martedì 8 giugno 2010

Come un uomo sulla terra

Stamattina mi sono svegliata presto per andare a lezione. L’ultima lezione, credo, della mia carriera universitaria.
Questa lezione ha avuto un significato molto particolare. C’era un ospite in aula. Un ospite importante, invitato dal professore di Giornalismo d’inchiesta Pietro Veronese (“La Repubblica”).

In aula c’era Dagmawi Yimer, un ragazzo etiope sbarcato in Italia dopo un lungo viaggio.
Dagmawi studiava giurisprudenza ad Addis Abeba ed è fuggito in Italia per via della difficile situazione nel suo paese d’origine.

Negli anni ’80 e ’90 in Etiopia c’era la dittatura dei ‘militari rossi’ di Menghistu Haile Mariam, poi sostituita da un governo neoliberale.
Oggi il potere autarchico e repressivo del governo di Melles Zenawi spegne ogni speranza di rinnovamento civile in Etiopia. Attualmente quasi tutti i leader dell'opposizione sono incarcerati o dispersi.
Questa premessa serve a comprendere le ragioni della partenza di Dagmawi.
Lui, che non ha potuto salutare i suoi genitori perché non gli avrebbero permesso di andarsene. Lui che ha attraversato il deserto a bordo di un pick up in condizioni di degrado estremo, stipato insieme a decine e decine di persone. Lui che, arrivato in Italia, ha incontrato Frattini ad una conferenza sui rapporti tra Italia e Libia e non gli ha nemmeno sputato in faccia. Lui che è stato venduto alla polizia libica per trenta denari. Lui che ha avuto il coraggio di raccontare.

Parlava piano, lentamente e a bassa voce. Era dolce, ascoltava le domande e rispondeva, parlava bene l’italiano, aveva gli occhi lucidi e un garbo da far invidia.
In pochi forse sanno (dato che la notizia è stata non dico occultata ma trattata come minore) che nell’agosto 2008 Berlusconi e Gheddafi hanno firmato un “trattato di amicizia, partenariato e cooperazione”.
Nell’ottobre del 2007 ENI e NOC, la società petrolifera dello stato libico, hanno siglato un accordo per lo sviluppo della produzione del gas in Libia per ventotto miliardi di dollari in dieci anni.
Già nel dicembre del 2007 un Protocollo di collaborazione tra il nostro paese e la Libia era stato sottoscritto dall’allora Ministro dell’Interno Giuliano Amato. La prassi illegittima del rinvio forzato è stata legalizzata.
Berlusconi, pur di togliersi dal cazzo questi immigrati, decide di spedire oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto (e non è uno scherzo), insieme ai soldi necessari per pagare i voli di rimpatrio e tre campi di detenzione (veri e propri centri di tortura).

La polizia libica è forse la peggiore di tutto il pianeta.
Mentre il Presidente firma gli accordi per il gas con Gheddafi, migliaia di africani vengono torturati nei campi di detenzione costruiti con i nostri soldi. Picchiano la gente etiope solo perché non è araba. Stuprano le loro mogli, li mettono in una stanza, ammassati come le bestie. Loro non possono nemmeno dormire per quanto stanno stretti. Fanno i turni.
Le peggiori torture le subiscono nel Centro di detenzione di Kufra.
Ricordatevelo. Kufra.
Non solo lo stato libico ricorre ancora alla pena di morte, ma è ancora molto diffusa la pratica della tortura, soprattutto nelle carceri (incatenamento a un muro per ore, percosse con bastoni di legno, scariche elettriche, succo di limone nelle ferite aperte, avvitamento di cavatappi alla schiena, fratture delle dita, soffocamento provocato con buste di plastica, privazione del sonno, di cibo e acqua).

