mercoledì 5 febbraio 2025

"La crisi della narrazione" e "Contro la società dell'angoscia" di Byung-Chul Han

Mi sembra che il mondo intero stia iniziando a prendere coscienza di cosa ci accade. Forse è solo il mio algoritmo che mi mostra testi di rifugio, speranza e rivoluzione ma ho la sensazione piena che questa barbarie che ci ha regalato il nostro secolo verrà spazzata via da menti illuminate, proprio come succede ciclicamente nella storia del mondo.

In questi giorni mi sono rifugiata nella noia, che ha portato alla luce una solitudine estrema, in cui la fiducia nel proprio essere può salvare o ferire definitivamente.

Cosa c’è dentro la noia? Cosa c’è di bello o di brutto nel rimanere soli con sé stessi?

Mi sono raccontata il tempo, ho stanato le storture per accettarle e ho vaneggiato sul futuro, l’ho costruito fino a renderlo reale.

Ormai sono abituata a stare distante da chiunque ma mi sembra che l’intero mio mondo, fatto di esigui contatti sociali, per lo più mediati da uno schermo o un telefono, mi abbiano atrofizzato l’anima. La community di cui parla Byung Chul Han nel suo libro, ovvero la comunità di consumatori che producono modelli narrativi al servizio del commercio, producono proprio l’erosione del concetto di comunità, una comunità che si nutre solo di consumo e che promuove unicamente vendita di storie come fossero merce.

Non le tocco le persone che amo, posso toccare solo mio figlio e il mio compagno . Questa assenza di contatto è in effetti una povertà di mondo reale in cui la solidarietà e l’empatia non possono esistere e in cui la depressione, l’isolamento e l’angoscia la fanno da padroni. Esiste solo l’impegno nel produrre sé stessi, una condizione di egoismo diffusa in cui ognuno di noi è impegnato ad autopromuoversi, in cui il narcisismo individuale fa sì che nessuno si interessi più alla sofferenza degli altri. L’uomo si isola per diventare imprenditore di sé stesso e non c’è spazio per la solidarietà.

Nella società dell’angoscia siamo costretti a vivere in una prigione, in una condizione costante di solitudine, alienazione e diffidenza costanti in cui la ‘strettezza’, significato etimologico della parola angoscia,  riduce ogni prospettiva di contatto narrativo con l’altro.

La mia noia è stata invece un momento di pausa autoimposta, non un momento di tedio ma  uno staccarsi dalla vita lavorativa, da quella produttività potenziata dal regime neoliberale dell’angoscia, una pausa per prendere tempo. Il tempo per riflettere, un tempo senza performance né creatività forzata, un tempo vuoto in cui ricostruire qualcosa, in cui immaginarne la nascita, un tempo di speranza.

Freud sosteneva che la funzione della coscienza fosse quella di proteggere dall’eccesso di stimoli. Sorvegliare gli stimoli, in un mondo in cui la realtà esiste solo come sezione dello schermo digitale, è un compito arduo. Il nostro apparato psichico ha perso sensibilità percettiva proprio a causa di questa feroce inondazione di stimoli legati all’avvento del digitale. In questo senso la noia potrebbe essere uno spazio neutro in cui ripensare a costruire un futuro in cui i momenti shock provenienti da impressioni singole non siano legate ad uno schermo ma al frutto di un ragionamento basato sulla realtà fisica che abbiamo di fronte. Indispensabile che la noia diventi però un processo di gruppo, in cui l’Altro venga cercato, incluso, ascoltato.

Byung Chul Han ci dice che la pandemia dell’angoscia si combatte con un concetto trascendentale che appartiene all’essere umano da sempre: la speranza. La speranza anticipa la nascita del Nuovo, in cui il Nuovo è una forma di vita nascente, una fede incrollabile legata alla certezza che vi sia un senso, è un rifiuto di accontentarsi dello status quo per andare oltre, una spinta verso l’Altro. In sostanza, come suggerisce Paul Celan, la speranza è un ‘non sentirsi persi’.

E cosa ci serve per non sentirsi persi? Ci servono gli Altri.

