buon auspicio per la nuova imminente vita. Dentro la fossa potranno lasciare tutte le false speranze e aspettative, i sogni e le illusioni. Ogni fossa è un nuovo inizio, un distacco dal passato.
Ma la preoccupazione principale degli istruttori di Sphericon, termine che fa riferimento all’apertura, intesa come critica verso se stessi e verso gli altri, è quella di insegnare agli allievi a redigere la lettera di presentazione e il curriculum vitae perfetti, ricorrendo all’immaginazione e alla fantasia nell’esercizio dell’elaborazione biografica. 
Colpisce l’ironia dell’autore quando descrive il direttore della scuola, che ai suoi allievi si rivolge così: «un curriculum vitae vincente non è dato da ciò che è stato, ma da ciò che avrebbe potuto essere, per condurre un’esistenza di successo. […] Se qualcuno di voi non ha il diploma di scuola media, allora non può avere la maturità. Altrimenti si infrange la regola di coerenza interna. Se però qualcuno di voi scrive di avere sia il diploma di scuola media che la maturità, anche se non ha né l’uno né l’altro, allora questo è un dato di fatto coerente. Consegue che può stare scritto in un curriculum vitae». 
Dunque gli allievi possono scrivere ciò che vogliono sul curriculum, purché il tutto risulti coerente e ben strutturato. Se si sentono vecchi, possono cambiare l’età, se non gli sta bene il luogo di nascita, che cambino anche quello. E se per caso son nati calvi o con il naso troppo grosso, possono far presto ricorso alle innovazioni in materia di fotografia e ritocco digitale offerte dalla scuola. Niente è impossibile finché tutto è plausibile. 

I curricula sono fittizi, sono solo montature, una forma di letteratura applicata. Da ciò deriva che un romanziere di successo è anche un ottimo scrittore di curricula e viceversa. È stupefacente come certa letteratura risulti sostanzialmente essere una forma di metaletteratura, ovvero è sorprendente che così tanti scrittori facciano ricorso all’espediente della scrittura intesa come salvezza, come unico rimedio previsto per il miglioramento della propria condizione. Solo i romanzieri, i veri letterati talentuosi avranno una speranza di trovare un lavoro perché loro avranno il vantaggio dell’immaginazione, della creatività e dell’estro. Straordinario che inconsciamente Zelter assolva se stesso e si attribuisca il merito di avere un lavoro solo grazie al suo profilo letterario, al suo essere non solo un professore – figura che in ogni modo non andrà mai incontro a nessun tipo di declino (e unica contemplata all’interno di Sphericon) – ma uno scrittore, un individuo almeno capace di inventare altri mondi, possibili o impossibili che siano.

Sphericon è il luogo in cui gli anni di disoccupazione vengono reinventati dagli studenti, in cui gli anni vuoti vengono riempiti di storie fittizie, è il luogo in cui chi si costruisce il passato più avventuroso merita voti più alti. Per colmare gli anni vuoti di Karla, una studentessa trentenne, la classe suggerisce un viaggio in Sudamerica. Per far cosa? Per visitare alcuni parenti. E cosa faceva Karla nel frattempo in Sudamerica? La guida turistica. Sembra interessante, ma sarà compito di Karla studiare non solo la geografia del Sudamerica ma anche lo spagnolo per passare gli esami di fine corso, quando dovrà sottoporsi ad un vero e proprio colloquio simulato che sa tanto di interrogatorio. Il professore, rivolgendosi ancora a Karla, chiederà: «Quale finzione biografica della sua vita la entusiasma di più?»

