Quanto facciamo fatica ad essere noi stessi?
Quanto ci disturba oggi stare soli con noi stessi?
Perché sono depresso?
Perché sono iperattivo?
Perché sono in burnout?
Dopo anni di terapia, colui che ha saputo rispondere
a tutte questa domande non è stato il mio psicologo ma Byun-Chul Han nel suo
saggio ‘La società della stanchezza’.
Siamo ‘soggetti di prestazione’. La prestazione è
ciò che ci costringe a lavorare, essere sfruttati e ad autosfruttarci. Quello
che chiamiamo burnout è il risultato di questo sfruttamento e autosfruttamento.
Byun-Chul Han dice che il vero nemico dell’individuo
tardo moderno è se stesso. Ciò genera depressione e frustrazione che si esprime
in fallimento. Il fallimento deriva proprio da quel tentativo di essere se
stessi, dell’affrontare la vita in totale autonomia, accettando un’atomizzazione
sociale che ci porta ad essere sempre più soli, in competizione con noi stessi,
costretti alla libertà assoluta quando della libertà non sappiamo che farcene o
quanto meno come maneggiarla.
La felicità non è più distribuita, come in
passato, dalla perfezione morale che ci conduceva alla gratificazione. La
nostra imperfezione non ha nulla a che fare con il rispetto delle regole, con
il dolore, con un conflitto con l’Altro ma nasce dall’essere soli e liberi di
essere noi stessi. Sembrerebbe una cosa buona ma questa libertà rappresenta in realtà il suopermanente
dramma. Kierkegaard diceva che il dramma e la miseria dell’uomo consistono proprio
in questo brancolare nel buio, nella permanente indecisione scaturita dalla mancanza
di una guida che ci permetta di orientarci.
La gratificazione, che prevede l’esistenza dell’Altro
per esistere, ci porta a sviluppare un disturbo narcisistico della personalità
che ci spinge ad avere sempre maggior necessità di conferme da parte degli Altri.
Sembra molto più comodo dunque rinunciare a se stessi ed autoannullarsi nella
depressione piuttosto che annegare nella molteplicità del nostro Io senza una
reale direzione o approvazione.
In questo contesto, il mondo digitale in cui
viviamo ci costringe a vivere senza
riferimenti reali che oppongano una giusta resistenza. L’Altro sparisce e l’individuo
è costretto ad incontrare solo se stesso e provare ad assumere sempre nuove e
diverse identità, in linea con quel concetto di flessibilità che gli permette
di essere sempre qualcun altro, incrementando la produzione ma non raggiungendo
alcun obiettivo realmente desiderato.
Ciò si traduce nell’incapacità di portare a
termine qualsiasi progetto in quanto mai confermato, approvato o osteggiato
dall’Altro. Penso al protagonista del film Fight
Club di David Fincher in cui Jack/Tyler vive lo strazio della dissociazione
dell’identità e può risolvere il suo conflitto interiore solo uccidendo una
delle sue identità che in questo caso, appunto, coincide con l’eliminare se
stesso.
Qual è la causa di questo annichilimento? Secondo Byun-Chul
Han la causa è da rintracciare nella
mancanza di un rapporto con l’Altro, nella solitudine scaturita dall’atomizzazione
sociale, dalla società digitale multitasking, che genera una passività mortale consumando
l’individuo tardo moderno.
Non esiste cura per tutto ciò, in quanto l’uomo
tardo moderno, dice l’autore, non è un prodotto della società disciplinare
repressiva, e il malessere che ha dentro di se non dipende da fattori esterni
ma piuttosto da una mancanza di relazione con fattori esterni. L’eterodirezione
della società di massa non esiste più, è annullata, annientata dal mondo del se
che non ha più una base reale per essere ciò che è o ciò che non è.
Questo autoriferimento esagerato ci porta ad
essere incapaci di fuoriuscire da noi stessi perché non possiamo affidarci agli
Altri e siamo quindi costretti a svuotarci fino al logoramento, all’ ‘infarto
dell’anima’.
Ne conseguono irritabilità e nervosismo, ma mai rabbia.
La rabbia è un sentimento in via di estinzione, richiederebbe un’energia in
grado di provocare un mutamento incisivo, di scuotere l’intera esistenza e
attivare una rete di anticorpi e di difesa immunitaria naturale. L’irritazione
costante, dice Byung-Chul Han, sta alla collera come la paura sta all’angoscia.
La collera, come l’angoscia, non si riferisce ad un singolo stato di cose ma
all’intera esistenza, negando l’intero. L’individuo si trasforma così in una ‘macchina
da prestazione autistica’ affetta da depressione, disturbo dell’attenzione o
iperattività. Così, suggerisce l’autore, ‘siamo tutti troppo vivi per morire e
troppo morti per vivere’.
Cosa può salvarci da questo livellamento sul grado
zero? Cosa può riportarci in vita , una vita reale che sia un concetto opposto
a quello di morte e autismo identitario?
Le feste, dice Byung-Chul Han. I rituali e le
feste.
Perché?
Perché alle feste si consuma ma non si produce.
Perché le feste sono occasioni per confrontarsi con la realtà, con un’alterità
in carne ed ossa, in cui il valore di mercato o quello virtuale digitale viene
sostituito con la dignità di una relazione reale.
Facciamo in modo che l’economia della condivisione
produca legami fondati sulla resistenza e sull’essenza e che gli spazi vuoti
dell’Io siano colmati da scambi reali in cui siano presenti anche conflitti, in
cui siano resistenti anche sentimenti negativi come rabbia e angoscia.
Riferimenti:
La società della stanchezza, Byung-Chul Han, Edizioni Nottetempo, 2021
Aut-aut, S. Kierkegaard, Mondadori, 1977
Fight Club, David Fincher (film tratto dall'omonima opera di Palahniuk)