Immaginatevi un Decameron contemporaneo, una stanza in cui si possa ricreare un modello narrativo attraverso il racconto e l’ascolto. Byung Chul Han parla della narrazione come un potenziale rimedio all’ isolamento frutto del capitalismo della vita moderna, appropriatosi della prassi narrativa.

L’esempio più bello analizzato dallo scrittore sudcoreano (seguendo le considerazioni di Walter Benjamin), è quello di Erodoto, definito ‘grande maestro della narrazione’. Erodoto racconta la cattura del re d’Egitto Psammetico da parte del re di Persia Cambise che, dopo averlo sconfitto, lo umiliò costringendolo a guardare i prigionieri sfilare davanti a lui. Psammetico, nel racconto di Erodoto, resta muto non solo quando vede la figlia trattata come una serva ma anche quando vede il figlio mandato al patibolo. Resta muto e immobile finché non riconosce tra i prigionieri uno dei suoi servitori. In quel momento le sue grida di dolore diventano strazianti e inizia a percuotersi violentemente il petto.

Perché? 

Erodoto non lo racconta.

Ed è proprio questo che rende questa storia magica, significativa, fissata nella memoria del lettore. Narrare presuppone una comunità disposta all’ascolto, in cui alcuni fatti sono omessi proprio per rafforzarne il valore. Al contrario delle informazioni veicolate dai mezzi digitali producono solo effetti e reazioni istantanee. Il racconto è di contro un seme la cui forza germinativa rimane nel tempo.

Per questo la narrazione può salvarci. Può ridarci indietro il vero concetto di comunità con il suo bagaglio di esperienza e saggezza. 

Solo attraverso la narrazione si produce una comunità solidale e che può indurci a sperare che l’individualismo coatto dell’autopromozione genera solo angoscia, frustrazione e depressione.





 


sabato 11 gennaio 2025

Perché oggi Torino è la città più anarchica d'Italia?

 

L’ultima volta che ho sentito parlare di anarchici a Torino è stato qualche giorno fa, durante la protesta per la morte di Ramy Elgaml, il diciannovenne morto la notte dello scorso 24 novembre dopo lo speronamento da parte di un’auto dei Carabinieri. A dire il vero ne ho sentito parlare centinaia di volte da quando vivo in questa città, dallo sgombero dell’asilo occupato di via Alessandria al corteo per Alfredo Cospito, e ogni volta penso la stessa cosa: Torino è la città più anarchica d’Italia. Non mi interessa dare un’accezione negativa o positiva a questa affermazione ma scoprirne le ragioni, capire perché qui l’anarchia si trasformi quasi sempre in violenza e perché la rabbia sociale si manifesta in scontri pericolosi anche per i cittadini che protestano pacificamente.

Perché una violenza tale? Perché una rabbia così feroce? Ho provato ad interrogare alcuni amici di Torino sulla questione. Qualcuno era quasi compiaciuto nel prendere atto di questo primato, altri hanno esitato prima di dare una risposta ad una domanda che sembrava così semplice ma che nasconde ragioni sociologiche tutt’altro che ovvie.

Una delle spiegazioni è forse legata alla Fiat. Cosa succede se dal Sud emigrano intere famiglie per popolare una città fredda e austera come Torino? Succede che la popolazione subentrante viene ghettizzata e tenuta alla larga dai contesti centrali della città, esattamente come quello che è successo dopo in Italia con l’arrivo di migranti da tutto il mondo. Questa formula del ‘ti confino in un quartiere e da lì non ti muovere’ ha fatto sì che il tessuto sociale non solo fosse disgregato ma che nascessero delle comunità locali in cui il dialogo e il reciproco aiuto, l’assistenzialismo sociale fossero alla base di un ordinamento politico e che lo ‘stare insieme’ fosse l’unico premio al sacrificio di massa dovuto all’espatrio.