L’aria che si respira all’interno della scuola è pesante e grottesca. Sphericon può essere abbandonata solo varcando il portone principale che permette l’accesso alla Dusseldorfer Strasse, una strada che non porta a nulla, dove non passano autobus. All’ingresso della scuola campeggia la scritta Work is Freedom che può essere letta anche al contrario, Freedom is work e tutto questo è un chiaro riferimento ai campi di concentramento della Germania nazista.
Gli allievi, così ordinati, disciplinati e disposti a qualsiasi cosa per trovare un lavoro, sono invitati, durante le lezioni di Elaborazione biografica, a spulciare tra i necrologi per scoprire chi sia morto e quale posto lavorativo si sia liberato, sono invitati a contattare la famiglia del deceduto per chiedere il numero di telefono del datore di lavoro di riferimento. 
Leggendo il libro di Zelter, ci si sente come avviluppati nelle braccia di un mondo in cui non c’è scampo. Si è presi da uno sconforto ottimistico per cui disertare e non comportarsi esattamente come gli altri e disobbedire porta dritti alla rovina, in cui la gratificazione coincide con il conformismo bieco, con un guardaroba di grembiuli grigi, grembiuli creati a bella posta quali abiti indicati per svolgere il vero lavoro della generazione europea del nostro secolo: cercare un lavoro. Il vero lavoro quindi è cercare lavoro. 
Il tema in sé è forse un po’ abusato ma l’autore, attraverso una serie di espedienti che raggiungono l’apice del grottesco proprio nel finale improbabile quanto angosciosamente profetico, regala al lettore un sorriso di complicità pagina per pagina, dall’inizio alla fine del libro. Quella raccontata è un’Europa che per fregiarsi del suo nobile nome, ha bisogno di sputare fuori i suoi membri, di riversarli in un altro continente.

Il ricorso al paradosso rende la situazione descritta ancor più attuale. È ciò che succede anche in un’altra opera che, quasi in contemporanea, affronta lo stesso tema in chiave altrettanto paradossale e grottesca: il film Cacciatore di teste di Constantin Costa Gavras (2005), tratto dal libro The Ax (che in italiano significa la mannaia) di Donald Westlake, pubblicato in Italia da Alacran Editore nel 2008.
Bruno Davert, benestante chimico cartaceo, dopo venticinque anni di lavoro nella stessa ditta, viene licenziato. L’opportunità di essere assunto da una compagnia che richiede una figura professionale in linea con le sue competenze, è minacciata da un alto numero di candidati concorrenti. La soluzione scelta dal protagonista è quella di ucciderli tutti, in modo tale da accaparrarsi il posto di lavoro. Per mantenere l’alto tenore di vita ormai consolidato negli anni, il protagonista non può che scegliere la strada più spietata. Le riflessioni sul tema della disoccupazione sono amare e i rimedi al problema irreversibili: «in Europa funziona così, dice un personaggio del film, prendono i migliori e li buttano via. Bisognerebbe rimettere l’uomo al centro di tutto».
Interessante che l’eliminazione dei rivali da parte del protagonista abbia origine non dal sentimento di vendetta quanto dall’istinto di sopravvivenza.
Migliaia di lavoratori vengono licenziati, il profitto delle aziende diminuisce, si abbassa il potere d’acquisto, il popolo dei consumatori via via scompare e gli industriali sono costretti a vendere le proprie aziende ai cinesi, ai giapponesi, agli arabi.


Parlare di profezie non è mai stato tanto facile. Sembra semplice infatti immaginare un sistema in cui i poveri si fanno la guerra e si scavano la fossa da soli, in cui nuove dittature di finissimo acume forgiano “lavoratori alla ricerca di un lavoro”, in cui inedite e pesanti leggi politiche e misure economiche restrittive gettano le basi per una costante e massiccia emigrazione dal proprio paese, in cui le carte colorate di questo fitto mazzo di umani verrà rimescolato fino a non avere più una sua identità.