Cioè, mentre Berlusconi si fa i lifting e le sue porcate a Villa Certosa, mentre la Gelmini riduce i programmi, le ore di lezione e fa discriminazione tra bambini italiani e stranieri, mentre Alfano vuol far passare il lodo più anticostituzionale della storia, mentre si inneggia Mussolini, mentre la libertà di stampa è abolita e le intercettazioni diventano motivo di multe salatissime per giornalisti ed editori, mentre la crisi flagella statali e non, mentre migliaia di giovani pagano un affitto di cinquecento euro al mese per una singola nella capitale, mentre si studia per niente, mentre le province vengono ridotte e per le donne l’età pensionabile viene fissata vent’anni dopo la menopausa, nel frattempo, alla Sapienza, alle otto e mezza del mattino, devo pure commuovermi insieme a Dagmawi perché è stato picchiato, derubato e umiliato, detenuto nei centri africani fatti costruire con i nostri soldi!

Ecco. Ecco cosa siamo.

Lui non reagisce, a me viene solo da piangere. E lo guardo, e mi sembra forte; anzi fortissimo.

Sorride quando un italiano lo guarda. Non ha pregiudizi nei nostri confronti. Va in giro per le scuole e le università. E io mi vergogno del mio paese, e non riesco a dire nulla. Rimango muta, con lo sguardo incredulo.
Lui sorride e dice che proprio oggi ha saputo che un poliziotto libico ha violentato una ragazza di ventidue anni. Lui la conosce. Oggi è un po’ triste per questo.
«Io non posso fare niente», dice. E poi dice: «non è Berlusconi, non è solo lui il problema. La sinistra ci ha trattati allo stesso modo. La destra e la sinistra sono uguali». Lui lo sa questo.

Lui lo sa. E non guarda la nostra tv, non legge i nostri giornali. Eppure lo sa. Lui l’ha provato sulla sua pelle.





Dagmawi ha realizzato il documentario
COME UN UOMO SULLA TERRA

Prefazione di Ascanio Celestini. Con il patrocinio di Amnesty International.
il film di Andrea Segre, Riccardo Biadene e Dagmawi Yimer, con un libro dell’Archivio delle Memorie Migranti a cura di Marco Carsetti e Alessandro Triulzi

Autori: Riccardo Biadene, Marco Carsetti, Andrea Segre, Alessandro Triulzi, Dagmawi Yimer



http://comeunuomosullaterra.blogspot.com/

domenica 6 giugno 2010

Scappare in Puglia

In fondo è il tema del momento, quindi parliamone ancora, ancora e ancora.
Ho trovato un articolo molto interessante sul blog di Maksim Cristan, scrittore croato (vedi "Internazionale", rubrica Italieni).

Mi permetto di pubblicare per intero il suo articolo pubblicato su "L'Unità" di maggio.

Le mie considerazioni sono un po' provocatorie. Ma solo un po'.

Andiamocene tutti in Puglia; lì c'è il mare, ci sono i campi, c'è il lavoro e c'è Nichi. Lui (Cristan) è ironico. Ma forse non dovrebbe. Il punto è: forse lavorare la terra, toccarla, stare a contatto con poche persone, senza beni superflui, tutti sotto lo stesso sole, a torso nudo, gli occhi che bruciano, i piedi doloranti, il sudore e sguardi diretti, non divisi da uno schermo, forse sì perchè no, ci farebbe bene. Non ci serve questo lavoro in banca, non ci serve questa ricchezza. Teneteveli voi questi fottutissimi soldi, a me servono acqua, pane, letto, il mare, la terra e soprattutto le persone, da guardare negli occhi e sentire al tatto.





Precario e migrante: «Sapete che vi dico? Io scappo in Puglia»
di Cristan Maksim


Caro Presidente della Repubblica sono una cittadina di questo paese, mi chiamo Igiaba Scego, classe ‘74 e volevo informarla che mi sto arrendendo. Tempo fa Lei ha rincuorato i precari, i disoccupati, i ricercatori senza affiliazione a non gettare la spugna. Ci ha detto «Coraggio non vi arrendete. Non uscite dall’Italia». Purtroppo Signor Presidente io mi sto arrendendo. Faccio parte, e non è una vuota statistica, di una generazione a cui sono state tarpate le ali. Sono una precaria della cultura. Sto diventando una precaria della vita». Il 30 aprile su "l’Unità" la scrittrice Igiaba Scego ha scritto una lettera a Napolitano. Il presidente l’ha ricevuta pochi giorni dopo al Quirinale. Ne è seguito un lungo e appassionante dibattito. Quella che segue è il messaggio che lo scrittore croato Maksim Cristan ha inviato a Igiaba.

