mercoledì 17 settembre 2025

Nonna Nunzia e nonno Gaspare

Mi ricordo il nonno Gaspare che guardava “I fatti vostri” alla  tv e sorrideva quando parlava Magalli, quasi fosse fiero di lui, emozionato nel vederlo in televisione, nemmeno fosse una sua scoperta mediatica.

Ogni volta che tornava dal mercato, carico di buste, mi portava sempre un Kinder Cereali.

La nonna Nunzia, quando dormivo a casa sua, mi preparava per colazione la cioccolata calda. La sera, per non sporcare un bicchiere, prima di andare a letto mi dava l’acqua dal mestolo. Cucinava molto bene gli involtini di vitello col salame, il pangrattato, passolini, pinoli e un pizzico di burro, i carciofi fritti, i gamberetti marinati con olio e limone e i ditaloni al sugo. La frutta se la faceva sempre sbucciare dal nonno, era il suo modo per farsi viziare.

 Amava le bambole di porcellana e le pettinava come fossero bambine. Diceva sempre che da piccola aveva ricevuto in regalo un bambolotto ed era stato il regalo più bello e più desiderato della sua vita. Suo padre e suo fratello Silvestro erano morti in guerra e lei conservava le loro fotografie nella stanza del cucito. Aveva una macchina da cucire Singer, bellissima e la vedevi con il piedino veloce e quelle dita affusolate e lisce gestire la stoffa con una maestria incantevole e guardarla dall’esterno era uno spettacolo, sembrava fosse seduta su una giostra o che stesse partecipando ad un rituale sacro con tutto il corpo.

Negli ultimi anni, durante la malattia, cercava sempre di afferrare qualcosa dai vestiti, come dei fili di cotone oppure provava a girare i lembi della stoffa come volesse cucirne l’orlo. Doveva sentire la mancanza di quel balletto meccanico che era per lei il cucito e ripeteva quei gesti muti come fossero radicati da sempre nella sua persona.

Aveva un modo tutto suo di viziare me e Daniele, i suoi unici nipoti. Emanava una dolcezza e una serenità contagiose e per intere fasi della mia infanzia e preadolescenza l’ho reputata una delle mie migliori amiche. A lei potevo dire se avevo saltato la scuola, era sempre comprensiva e mi trattava come fossi una sua pari. Ecco, la cosa che ricordo vivida più di tutte era la nostra complicità, che si realizzava in abitudini consolidate, coccole e fiducia reciproca. La nonna mi manca tantissimo, la nonna mi ha insegnato a scrivere e a leggere, mettendomi sotto mano riviste e album da disegno, faceva sembrare la vita un gioco, in cui si poteva guardare “Lupin” e “Il mio nome è Jam” la domenica mattina, in cui la nonna fa quello che deve fare una nonna, viziare la propria nipote.

Aveva un cassetto pieno di foto e mi piaceva guardarle sempre, anche se le conoscevo a memoria, aveva tantissimi bottoni, gessetti per il cucito e stoffe di vario tipo. Conoscevo il contenuto di tutti i cassetti e dei mobili della casa, avrei potuto indovinarne l’odore e i colori.

Gli anni delle coccole sono stati quelli passati con la nonna Nunzia, che metteva il rossetto la domenica mattina per andare a messa al duomo di Monreale, con me e il nonno, in autobus. Aveva una cugina che si chiamava Rosa e che sorrideva sempre con gli occhi piccoli e appannati, era magra più di lei, minuscola. Aveva una cugina americana con degli occhiali semiscuri e il capello corto da maschiaccio, delle vicine di casa sempre pronte ad aiutarla, la signora Falcone e la signora Delfino e una un po’ più scontrosa proprio sullo stesso pianerottolo, la signora Currieri. Mi portava sempre con lei, dalle sue amiche oppure a fare la spesa e chiunque la incontrasse la salutava perché lei era gentile con tutti.

Mi raccontava sempre delle storie di mio padre, quando l’avevano derubato a Mondello ed era tornato senza scarpe o quando era con Salvo e Santino e ‘facevano l’opera’, come diceva lei. A volte prendeva i suoi quaderni per mostrarmi i suoi voti delle elementari, fiera di avere un figlio che non le aveva mai dato problemi né a scuola, né nella vita.

Voglio ricordare i miei nonni, voglio lasciare scorrere quell’ondata di spensieratezza di bambina che mi ha resa una persona migliore, voglio scorrere quelle foto, cercando un collegamento con la mia vita attuale. E la sensazione più strana di tutte è il senso di estraniamento che provo non nella vita passata ma nella vita reale, dove nulla è più al suo posto e dove non sento ancora mia la parte dell’adulta.

 

 

 



Nonna Giovanna e nonno Mario


Mi ricordo il nonno Mario che mangiava le arance sul piano di marmo della cucina appena tornato a casa. Prima di entrare dalla porta, nonostante avesse le chiavi, suonava il campanello e io e la nonna tendevamo per un attimo l’orecchio per vedere se un attimo dopo si sarebbe aperta la porta.