I luoghi vergini, dimenticati, confinati del ghetto hanno costituito delle roccaforti di umanità anche quando il Comune di Torino, con la gentrificazione di massa iniziata nel 2006 con le Olimpiadi invernali, ha cercato di riqualificare quei quartieri ‘operai’ o ‘multietnici’ per interessi economici diversi e per offrire un ‘decoro’ (parola estremamente abusata dall’amministrazione cittadina) zone che ai cittadini di altri quartieri facevano paura. Per evitare che i torinesi si spostassero (come stavano già facendo) nelle zone limitrofe a Torino, l’amministrazione decise di coniugare gli interessi economici e imprenditoriali di una fetta della città all’ansia sociale generatasi nel contatto con il diverso modus vivendi dell’altra parte di popolazione acquisita.

Se la paura crea diffidenza, accade che ci si isoli a livello sociale e ci si disinteressi completamente delle questioni politiche della città. Torino oggi è una città in cui il gap culturale, sociale ed economico è estremamente alto e lavorando negli uffici postali mi è capitato di incontrare clienti smisuratamente ricchi, con diverse case al mare e in montagna e un reddito molto alto e persone costrette a vivere per strada (laddove non disturbi il ‘decoro urbano’) a seguito della crisi che ha costretto piccole e medie aziende a chiudere i battenti. Ciò crea una spaccatura profonda nel tessuto sociale e accade che i ricchi non si fidano dei poveri e i poveri dei ricchi.

La solitudine sociale ha fatto in modo che i nuclei familiari si disgregassero e la libertà individuale è stata sostituita dalle regole. L’interruzione  della vendita di alcolici oltre le ore 24 e la vendita di bevande in bottiglia di vetro oltre le ore 23 hanno causato chiusure temporanee o definitive delle attività commerciali, il contenimento dei volumi della musica tra i 45 e i 50 decibel durante le ore serali e notturne al fine di non interferire con la quiete pubblica dei residenti, la difficoltà di creare eventi nelle piazze, soprattutto a seguito dell’evento del 3 giugno del 2017 che ha causato la morte di tre persone, la chiusura dei Murazzi, luogo di attrazione e socializzazione ineguagliabile.

A che servono le regole in una città? Perché il rispetto delle regole, anche le più assurde, è fondamentale in questo periodo per il funzionamento di un governo politico? Le regole sfruttano la paura e creano un meccanismo sociale che invita i cittadini alla sicurezza, alla tutela dall’ ‘altro’ anche quando l’ ‘altro’ non è una reale minaccia e preferiscono chiudersi in casa rinunciando alla loro libertà individuale piuttosto che aggregarsi e ragionare su una politica che tenga realmente conto delle loro esigenze reali.

Come diceva Umberto Eco, se non abbiamo un nemico dobbiamo costruircelo. Questo è quello che succede nella ‘guerra’ anarchica a Torino, una protesta che trova come primi capri espiatori coloro che fanno rispettare le regole e che rappresentano uno Stato che non conosce i contesti sociali reali e si erge a risolutore di questioni complesse tramite  manganelli.

Prevedo un aumento esponenziale dei casi di rivolta sociale in Italia. Arriverà forse un giorno in cui gli uomini si disinteresseranno totalmente agli uomini e non ne sentiranno la mancanza ma prima tutti i ghetti del paese cercheranno di reagire per difendere il diritto alla libertà e all’umanità. Per ora la parte gentrificata della città ha sostituito gli esseri umani con i cani (decisamente più fidati), ricevendo affetto dagli animali piuttosto che dalle persone. La ‘cultura del sospetto’ che allontana la popolazione delle città ci ha resi scettici nei confronti della stessa vita, laddove prima la vita era condivisione, aiuto, umanità.


Porta Palazzo, 2016


 

venerdì 3 gennaio 2025

Tempo

 Nella morbida ovatta della noia lavorativa,

mi si blocca nel petto

il peso di tutte le cose non fatte,

non portate a termine,

di tutto ciò che non mi sono concessa 

per mancanza di tempo e brio.

Quale tempo? E quale brio?

Il tempo della rincorsa 

di qualche successo?

Successo per chi poi?


Il tempo del dovere

grava come spada di Damocle,

dando un senso sbagliato

all'essere viva, all'avere due occhi,

due mani, un cuore.

Inscatolarsi in cubi di muri bianchi

arredati di armadi blindati,

alimentarsi di luci artificiali.