Tutti noi intellettuali precari, immigrati e non, abbiamo letto con molta attenzione la lettera aperta della nostra collega Igiaba Scego al Presidente Napolitano, dove gli chiede aiuto per tutti. Il presidente è buono e ha invitato Igiaba ad incontrarlo. Lei gli ha detto: Faccia il garante per noi affinché questo tema (che poi sono due: 1. Immigrazione e 2. fuga dei cervelli) non esca dall’agenda politica.

Personalmente ho conosciuto molti esuli culturali a Berlino, arrivati lì perché dopo aver perso la fiducia nel futuro in Italia. Ho conosciuto anche alcuni giovani bresciani, che quando nella loro città il sindaco offriva 500 euro per ogni immigrato regolare che decideva di tornare nel suo paese, dissero: magari dessero anche noi 500 euro per andarcene. Igiaba, mi chiedo come diavolo ti è venuto in mente di importunare il Presidente.

Se volevi davvero risolvere qualcosa, avresti dovuto scrivere, appunto, al Presidente del Governo. Hai già dimenticato come Egli accolse a braccia aperte la richiesta di quella ragazza, che quando lamentò la propria precarietà, il Premier le disse: «Signorina, lei è carina, sposi uno dei miei figli e ha risolto tutti i problemi». E tu, Igi, sei certamente ancor più carina di quella ragazza.
Ah già, dimenticavo che, tu, anche se italiana, sei nera come il carbone e visto che il premier non vuole un’Italia multietnica, probabilmente non ti vorrebbe a tavola in famiglia e magari finirebbe per proporti a uno dei figli del suo amico colonnello Ghedaffi.

È un casino Igi, lo ammetto, e anche se io ti voglio tanto bene, non posso nemmeno dirti sposa me! Dato che sono messo peggio di te. Che fare? Se il signor Vitor fosse ancora vivo, conoscendolo, probabilmente ci direbbe: «Ma andatevene tutti fuori dai coglioni in Puglia a pretendere una vita dignitosa per i vostri scarabocchi e i vostri volontarismi per le razze inferiori! Che lì il governatore comunista costruisce gli alberghi gratuiti pure per gli immigrati braccianti!»
Però, ridendo scherzando, potrebbe essere un’idea per noi Igi. E anche se la politica di Nichi al resto d’Italia sembra Marte, per ora sempre l’Italia è. Che fai, vieni anche tu?

26 maggio 2010

Il ciclo è sempre una buona scusa

Il display dentro la macchina segnava addirittura 25 gradi. C’era caldo, un caldo umido appiccicoso fastidioso.
Ho visto un film crudele stasera e mi sono commossa.
Il film è La nostra vita.
Senti il bisogno di maternità dopo aver visto questo film. Quei bambini. 
Devo andarmene, devo sparire. Voi con i vostri impegni e i vostri appuntamenti. Dove dovete andare? Fermatevi. La strada è quella lì, la più tortuosa.
Svegliatevi, quest’accidia scrollatevela di dosso, questa noia, queste mostre, queste visite guidate, questo desiderio di spostarvi sempre, in continuazione, di vedere il mondo per forza, per intero, a tutti i costi! Statevi fermi, pensateci un attimo.
Prima di guardare troppo lontano, -che l’insicurezza vi protegga!, volgete lo sguardo proprio sotto gli occhi, comprendete questi occhi che supplicano, un sorriso, un abbraccio, una carezza, un amore, state fermi, non andate così lontano, non c’è mica dove andare! Adesso non avete proprio dove andare.
Non si passa, i debiti non si saldano, disoccupati perenni, volti vuoti e inespressivi, state lì. Questi figli li dovete volere. Questi figli che prima erano una festa e ora sono un lutto. Sono gioia, miracolo. Proteggeteli con i vostri sorrisi, rincorrete l’impossibile, andate controvento finché potete, fatelo per voi stessi, scegliete i loro occhi e proteggeteli. Portateli a mare, non girovagate a vuoto, scegliete qualcuno, state sereni, vogliatevi bene.
Davvero non li volete questi figli? Davvero? Io li vorrei almeno sentire tra le braccia, vorrei dare un senso a tutto questo. Allora forse potrei andarmene da qui. Partire, lontano.