Articolo pubblicato sul n.11 della rivista Il Palindromo

mercoledì 11 dicembre 2013

Sui Forconi

Verissimo che la crisi economica ci rende tutti più barbari e che i cittadini non ne possono più di vedere la loro città in balia di intimidatori e ricattatori. Ma verissimo anche che la maggior parte degli intimidatori, dei violenti e dei ricattatori son stati mandati a bella posta ( e non è certo la prima volta) nelle piazze per rovinare la protesta non violenta di cittadini esasperati. 
Non tutti i manifestanti sono violenti e non tutti sono rozzi e ignoranti come la maggior parte di noi crede. 
La protesta dei Forconi non è la protesta degli ignoranti, intendiamoci, è la protesta di gente che si è rotta il cazzo. E siccome non è appoggiata da nessun personaggio autorevole, allora diventa la protesta degli ignoranti. Vorrei riproporre l’appello del Centro sociale di Torino Askatasuna. Loro dicono così: “non vi chiediamo di aderire in toto alle modalità o alle parole d'ordine della protesta, ma di starci dentro e provare ad invertirne la rotta. Lasciare questa piazza in mano a fascisti e mafiosi può rivelarsi la mossa più controproducente". E non mi sembra per nulla una considerazione sbagliata.

Pure i poliziotti, l’altro ieri, si sono tolti il casco. Certo, ora tutti su Facebook scrivono che non l’hanno fatto alla Diaz perché avevano le mani impegnate e roba polemica di questo genere, ma queste volta l’hanno fatto. Subito però sono intervenuti i media a spiegare il gesto. Dicono fosse dovuto al fatto che l’ordine era stato ristabilito. Certo. 
Ma secondo voi può lo Stato ammettere che anche alcuni membri delle forze dell’ordine siano solidali alla protesta? Può lo Stato ammettere il fallimento dello Stato? Ovvietà, come di ovvietà è fatta l’informazione del resto. Io del giornalismo me ne sono lavata le mani dopo la specialistica, perché quello che in Italia chiamano giornalismo, eccetto alcuni rari casi vedi Iacona e Gabanelli, per me è roba ridicola.
Ma questo è un altro discorso. Andiamo ai forconi.
Che cosa vogliono questi stronzi? Vogliono più lavoro, ovvio, meno tasse, ovvio, vogliono poter esportare i prodotti anziché importarli e basta, ovvio, vogliono che lo Stato sia con loro, ovvio. Vogliono anche, o almeno una buona parte lo vuole, che l’Italia esca dall’euro. Ecco. 
Perché l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro? Se lasciamo perdere tutte le polemiche contro i grillini di cui sinceramente non m’importa nulla, la loro intuizione non è proprio da ignoranti. 
Perché? Perché l’Italia cerca dal 2002 di rimettersi in pari con gli standard europei, e per farlo ha sacrificato risorse non solo economiche ma soprattutto umane. Da qualsiasi parte la guardi, la situazione attuale presenta uno Stato che non ha i soldi per garantire una ripresa economica (perché se li è mangiati tutti in puttane e mutande verdi) e che l’unico modo per rimettere in moto l’economia, è aumentare i consumi. Quindi l’idea di svalutare la moneta o uscire dall’euro o quello che vi pare, non è secondo me sbagliata. 
L’errore è stato fatto nel 2001, e noi ne piangiamo le conseguenze. 
L’ha spiegato perfettamente il professor di economia politica Alberto Bagnai,  nel suo intervento a Servizio pubblico (http://www.serviziopubblico.it/puntate/2013/11/14/news/euro_dentro_o_fuori.html?cat_id=10). E lo spiega citando Nicholas Caldor, economista che nel 1971 scrisse che una moneta unica europea avrebbe causato uno squilibrio commerciale e della bilancia dei pagamenti a causa di un regime di cambi fissi in assenza di regole sui salari, un fisco centralizzato e riequilibratori automatici. 
Trent’anni prima che l’euro nascesse era perfettamente chiaro perché non avrebbe funzionato. Se dei paesi diversi hanno una moneta unica, quando un paese viene colpito da una recessione si verifica la cosiddetta ‘mobilità dei fattori produttivi’ ovvero la mobilità dei fattori che servono a produrre i beni e cioè le persone, quindi in parole povere l’emigrazione. 
Di queste tematiche, nello specifico, pochissimi sono esperti, ma non ci vuole di certo un genio per capire che le economie di ogni paese sono basate su fattori diversi. La nostra è da sempre un’economia che si basa sull’esportazione. Non abbiamo, è vero, grandissime industrie. Ma abbiamo tante medie e piccole industrie che negli anni, e nella storia del paese, ci hanno garantito di essere annoverate tra i paesi più ricchi del mondo.
Se l’Italia ha venduto tutte le sue migliori aziende agli stranieri, se gli agricoltori siciliani sono costretti a buttar via quello che la nostra terra ci ha sempre offerto perché i prezzi degli altri paesi sono più competitivi, se i prodotti che troviamo nei supermercati oggi non sono quasi mai italiani anche se sopra vi si legge ‘made in Italy’, se gli autotrasportatori non riescono a campare per i prezzi della benzina, se le aziende non assumono, se la disoccupazione giovanile è al 41,2%, come vi permettete di dire che questa protesta è sbagliata o fascista o cosa? Ma quelli sono gli ultrà del Torino e della Juve, quelli sono i porci di Casa Pound! Questo è quello che dicono i tg! 
Mi sembra ovvio che il mal governo abbia generato una popolazione di gente impotente.
Questa protesta, prima di tutto, per tutti noi, è una forma di degrado mentale, un’ovvia evoluzione scaturita da anni di incertezze, impotenza e scelte politiche ridicole. Il nostro paese non è mai stato democratico, sfortunatamente.