Dalla scuola saltelliamo da una gabbia all'altra,

dimentichiamo il valore dell'uomo,

la sua natura beatamente animalesca,

libera,

scomposta,

complessa.

Dimentichiamo che 

il tempo deve rimanere tempo

e l'uomo

deve rimanere uomo.



mercoledì 27 novembre 2024

Rigurgito

Isolamento, repressione, disagio sociale, genitori che non si salutano, uomini che parlano ancora come cavernicoli riferendosi ad una bella donna, diritti lesi e vite annullate da una mail, capi arroganti e fascisti che sputano veleno, governo aberrante che svilisce il concetto di umanità, giustizia, etica. Genitori che parlano ai figli come fossero robot, bambini di Torino che se non fanno sport rischiano di finire in carcere per tentato omicidio. 

Nella violenza dell'oggi mi sento morire e mi commuovo quando guardo mio figlio che si aggira da solo nello scantinato della palestra guardando con la coda dell'occhio i movimenti violenti degli altri bambini. Vergogna che si insinua in ogni parte del corpo, ansia che pervade soprattutto il petto, che avvolge seno, polmoni, gola e stomaco e mi sento svenire, in un rigurgito di questo pezzo di mondo, di questa tristezza che io scorgo e non riesco ad ignorare.

E nelle viscere del mondo, partendo da questo tavolo, da questo pavimento, vorrei entrare per vedere se esiste qualcosa che possa restituirmi la pace, la parvenza di un'umanità autentica.  

La cosa peggiore che fanno tutte le persone che adesso mi circondano e mi ostacolano, in tutta la loro mediocrità, è togliermi la voglia di creare, edificare il mondo migliore per me, per mio figlio, uccidere la creatività e la libertà.




mercoledì 13 novembre 2024

Paura nelle città

 

La mia amica che vive a Barcellona mi ha mandato un messaggio stanotte. Si trovava sulla metro, erano le 11 di sera,  e alla sua stessa fermata, in un quartiere periferico, è sceso un ragazzo trans che ha cominciato a camminare a passo svelto controllando di tanto in tanto che qualcuno lo seguisse. Esprimeva paura, angoscia, disagio. 

La paura è un’emozione che accomuna chiunque. Daniela sostiene che un transgender ha più paura perché vive una condizione di forte ansia sociale più di chiunque altro. Forse è vero ma la paura è un’emozione da sempre legata al contesto sociale, è diversa se ti trovi in un paesino con pochi abitanti o una metropoli. 

Cosa c’è quindi di strano? Cos’è che ha colpito così tanto Daniela? Quella stessa paura la provava anche lei quando tornava sola a casa a Palermo di notte, quando era una ragazzina fuorisede iscritta all’università. 

Forse la domanda giusta da porsi è: come sono cambiate le città negli ultimi 50 anni?

Cosa è cambiato a livello urbanistico e perché abbiamo tanta paura di essere aggrediti?

Leggendo il libro Fiducia e paura nelle città di Bauman, mi sono resa conto di quanto la verticalizzazione del tessuto sociale, che divide i ricchi (sempre più ricchi) dai poveri (sempre più poveri) abbia determinato una riqualificazione notevole dei quartieri centrali. Ovunque tu vada, nei centri delle grandi città, si assiste alla nascita continua di  opere di ristrutturazione di qualsiasi tipo, con investimenti urbanistici importanti e impalcature a ricordarne il progetto. Dall’altra parte si assiste invece un’impoverimento urbanistico, nonché degrado, di quei quartieri periferici che ospitano i meno abbienti. L’abbandono di una parte di città per dare risalto ad un’altra parte, quella di facciata, ha inaugurato quella che viene definita da Bauman la ‘politica della paura’. E la paura, nella politica di una città è la base perfetta per il controllo e la repressione, è il meccanismo che genera una maniacale ossessione per la sicurezza in tutti i cittadini.