Il carillon suona ogni tanto. Quando meno me lo aspetto inizia a suonare, e io salto in aria.

E tu ascolti la tua musica, e pensi. Ti fai la doccia, e pensi. Metti su la caffettiera, pensi. Indossi i jeans con le toppe a farfalla, pensi. Esci da casa, pensi. Alla fermata della metro, pensi. A lavoro, sguardo perso, pensi. Parli con quei due, quelli nuovi. Ridi con loro, pensi. Mangi e ricordi.

Io ricordo.
Mangi cibo di merda ora, non ti va tanto di cucinare. Ma che mangi? Nemmeno a me va di cucinare. Tu cosa mangi? Vorrei saperlo. Ti piace ancora il gelato al cioccolato bianco? Che fai? Pensi. Sguardo opaco, pensi.
Io lo so a cosa pensi. Anch’io.

Amore mio, questa è la generazione dell’OKI, quella che si droga di Novalgina e Aulin. Nessuno può farci niente.
Tutti perduti nel dramma delle medicine, dell’Amuchina, della disoccupazione.
Ma tu non preoccuparti, andrà tutto bene.

mercoledì 2 giugno 2010

«E cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?»

«Le promesse di impegno non hanno senso nel lungo periodo [...]. Come ogni altro tipo di investimento, hanno alti e bassi. E così, se desiderate instaurare relazioni, mantenete le dovute distanze; se volete che il vostro stare insieme sia appagante, non offrite o chiedete impegno. Lasciate sempre tutte le porte aperte.
I residenti di Leonia, una delle Città invisibili di Calvino, direbbero, se interrogati al riguardo, che la loro passione è ‘il godere delle cose nuove e diverse’. Infatti, ogni mattina la popolazione ‘indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dell’ultimo modello di apparecchio’. Ma ogni mattina ‘i resti della Leonia di ieri aspettano il carro della spazzaturaio’, tanto che vien da chiedersi se la vera passione dei leoniani non sia invece ‘l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità’».

Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, 2004.


La facilità e la comodità del disimpegno, penso.
Ogni volta che leggo Bauman mi viene voglia di piangere. Questo sociologo ha ottantacinque anni e un sacco di cose da insegnare.
Parla della rete e di come questa abbia trasformato i rapporti interpersonali. Ma questa è una storia vecchia e ormai esistono intere biblioteche su questo tema. Si sa che il termine ‘rete’ indica un contesto nel quale è facile entrare e facile uscire. E citando Vasco Brondi mi viene in mente una frase che dice «con me non devi essere niente». Non ti chiedo nulla, e tu, per favore, fai lo stesso.
Oltre alle ‘relazioni virtuali’, sempre più diffuse e inquietanti, c’è un altro aspetto che ha modificato enormemente i rapporti tra gli esseri umani. Si chiama precariato.
L’incertezza esistenziale ci ha resi oltre che umanamente deboli, incapaci di prendere decisioni in cui si includa l’altro. Direbbe Bauman che ci siamo «individualizzati» e dunque ognuno pensa per sé. Vogliamo tanta gente attorno, vogliamo tanti amici, tanti, troppi forse. Cento, duecento.