Quindi allontaniamo gli ultrà del Torino e della Juve e sentiamo cosa ha da dire la gente. La democrazia è anche questo.



giovedì 5 dicembre 2013

Torino non è una città di passaggio

Volevo chiedervi di restare qui, almeno qui. Le vite che creo, le vite reali con lo sfondo del sole, quello vero, delle nuvole e i marciapiedi, le vite vere fatte di sguardi, strette di mano abbracci e bicchieri di vino, quelle vite mai virtuali che ho cercato di alimentare giorno per giorno in bici o in autobus, in metro o a piedi, quelle vite mi servono. 
Volevo chiedervi di restare, almeno qui. Di non partire perché no, vi siete sbagliati, Torino non è una città di passaggio. Invece ve ne andate anche da qui e ritornate a casa, o andate via dall’Italia e così cambia la geografia sentimentale che abbiamo costruito negli anni, fatica sprecata, gli abbracci che ci servono mediati da uno schermo, il mondo vero ma mediato sempre, e i miei amici diventano foto di profili Facebook e icone di roba varia e diventano irreali, sempre più irreali, lontani, difficili da raggiungere con lo sguardo ed è difficile trovare mani screpolate dal freddo o occhi lucidi per l’influenza. Torino non è una città di passaggio.

Foto di Valeria Taccone

Non emigrate più, scegliete un posto e fermatevi lì, lasciate che la gente si affezioni, trovatevi un bar preferito, un indiano sotto casa, un cinese per le stoviglie, andate a Porta Palazzo a fare la spesa, prendete nota degli spettacoli gratuiti che offre questa città, ma restate. Almeno qui. 

Invece partite tutti militari e le vite vere si sfaldano. Rivivono solo due tre volte all’anno, di ricordi vecchi duemila anni.

Foto di Valeria Taccone

http://www.thefacesoffacebook.com/

venerdì 15 novembre 2013

IPOCONDRIA, ATTACCHI DI PANICO E ALTRI PIANI PER ELIMINARCI TUTTI

Al ritmo di Celentano e Lou Reed i nostri genitori ondeggiavano felici.
Quando ero piccola i cartoni animati erano camomilla serale; oggi nemmeno lo Xanax fa più effetto. Si chiamano tempi moderni. 
Proverò quei sonniferi che prende la vicina.
Mi lavo le mani continuamente, sto attenta a dove mi siedo, faccio attenzione a quello che mangio, non vado mai a pranzo o a cena fuori. 
Ogni volta che salgo in macchina ho la sensazione che andrò incontro ad una morte violenta tra le lamiere, che qualcuno mi verrà addosso, o magari scoppierà la ruota che so, oppure un ragazzino mi lancerà un sasso dal cavalcavia. Ipocondria a duecento chilometri orari.