Quando entravo a casa della nonna Giovanna un odore inebriante di salsa fresca mi riempiva di buonumore. Oltre al sugo di pomodoro, la sua specialità era la pasta alla grinta, con i peperoni sottolio che teneva nel camerino, al buio. Li cucinava una volta l’anno e li metteva nei vasetti con un po’ di olio e aceto, così come i barattoli di olive condite con origano, aglio e olio.

Mi mandava a comprare due etti di prosciutto cotto alla Crai e mi guardava dal balcone mentre attraversavo la strada. ‘Gioia mia, un ti siddiari, m’avissi a fari un piaciri’, mi diceva.

Prima di partire per la campagna di Bolognetta c’era una lunga preparazione e la nonna scendeva da casa per ultima, piena di sacchetti con contenitori e roba da mangiare. Il nonno stava in macchina ad aspettarla e pure noi, e non capivamo come mai ci mettesse così tanto a prepararsi. Poi scendeva, con il suo profumo Felce Azzurra e il suo odore di borotalco, i capelli pettinati e una collana di perle, la gonna sotto il ginocchio e la sua espressione seria, certa che da lei dipendesse la riuscita di tutta la giornata, certa di aver fatto lei tutto il lavoro e adesso al nonno non restava che guidare. Io, Gabri, Dani e Riccardo dietro e il nonno che guidava pianissimo, e se qualcuno suonava il clacson, con il sorriso strafottente sulle labbre diceva ‘Sì, suona suona’. A volte guidava in folle nelle strade in discesa, per non sprecare benzina. Dietro noi cantavamo a squarciagola le canzoni di Sanremo, “Trottolino amoroso”, “Brutta”, I Neri per Caso, Ivana Spagna. Alla nonna Giovanna piaceva sentirci cantare, e se il nonno parlava lo zittiva e diceva ‘viri ch’i picciriddi stannu cantannu’.

Alla nonna piaceva Iva Zanicchi e la “Ruota della Fortuna”, le piaceva Sgarbi perché diceva che era un uomo intelligentissimo e colto, guardava “Forum” su Rete Quattro. Al nonno Mario invece piacevano i film western, guardava praticamente solo quelli. Gli piaceva anche Luisa Corna, diceva che era una bella cavalla.

D’estate si stava in balcone sulle sdraio, al fresco. Si guardava quello spicchio disordinato di città dall’alto, da dove il caos era ancora maggiore e si percepiva il movimento incessante. C’era Gaetano il fruttivendolo che si prendeva metà marciapiede, con la sua marea di cassette di frutta, la maggior parte delle quali vuote, non ho mai capito il perché.

La nonna Giovanna dal carnezziere prendeva sempre le fette di trinca o il perno, che sapeva solo lei che taglio di carne fosse. A volte andava a comprare la carne a Marineo e ci faceva aspettare sempre in macchina. Dal panettiere, invece, portava le teglie di pasta cruda di sfincione per farsele cuocere quando c’era qualche serata di famiglia come a Natale. Mia nonna mi ha insegnato ad impastare, a fare lo sfincione, facendo attenzione alla lievitazione, alla quantità di olio, sale e zucchero da mettere nell’impasto. Quelle sue mani piccole con le dita gonfissime, per niente fluide nei movimenti, facevano capolavori in cucina. La nonna mi ha insegnato a cucinare anche la parmigiana e i calzoni fritti di carne di vitello, delle tasche di carne con dentro la provola e il prosciutto.

Ogni tanto, mentre eravamo a tavola, arrivava la telefonata di qualcuno e la nonna prendeva la sedia e la posizionava accanto al mobile marrone dove c’era  il telefono. In genere parlava o con la zia Graziella o con la zia Mela. Accanto al telefono una rubrica di un bordeaux sbiadito raccoglieva  numeri scritti in bella grafia dalla nonna, numeri di telefono del panificio, l’alimentari di Marino, figli, nipoti e parenti ma soprattutto quello delle bombole. Era una grafia da scuole elementari piena di ghirigori e tentennamenti, incerta eppure elegante.

L’acqua in frigo era sempre travasata nelle bottiglie di vetro dal nonno che tutti i giorni andava in via Perpignano a riempire i bidoni da cinque litri. Spesso portava un bidone anche a casa mia, la mattina prestissimo, quando noi eravamo ancora in pigiama.

Il nonno da Palermo andava a Corleone a piedi, a volte senza scarpe per non consumarne le suole. Se, arrivati nell’androne d’ingresso di casa sua, provavamo a salire in ascensore ci prendeva sotto braccio e indicando le scale ci diceva ‘Avà, acchiana’. Non tollerava la pigrizia e ci scherniva se provavamo a rifiutarci, facendoci il verso. La sua era un’educazione militare che ci spronava a fare sempre meglio così da evitare di subire le sue critiche. Quando veniva a prendermi a scuola, alla Noce, mi faceva camminare a piedi, sostenendo di aver posteggiato la macchina a pochi metri. Puntualmente arrivavamo a casa, dove aveva lasciato la macchina e io mi arrabbiavo perché mi aveva mentito ma in cuor mio sorridevo perché sapevo perché l’aveva fatto.






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