I rapporti sociali sembrano funzionare meglio da quando esiste Facebook. 180 milioni di individui che hanno consegnato le proprie esistenze ad un social network, che magari è solo una trovata per fotterci tutti, ridurci a cavie e studiare i nostri profili. Un enorme esperimento di marketing di cui non ci accorgiamo nemmeno.
Continuiamo ad esporci, esibirci, tutti in una grande vetrina per poi tirarci indietro e sentire l’angoscia del contatto vero, quello con persone che incontriamo corpo a corpo.
La crisi, il precariato hanno reso l’uomo incapace di intessere rapporti veri, stabili e durevoli.
Non trovo lavoro, sono laureato, giovane, mando curricula dappertutto e non trovo nulla. Nulla. Quindi forse dovrò andarmene e per andarmene devo abbandonare questa fottutissima città in cui sono nato, i miei genitori, i miei amici, la mia ragazza e questo mare. No, non ci penso nemmeno a legarmi alle persone.
Sono stato male sai, male. La mia ex mi ha lasciato e ho sofferto per anni. Da allora non mi sono più legato a nessuno. E non so dove andrò, di certo non rimarrò qui a vita, quindi perché legarsi? Nel frattempo vedo un sacco di gente, ma quando conosco una ragazza che mi piace evito di affezionarmi perché non si sa mai.

Lo squallore dei rapporti d’amore nell’epoca post-moderna. Il vuoto.

Poi mi viene in mente ancora lui, Vasco Brondi. Lui sintetizza il tutto così:
«E cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?»

sabato 29 maggio 2010

Leggendo le pagine dell’ “Internazionale”

In copertina il titolo “Google salverà i giornali” suonava quasi come un paradosso.
Ho letto l’intero articolo di James Fallows e mi sono resa conto, solo dalle ultimissime righe che questo giornalista statunitense aveva ragione. L’idea che i giornali debbano sopravvivere è fondamentale.
Vittorio Sabadin (vicedirettore della “Stampa” di Torino) ha scritto nel suo saggio (L' ultima copia del «New York Times». Il futuro dei giornali di carta, Donzelli, 2007) che l’ultima copia del “New York Times” sarà stampata nel 2043. Una profezia che secondo molti potrebbe avverarsi ancor prima di questa data.
Insomma, in molti concordano sul futuro breve della carta stampata.
Ma poi leggo l’articolo e mi sento subito rassicurata da questo giornalista americano che su “The Atlantic” scrive che Google aiuterà i giornali a non sparire dalla circolazione. Perché? Semplice.
Google è utile perché la gente lo utilizza come motore di ricerca per trovare informazioni utili. Se non vi fossero informazioni utili, interessanti, precise e aggiornate nessuno lo utilizzerebbe più.
Il motore di ricerca più famoso al mondo è soprattutto attendibile, credibile per le informazioni che mette a disposizione. Nikesh Arora (sovrintendente a tutte le attività di monetizzazione e di gestione dei clienti, nonché al marketing e alle partnership per Google) parla di un rapporto simbiotico profondo tra Google e le fonti di informazione autorevoli. I contenuti sono offerti ma non prodotti da Google. Se i contenuti sono buoni, la gente continuerà a cercarli. Se non lo sono anche Google perderà il suo primato. Per questo il giornalismo sopravviverà.
Serve qualcuno che crei l’informazione. Per questo il giornalismo in generale, le testate cartacee e on line in particolare, continueranno ad esistere.
Google finanzierà i giornali in difficoltà, e questa mi sembra una buona cosa.
Nel nostro paese c’è uno scoglio in più da superare. Eric Schmidt(Presidente del Consiglio di Amministrazione di Google) ha ricordato come la sopravvivenza del giornalismo di qualità sia essenziale per il funzionamento della democrazia moderna. La democrazia esiste nell’informazione americana, ma non in quella italiana (ricordiamo che la Mondadori possiede il 29% del mercato librario e il 38% di quello dei periodici, tanto per dirne una).
Il nostro, dunque, è un caso a parte. Come sempre.

Archivio blog