Spengo la sigaretta, quante cicche nel posacenere, lo svuoto nel cestino, in cucina. Vado verso la mia stanza, adesso vado a letto, no, aspetta, e se il cestino prende fuoco? Meglio andare a controllare, per una sigaretta spenta male potrei far scoppiare un incendio, vado, sollevo il coperchio del cestino, niente; aspetto ancora, non si sa mai. Sto lì per cinque minuti a fissare il cestino, convinta che non posso andarmene perché lo so, lo so che se non guardo bene rischio di incendiare la casa.

Un tempo non avevo paura di bere dai bicchieri di vetro del bar, e nemmeno nelle tazzine del caffè; adesso bevo il caffè dai bicchierini di plastica.
L’aereo non lo prendo più, ho paura, e nemmeno il treno, almeno per lunghe tratte, almeno di notte,  perché salgono certi tipi che mi prende il panico; rubano un sacco di cose, lasciano valigie sospette ed ho paura della velocità.
Cos’altro? La metro mi preoccupa, ho paura di attentati terroristici, stupri o scippi, o cose simili. Ah, soffro pure di claustrofobia e non vado nel posti troppo affollati, troppo piccoli o senza finestre. E nemmeno in quelli troppo affollati perché la gente mi infastidisce, mi terrorizza. Sembrano mostri.

Quando i miei genitori escono da casa, ho sempre paura di non rivederli più, e lo stesso vale per mio fratello, quindi li chiamo continuamente e loro non lo sopportano.
Quando piove evito di uscire da casa e se poi c'è un temporale fortunatamente mi arriva in anticipo un messaggio del meteo sul cellulare che mi intima di non aprire porte e finestre: 'attenzione, da venerdì allerta in tutta Italia per il ciclone Venere, previsti forti temporali e trombe d'aria'.

Ho perfino svuotato la mia libreria per far spazio ai farmaci. Al posto del giovane Holden e di Gregor Samsa, adesso c'è una scorta rassicurante di Oscillococcinum, estratti di fegato d'anatra, Papaya, Echinacea, uva ursina e Valium, poi ancora Tachipirina, Froben, Amoxicillina e l'apparecchio per l'aerosol. 
La mia dottoressa dice che è normale, dice che siamo in pieno declino e che dobbiamo morire per far posto ad una generazione migliore della nostra. Dice che la paura di tutto, indotta da un'entità di cui non si conosce il nome, fa parte di un grande piano per eliminarci tutti perché soltanto così il mondo potrà migliorare.
Parole sante.

Zerocalcare, 'Ipocondria'