Rispetto al 2004 (anno di pubblicazione del testo di Bauman), mi sembra che qualcosa sia cambiato. L’ossessione per la sicurezza, madre di una xenofobia che si manifesta nell’odio, nell’insofferenza totale verso lo straniero, ha generato una totale mancanza di accettazione di tutto ciò che è ‘altro’, diverso, invisibile agli occhi dei ‘cittadini di prima fila’. Prima erano migranti, poi stranieri, poi trans, donne, infine gente comune. Adesso tutti siamo coinvolti e questa verticalizzazione di cui parla Bauman non esiste quasi più. Anche nei centri, per motivi diversi forse da quelli del passato, ci sentiamo minacciati da costanti pericoli invisibili che però sembrano essere dietro l’angolo.

I luoghi (che si differenziano dagli ‘spazi’, resi anonimi e quindi vuoti di un vissuto esperienziale), vengono sottoposti alla logica della vigilanza continua come a ricordarci che il pericolo c’è sempre e va avvertito. Lo ‘spazio scabroso’, come lo chiama l’architetto americano Steven Flusty è quello che non può essere comodamente occupato o vissuto per via dell’assenza totale di panchine nei luoghi pubblici come le stazioni o dei bordi inclinati che impediscono di sedersi. Questo è un modo per evitare lo stazionamento di barboni, tossici o altre persone socialmente inaccettate per non trasformare i luoghi pubblici in zone di bivacco. Quel bivacco che a parer mio è fondamento di inclusione e di formazione di identità di un luogo. Se i balconi hanno delle ringhiere, è perché sono pericolosi e un bambino deve saperlo in modo tale da non sporgersi troppo ma se muro le finestre per evitare che il bambino si affacci al balcone o si infili tra le sbarre della ringhiera, non gli darò più la possibilità di guardare fuori. Questo è quello che è successo nelle città negli ultimi 40 o 50 anni. L’eccessiva sorveglianza anche in termini urbanistici ha creato un modello di paura che suggerisce di non stazionare nei luoghi, soprattutto nelle ore notturne.

Cosa crea questa rivoluzione urbanistica? La disintegrazione della vita comunitaria di una città.

E cosa succede quando la comunità intera, centro e periferia, è invitata a non riunirsi in nome di un’uniformità di uno spazio sociale?

Succede che la città diventa davvero pericolosa.

L’invito a rimanere a casa, per favorire una sicurezza sociale, non è altro che quello che abbiamo vissuto durante il Covid. Cosa hanno fatto i cittadini durante il Covid? Si sono chiusi nelle loro case e hanno creato una vita votata alla difesa che gli consentisse di sopravvivere anche in mancanza dell’ ‘altro’.

Tutto ciò ha potenziato le relazioni digitali, ha accelerato di decenni la naturale avanzata tecnologica che permette di vivere in una bolla chiusa, pensando di avere tutto a portata di mano, che ha esautorato ogni luogo di comunità fisico all’interno di una città. L’uniformità dello spazio sociale, caratterizzata dall’isolamento spaziale, ha generato un’ancora minore accettazione delle differenze sociali, ha creato l’immagine di città inclini al pericolo e meno sicure.

In questo contesto, paradossalmente, il digital divide, ovvero il divario tra la popolazione meno digitalizzata e quella più digitalizzata, meccanismo ancora discriminatorio nei confronti delle classi meno abbienti, ha favorito la spinta verso isole di identità e somiglianza in quella popolazione esclusa dalla tecnologia. Il vantaggio diretto è stato dato dalla possibilità di aggregazione che ha condotto ad un isolamento all’interno dello spazio urbano ma anche una riappropriazione di luoghi incontaminati dalla sorveglianza.

Lo spazio urbano, prima luogo di condivisione e costruzione di identità, diventa così per i poveri una roccaforte per la sopravvivenza di un senso identitario comune, in cui le differenze ne costituiscono la ricchezza e diventano l’alternativa vincente per non cedere alla politica della paura.

Cosa dovremmo fare dunque per non avere più paura? Forse iniziare a ‘contaminare’ i centri, condividere in massa lo spazio urbano, ricominciare a mescolare lingue e culture negli spazi centrali e periferici, riappropriandoci delle voci identitarie che da sempre sono la base di una democrazia. Tutto ciò servirà ad evitare che la paura diventi un meccanismo di marketing gestito dalla politica o dalle grandi multinazionali e favorire la difesa naturale dell’essere umano capace e fiero di vivere in società.



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