lunedì 11 novembre 2013

Il mio cognome è del nord

Al supermercato, davanti alla mia cassiera di fiducia, l’unico modo per non sentire un pugno allo stomaco quando mi spara a voce il totale, è quello di pensare che la cifra da pagare sarà molto più alta, almeno il doppio di ciò che spenderò realmente. Solo così riesco a non farmi venire un coccolone, solo prendendomi per il culo, lasciandomi credere che sì, anche oggi sono stata brava a risparmiare. La guardo la spesa e penso “saranno almeno 20 euro”. Invece la cassiera mi sorride e mi dice “fanno 10 euro e venticinque”. Che culo, penso. 
Arrivata a casa apro la busta per svuotarla: 3 birre, 2 kinder cereali (perché dice che fanno passare il mal di testa), una scatola di kinder cioccolato da 4, due finocchi e una confezione di patatine. Bella spesa del cazzo, penso.
Ma oggi dovevo consolarmi, era il mio primo ‘vero’ giorno di lavoro. Sono arrivata in ufficio alle 7.45, in perfetto orario. Ho legato la bici davanti all’ufficio e sono entrata dicendo: “buongiorno, oggi è il mio primo giorno di lavoro”. 
Presentazioni di rito, tutti vecchi, un po’ pelati, un po’ stanchi, con rughe disegnate qua e là, tutti sorridenti di un sorriso un po’ spento, come bambole di porcellana gentili e gradevoli ma anche un po’ inespressive. Ecco i miei colleghi di porcellana, con voi condividerò la neve, la pioggia, il freddo, i discorsi sul tempo, qui a Torino si gela, meglio da te a Palermo, chissà quanti gradi ci saranno, questa camicia l’ho pagata 70 euro e poi al mercato l’ho rivista uguale a 15, che hai oggi per pranzo, sai sono a dieta, la dieta sta funzionando, si vede che stai meglio, ma parti?, dove vai quest’anno?, hai sentito il telegiornale, questi immigrati se ne devono andare, i mezzi a Torino non funzionano, senti qua non dire scemenze perché io vengo dal sud, sai questo mese ho troppe spese, sono arrivate le bollette, è aumentato il gas, devo accompagnare mio figlio alla partita di calcetto eccetera eccetera eccetera. 
Con gli anni ci farò l’abitudine ma la mia espressione quando mi trovo nel bel bezzo di queste conversazioni tritatutto è quella di una persona estremamente diffidente. Mi trovo a dialogare con degli sconosciuti, che tra qualche tempo diventeranno figure abituali come i personaggi disegnati sui quadri di casa mia, di cose assolutamente futili. 
Da piccola mi ero riproposta di non sprecare la mia voce in discorsi troppo futili.  Di circostanza magari sì, o almeno ho imparato col tempo, ma futili e banali no. O almeno questo era quello che pensavo quando avevo costruito la mia idea di vita e il mio carattere ideale in un mondo che apparteneva solo a me, una sorta di codice etico da rispettare per volermi bene, per garantirmi un’autostima solida. Era quando avevo deciso che la mia vita sarebbe stata importante. 
In realtà, tutto quello che mi è capitato dalla fine dell’università ha soltanto smontato questo mio postulato.
La vita è fatta così, una grande palla di discorsi mediocri che ti permettono di essere ‘normale’, una grande sfilata in cui nessuno sembra o deve dar l’impressione di brillare per  astuzia. 
Tutto questo all’inizio mi offendeva, adesso non più. Possibile che io stia vivendo solo adesso il passaggio dall’adolescenza alla maturità? Sì, forse è possibile per via di una serie di questioni che bla bla bla si conoscono bene, crisi, precariato e quant’altro. 

Lavoro con i soldi, conto i soldi e li do alla gente. Conto i soldi e li incasso. Ho tutti i giorni dei soldi in mano insomma, ma non sono miei. Sono dell’azienda, o dei clienti. Ho anche uno stipendio però, e questo mi fa sentire fortunata, felice.
Mi occupo di amministrazione, di servizio al pubblico e cose così.

Per me i soldi hanno un colore preciso, sono color bordeaux lucido. Quando ero piccola, mi ricordo un’enorme parete attrezzata con una cassettiera dove i miei tenevano tutte le pratiche, i conti, le multe, i documenti di ogni tipo, divisi per carpette e riconoscibili dalle etichette bianche. 
È stata sempre mia mamma ad occuparsi di quella cassettiera, a pulirla, a selezionare i documenti, a rovistare tra la polvere delle cose passate, pagelle, lettere, multe, passaporti, libretti di assegni. Subito sotto c’era il cassetto deputato alle fotografie, il mio preferito.
Per me i soldi erano una cosa lontana, una cosa di cui ho sempre sperato di non dovermi occupare, una cosa che mia madre gestiva bene e che non mi competeva affatto. Tutte quelle pratiche, riordinate con la cura di un bibliotecario, mi hanno sempre fatto paura, mi hanno sempre fatto credere che sarei rimasta lontana da quella vita cartacea fatta solo di numeri. L’ho sempre saputo, come una certezza che ti permette di scegliere l’esatto opposto di ciò che non tolleri. 
Ingenuamente, ho sempre sperato di delegare qualcun altro per svolgere questi compiti, ho sempre pensato, fin da piccola, che qualcuno si sarebbe preso la briga di farlo per me. E invece, vuoi per un fatto genetico, vuoi per il destino, vuoi per contrappasso, adesso io svolgo questo lavoro non solo per me, ma per tutti i cittadini di Torino e in potenza, per tutti gli italiani. 
Le persone delegano me e si sentono immediatamente sollevate, assolte da ogni obbligo, sono io che rispondo delle loro tasse, sono io che ci faccio attenzione, sono io che prendo in gestione le loro vite per dieci minuti e gli permetto di fregarsene dei loro doveri. Esattamente quello che pensavo avrei fatto io per il resto della mia vita, una vita burocratica e amministrativa diretta da altri, da una fantomatica signora dei soldi, infallibile.

La vita quindi ha preso una piega strana e soltanto da qualche giorno ho cominciato a pensare al mio futuro. 
Ho cercato di rovistare tra i cavi di queste vicende, di trovare una risposta a ciò che mi stava succedendo.
Mentre bevevo un caffè al bar vicino l’ufficio, una risposta, seppur non del tutto esaustiva, è arrivata davvero. Ho preso in mano un giornale e ho letto di un tipo che aveva il mio stesso cognome. Allora mi sono ricordata che al corso di web design finanziato dalla Regione Piemonte il mio insegnante mi aveva chiesto: ‘ma sei partente di Ardito?’. 
Quella mattina, dopo il caffè, appena entrata in ufficio, dopo le presentazioni, due dei miei colleghi mi avevano chiesto, di nuovo: ‘ma sei parente di Ardito?’. No, direi di no. 

Appena tornata a casa ho cercato su Google ‘diffusione del cognome Ardito’ e ho scoperto che a Torino ci sono 60 famiglie Ardito, a Palermo solo 9. 
A quanto pare c’è anche un Ardito direttore di un ufficio come quello in cui lavoro io. 
Un motivo quindi doveva pur esserci. Non è un caso che io sia finita qui, tra piste ciclabili e strade ghiacciate, tra regole ferree e conti pubblici, tra le maglie di quella che Bianciardi chiamava ‘vita agra’. 


Sono tornata in patria, ho pensato. È qui che vivono gli Ardito. Dirò ai miei di trasferirsi  qui perché evidentemente hanno più parenti qui che in tutta la Sicilia.
Forse è qui che gli Ardito finiscono per una legge divina, ignari fin dalla nascita che nella loro vita avranno come vanto la Mole piuttosto che il Palazzo dei Normanni. 
Eppure non riesco a perdonarmi di non essere rimasta lì, tra le palme e il traffico. Nonostante nella mia terra mi sia sempre sentita un’estranea, una pedina di passaggio, resta il rimpianto di non essere rimasta.
L’illuminazione derivante dal cognome - che ha assunto un significato tutto particolare da quando ho visto Lost - poteva essere una perfetta spiegazione di ciò che mi sta capitando, ritrovare i propri parenti, i propri simili, il proprio cognome in una città del nord, una città di fabbriche e rigore, una città quasi senza errori. Però ogni tanto questa certezza forzata, si smonta  in un istante. Forse il destino forse non c’entra nulla, è solo che i siciliani se ne vanno, se ne sono andati in passato e se ne andranno sempre dalla loro terra finché le cose non miglioreranno. Per questo motivo si trovano sempre pezzi di Sicilia qui al nord, per questo  motivo quando attraverso via Garibaldi non mi stupisco se sento parlare il mio dialetto, se vedo vecchietti che gesticolano come me, che parlano a voce alta come me.

Forse perché in Sicilia, l’unico modo per non rischiare di fallire sembra quello di scegliere di andarsene via.


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